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Identità vo’ cercando

Siamo numeri,  masse sterminate da censire, catalogare, schedare, mediante sofisticati sistemi di controllo che ci riconoscono, meglio, ci identificano, visto che  conoscono la nostra faccia? Oppure siamo persone, entità singole che pensano, in perenne mutamento, oscillanti, incerti, creativi, incoerenti, in una parola: “liberi”?  Indubbiamente, siamo questo e quello. Quando ci troviamo in pericolo, bisognosi di aiuto e soccorso – cerchiamo controllo; e quando invece insofferenti, giocosi, “bradi e selvaggi”, seppur nel rispetto delle minime regole di coesistenza civile –  siamo in cerca, all’opposto,  soltanto di praterie sconfinate in cui scorrazzare liberi da ogni tipo di sorveglianza.  Di sicuro, a nostro avviso,  non siamo pecore alla mercè degli algoritmi di schedatura e controllo che le “piattaforme” – dette anche “techno corporation” o ancora meglio “meta nazioni digitali” –  da Seul a Pechino, passando per Europa, Americhe e Asia,  ci vogliono propinare a profusione per garantire:  “la nostra sicurezza”.  Anche perchè, con buona pace dei sistemi di apprendimento automatico delle macchine – siano essi machine o deep learning  – l’errore, vivaddio, regna ancora sovrano dentro alle nostre vite e dentro ai sistemi “intelligenti” che provano a governarle. E’ successo ad esempio in un aeroporto canadese, come ci racconta l’antropologo Duccio Canestrini nel suo libro Antropop che:

 

 

 

“Per dimostrare quanto illusorie siano le promesse e i sistemi di cybersecurity, il dipendente di un aeroporto canadese ha provato a entrare da una porta riservata al personale, con un trucco. Alla telecamera dotata di software di riconoscimento facciale ha mostrato una sua fotografia. E la porta si è aperta”.

 

 

 

Sicuri, anzi sicurissimi, basta però una foto per “gabbare” il sistema. Ma nonostante dimostrazioni come quella appena riportata e le  molteplici conferme che pongono l’errore e non le “certezze” –  come abbiamo raccontato recentemente –  quale condizione dominante – cosa di cui siamo felici, non fraintendeteci – delle nostre esistenze;  le cose stanno prendendo una piega drammatica e difficile da comprendere. Non contenti di schedarci a distanza col riconoscimento facciale e altri ammennicoli di quel tipo, i tecnocrati stanno mettendo a punto una forma di schedatura personale ancora più efficiente: la marchiatura dall’interno attraverso l’impianto di micro-bio-chip direttamente nel corpo umano. In particolare in un prestigioso ateneo dell’Arabia Saudita, il Kaust, stanno lavorando da alcuni anni ad un progetto che si chiama “I.o.B” acronimo che sta per “internet of bodies”, (l’internet dei corpi), una sorta di upgrade –  come gli scienziati stessi l’hanno definito – dell’I.o.T – ricordate, l’internet delle cose – quella cosuccia in cui stiamo per “sprofondare” a brevissimo con l’avvento planetario e la messa in uso dell’ultimo protocollo di trasmissione dei dati che si chiama: 5G?  Ma lasciamo che a parlarci di questo particolare progetto siano gli stessi scienziati del Kaust:

 

 

 

 

 

 

Nessuna intenzione di entrare nel merito degli studi scientifici, del resto non è di questo che ci occupiamo qui, però, tornando alla questione identitaria, prima di abbandonare del tutto la parte più sperimentale e scientifica del ragionamento, vale forse la pena ricordare che di “internet dei corpi”, prima forse degli scienziati, o forse insieme ai medici, biologi e bio-ingegneri, ne hanno parlato a lungo gli economisti, i politici e gli imprenditori al World Economic Forumo di Davos  del 2020.  E in quell’occasione – se abbiamo ben capito – non era tanto la salute delle persone e neanche la loro sicurezza, ad essere  al centro delle discussioni dei “potenti” di turno.  Ma – come al solito – il profitto. Unica costante di sempre e per sempre. In questa nostra società, capitalista suo malgrado, dove ogni possibile modello alternativo di “governo”, ha mostrato i propri limiti e nessuno, al momento, è in grado di suggerire qualche nuovo scenario. Tornando alla nostra riflessione sul concetto di  identità in questo mondo mutato e in perenne cambiamento, non possiamo dimenticare una definizione molto calzante che abbiamo trovato alcuni anni fa leggendo il  libro di Ed FinnCosa vogliono gli algoritmi“:

 

 

 

 

 

Non siamo mai stati più vicini a mettere in pratica la metafora della conoscenza computazionale pienamente implementata, oggi che un’esplosione di piattaforme sta reinventando la pratica e l’identità spesso implementando un me scaricato come app o allestito come servizio online . Siamo circondati da nam shub a cui obbediamo senza interrogarci dalle finestre di dialogo e dai form che compiliamo sulle piattaforme dei social media  all’arcano calcolo delle posizioni creditizie

 

 

Il dio Enki ha deliberatamente distrutto questo sistema universale rilasciando un virus nam-shub (un insieme di istruzioni che potevano alterare la mente e il mondo dell’individuo) e dando vita al mito della torre di Babele. I sacerdoti sumeri infatti somministravano dei “me” (specifiche unità di linguaggio che incarnano concetti culturali fondamentali) alla popolazione per ridefinire la sua identità culturale. Il codice può essere magico, e gli hacker sono i suoi sciamani, perciò lo riconosciamo come un sistema simbolico che opera tra cognizione e realtà. Investendo la figura del codice di potere culturale, sosteniamo anche l’idea che funzioni su una piattaforma, e cioè che nell’umanità possa girare un sistema operativo universale.

 

 

 

 

Se trovate qualche difficoltà a mettere bene a fuoco le parole di Finn, non preoccupateVi. Si tratta di una spiegazione – molto ben fatta a nostro avviso –  di un concetto che in parte il saggista ha  estratto da un altro libro : “Snow crash”. Un romanzo di fantascienza degli anni ’90 che anticipa in modo profetico – come spesso accade nella science fiction –  scenari e contenuti che oggi appartengono alla nostra quotidianità. Come  l’arrivo delle piattaforme  e il loro strapotere, oppure, il metaverso prossimo venturo,  di cui Zuck primo, come sapete,  si è autonominato imperatore assoluto, per davvero e non dentro un romanzo. A proposito avete già sentito o visto lo spot  di Meta che ci spiega come funzionano gli smart glasses coprodotti dall’azienda di Menlo Parl assieme  alla “nostra” Luxottica, in onda proprio in questi giorni?  Battute a parte,  ci piacerebbe concludere il nostro piccolo excursus sul concetto di identità,  con un altro estratto dal libro dell’antropologo trentino Andrea Canestrini:  Antropop. Un estratto che definisce in modo davvero efficace il rinnovato significato della parola identità, a partire dal titolo del paragrafo cui ci riferiamo: “fluidentità”.

 

 

 

 

 L’identità si dà per scontata nella sua evidenza come un marchio a fuoco sulla pelle, come un tabernacolo. Peccato che questo sacrario risulti sempre più vuoto. Proviamo allora a ripensare all’identità come a qualcosa di apponibile, scomponibile, amovibile. Si può

tranquillamente vivere con diverse identità come si indossano diverse T-shirt, e senza farne una malattia come lo psicopatico Woody Allen in Zelig. Dunque un’identità multipla e liquida, come è stata riplasmata dalla modernità. Poiché esistono diversi tipi di identità, personali e collettive. Ci sono identità tradizionali che reggono per un senso di appartenenza. E ancora identità che corrispondono a ciò che abbiamo o a ciò che facciamo.

 

 

 

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)

 

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