Matematici non informatici

Da quando abbiamo reso il mondo un posto calcolabile alcuni – diremmo i più – si sono convinti che il genere umano per progredire abbia bisogno di informatici, meglio di programmatori. I “developers” –  gli sviluppatori – merce preziosa e richiestissima dalle OTT. Persone che scrivono e testano i codici. Qualcuno direbbe gli algoritmi. Persone in grado di ampliare e rendere sempre più sofisticata la nostra “percezione digitale” del mondo.

Qui a bottega non siamo  convinti che la strada da percorrere debba essere per forza questa.  Motivo che ci spinge, facendoci – come sempre –  “aiutare” dai contributi di scrittori, pensatori, giornalisti e scienziati, “illustri”,  a provare ad abbozzare un ragionamento diverso. Una riflessione che parte dal concetto di errore. Treccani docet: 

 

 

 

 

1. Si chiama ERRORE il fatto di allontanarsi, col pensiero o con l’azione, dal bene, dal vero o da ciò che conviene; viene detto errore un peccato, una colpa (scontare i propri errori; un e. di gioventù), 2. oppure un’opinione o un’affermazione contrarie al vero (sei in e. se la pensi così; e. di ragionamento; sono errori di concetto, non di forma), 3. oppure tutto ciò che contrasta con le regole di una tecnica o di una scienza, e dunque manca di correttezza (e. di grammatica, di ortografia; fare un e. di calcolo; una pagina piena di errori di stampa). 4. Un errore può anche essere un’azione inopportuna, che causa uno svantaggio (è stato un imperdonabile e. non invitare anche lui; commettere un e. strategico; fu una politica piena di errori). 5. Il termine errore ha infine dei significati più specifici, a seconda dell’ambito d’uso. In equitazione, un errore è un’irregolarità compiuta durante una prova (abbattimento di un ostacolo, caduta del cavallo e così via), che causa una perdita di punti; 6. nella scherma, è l’esecuzione di un colpo che non arriva al bersaglio secondo le modalità previste dal regolamento; 7. in informatica, infine, si chiama errore ogni tipo di malfunzionamento che durante l’esecuzione di un programma non permette di ottenere correttamente il risultato atteso (il computer ha dato un messaggio di e.).

 

 

 

 

 

La nostra società così lanciata a velocità iperbolica verso un futuro “semplificato” a tutti i costi, magari dalle macchine, o ancora meglio da servo meccanismi governati  dall’intelligenza artificiale, è una società pervasa –  come sempre –  ma forse ancora di più ora,  dopo la “conversione digitale”,  dagli errori.  Particolarmente appropriata, fra le definizioni  di errore della “Treccani”,  arriva la numero sette,  che riguarda gli errori “in informatica”, ovvero quelli delle macchine che abbiamo usato –  e stiamo usando –  per digitalizzare il mondo. Per renderlo calcolabile. “L’errore – citiamo testualmente – riguarda ogni tipo di malfunzionamento durante l’esecuzione di un programma”. Come dire che: in una società che rifugge la complessità, la abolisce, la esilia, non la considera, privilegia tutti i meccanismi possibili di “semplificazione”,   e si affida in modo sempre più massiccio all’uso delle macchine. Quelle stesse macchine sono letteralmente permeate dagli errori. Costruite per fare errori e poi correggerli,  per migliorarsi.  La programmazione delle medesime macchine è frutto di un processo che si realizza sbagliando e andando oltre. Realizzando aggiornamenti. Upgrade. Nuove Versioni. Il percorso operativo dei programmatori,  e delle macchine che sono il  ricettacolo del loro lavoro,  è talmente denso di errori e miglioramenti nei programmi, nei codici, negli algoritmi; da non poterne fare a meno. Riuscite a cogliere il cortocircuito?  Il sentire comune ci consegna una società “semplificata”,  – falsamente vorremmo aggiungere – ma le macchine che dovrebbero renderci più facile la vita, lavorano e progrediscono quasi esclusivamente compiendo sbagli e correggendoli. Ne più e ne meno come facciamo noi umani. Del resto umani sono coloro che rendono possibile il  lavoro di queste macchine.   Ma lasciamo spazio a chi ne capisce molto più di noi e andiamo a pescare un contributo di qualche anno fa assai utile –  a nostro avviso –  per argomentare meglio  la nostra riflessione.

 

Partiamo dunque  dalle considerazioni di Piero Dominici sull’errore o meglio dall’analisi che il sociologo romano, nostro associato e grande amico di digit,  ha realizzato in un suo “paper” del 2014 in cui esamina il pensiero e il  lavoro del grande filosofo francese Canguilhelm:

 

 

 

 

il concetto di errore rappresenta la base su cui fondare l’analisi del problema della verità e della vita. La vita stessa è definita come ciò che è in grado di commettere un errore. L’errore, indispensabile per la stessa evoluzione della specie, è il punto di partenza da cui si è sviluppato tutto il pensiero umano ed è ciò che ha permesso alla conoscenza di evolversi continuamente. In altre parole, il processo di evoluzione dell’essere umano e la storia della vita sono – potremmo dire – geneticamente determinate dalla possibilità costante che si verifichi un errore.

La nozione di errore, che per Canguilhelm è il nodo concettuale che tiene unite vita e conoscenza della vita, introduce un altro problema fondamentale, quello della “norma”, una questione che coinvolge direttamente tutte le discipline del sapere umano. La norma – e quindi la regola -, funzionale all’istituzione del proprio ambiente, rappresenta soprattutto la possibilità di unificare il “diverso”, “l’anomalo”, anche se è sempre l’eccezione che dà alla regola il valore di regola. Il grande insegnamento che emerge da questo lavoro è quello che non vi possono essere certezze assolute in nessun ambito di discorso, dal momento che l’eventualità dell’errore non è trascurabile e dal momento che l’ambiente di vita, il fattore che determina il passaggio da “anomalia” a “patologia”, è un valore estremamente variabile, frutto della relatività dei processi storici.

 

 

 

 

 

Nel libro “pensare con l’errore” la docente universitaria  di estetica e filosofia contemporanea, Brunella Antomarini,  ci avvicina   al concetto di errore attraverso il racconto di alcuni degli esempi più “clamorosi” di errori della storia, dell’arte, della scienza. Pensare con gli errori invece di escluderli è il meccanismo  – secondo l’autrice – attraverso il quale si attivano i progressi reali della conoscenza. Come accade ad esempio in fisica  con la cosiddetta “campana di Gauss”:

 

 

 

 

 

Che gli eventi casuali possiedano un ordine, era stato studiato, prima che dai teorici del caos, da matematici come Abraham De Moivre, che nel suo libro The doctrine of chances del 1738 aveva scoperto che le probabilità che governano il gioco dei dadi o il gioco delle freccette formano un grafico a forma di campana, poi visualizzato alla fine del secolo da Johann Carl Friedrich Gauss; tirando i dadi ripetutamente, prima o poi la equiprobabilità, quindi la casualità totale, assume una qualche regolarità. Ripetendo il tiro delle freccette molte volte, la probabilità di colpire il bersaglio corrisponde al grafico di Gauss: quando miriamo al bersaglio, facciamo errori tanto più frequenti quanto più piccoli. Le freccette infatti si accumulano intorno al centro, e si fanno gradatamente più rade verso i bordi. Lo stesso vale per le osservazioni scientifiche sperimentali. Gauss scoprì che la distribuzione degli errori di osservazione ha una certa regolarità. Se ogni individuo di un gruppo di astronomi osservasse la posizione di una stella per molte volte, risulterebbe che ogni volta e per ogni individuo la posizione varia; e le cause possono essere un cambiamento nelle condizioni atmosferiche, la temperatura o l’umidità del telescopio, differenti capacità ottiche degli osservatori, insomma errori accidentali. Ma la casualità ha una sua “normalità”: la frequenza degli errori accidentali è tanto più grande quanto più l’errore è piccolo ed è massima quando l’errore si avvicina a 0, cioè alla certezza (il picco della campana) – quindi minima quando l’errore è grande, cioè quando si avvicina all’improbabilità (la base della campana, in cui si distribuiscono orizzontalmente e simmetricamente gli errori per eccesso e per difetto).

Dunque definiamo la posizione della stella anche se sappiamo che può non corrispondere a quella reale e la risposta giusta risulta da una decisione, chiamata “funzione degli errori”, nel senso che gli errori fanno parte del calcolo che arriva alla conclusione non erronea. Quello che ci sembra rilevante è che gli studiosi delle teorie probabilistiche sono pensatori “realisti”: l’esistenza della stella è “implicata” dalle osservazioni discrepanti, come dire che le imperfezioni delle contingenze sono l’unica cosa su cui ci basiamo per renderci sempre minore la probabilità di sbagliare (Menand, 2001, pp. 172-182). L’errore dunque viene calcolato per poter essere minimizzato e permettere di decidere, più o meno arbitrariamente rispetto a una conclusione precisa, che cosa è reale. 

(Brunella Antomarini Pensare con l’errore)

 

 

 

 

“… gli errori fanno parte del calcolo che arriva alla conclusione non erronea… L’errore dunque viene calcolato per poter essere minimizzato e permettere di decidere, più o meno arbitrariamente rispetto a una conclusione precisa, che cosa è reale”.  Perdonate la ripetizione, ma – come spesso facciamo qui a bottega – quando un concetto è espresso così bene, meglio riprenderlo e sottolinearlo, magari con una breve ripetizione che azzardarsi a riscriverlo con parole nostre. Lasciamo siano i grandi a parlare. Noi facciamo solo il nostro lavoro di giornalisti,   andiamo alla ricerca di pensieri e parole di alto valore per poterli proporre.

Se il mondo digitale è un mondo che siamo riusciti a rendere calcolabile, quindi riproducibile e –  sottolineiamolo svariate volte –  migliorabile, grazie a questo processo; non saranno i programmatori a renderlo davvero un posto migliore, bensì i matematici, i filosofi, gli scrittori, gli artisti, i poeti. In una parola “la cultura”, non la mera tecnologia. Non commettiamo “l’errore” – davvero grave e inutile una volta tanto –  di pensare che alla base del nostro mondo stia la capacità di sapere creare i programmi per i computer o anche solo di saper comprendere come sono costruiti questi codici macchina. Quella cosa lasciamola fare agli esperti, ai professionisti. E’ solo alzando l’asticella della fantasia, della creatività, di tutte le forme della conoscenza che riusciamo anche solo a immaginare;  che potremmo avere  qualche speranza di riprendere a “crescere”  –  tutti noi – e sperare in un mondo migliore, non certo insegnando il “coding” ai bambini piccoli o piccolissimi.

 

Il nostro mondo è un insieme complesso di cose, fatti, persone, insegnamenti, nozioni;  tutti diversi, tutti giusti e sbagliati nello stesso tempo. Ritroviamo al più presto la nostra dimensione più vera, quella della complessità.  Della stratificazione. Della profondità. Rifuggiamo le soluzioni preconfezionate che nella maggior parte dei casi non semplificano un bel niente. Se migliorare un processo, digitalizzandolo,  significa renderlo “inintellegibile ai più”, disumanizzarlo, e aggiungere nuove complicazioni e “burocrazia”, –  stavolta digitale –  a procedure  che già nel mondo “analogico” erano inutilmente  lunghe e complicate; forse vuol dire che non stiamo affrontando nel modo giusto la “transizione digitale”.  Se  continuiamo a dividere e dividerci fra analogico e digitale, vuol dire che ancora non abbiamo capito “la transizione” e nessuno ci sta aiutando a fare chiarezza. Se facciamo corsi, sessioni formative, studi e lezioni dedicate ai “problemi” del cyber bullismo, dell’odio online, delle – perdonate il termine – fake news,  e poi quando qualcuno ci chiede cosa siano i social o quale ruolo abbiano nel “sistema mondo”, minimizziamo dicendo: “che sono soltanto il bar sport della nostra epoca”. Forse un problemuccio da risolvere potremmo averlo,    che ne pensate?

 

 

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)