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Auspici ed aruspici

Ovvero:  come termini simili possano essere declinati e soprattutto usati in modo diverso nel corso del tempo e dalle persone,  e alla fine diventare quasi opposti nel significato,  sebbene nati uguali o molto simili. Un auspicio è termine buono, d’uso comune e nel lessico di chiunque. Aruspice è termine arcano, desueto, e usato – le rare volte che viene proposto – per indicare miti e leggende, il più delle volte oscuri e in voga fra creduloni, complottisti e “generici” poveri di spirito. Eppure in origine tali termini erano gemelli, uguali alla sorgente, o molto, molto simili, come detto nell’attacco del pezzo qui presente. Si scherza, oramai dovreste saperlo, cercando di trovare un senso a cose, persone e azioni, viene più facile, ridere o sorriderci sopra, che produrre litri, chili e chilometri di dichiarazioni di “saggia” indignazione. L’anno che abbiamo appena inaugurato ci porta segnali davvero strani e contrastanti come i due termini che abbiamo brevemente preso in esame nel titolo.

 

 

Segnali di energie costose e tremendamente tassate, senza un apparente motivo sincero e soprattutto corretto. Segnali di altre energie, quelle nucleari per interderci, divenute improvvisamente “verdi” e “pulite”, in un modo così repentino e ingiustificato, che neanche il miracolo del sangue di San Gennaro può riuscire a giustificare. Segnali di chiusure pesanti, sospensione dei diritti personali, allontanamento forzato ma “voluto , proclamato  e programmato” dalla democrazia e dall’esercizio del libero arbitrio per non si comprende bene quali e quanti obblighi di Stato.  Lungi da noi, come ben sapete, l’idea di entrare nel merito di questioni così “grandi e complesse”, anche se un pezzetto di questa complessità ce lo faremo un pochino spiegare qui sotto dal professor Piero Dominici estraendo uno stralcio da uno dei suoi ultimi scritti pubblici. Non siamo in grado di entrare nel merito e, soprattutto, non abbiamo gli avvocati e i denari per pagarli, in caso di querele milionarie e temerarie. Ma la china in discesa sempre più ripida che al termine di due anni di “rimescolamento globale dei valori in campo” questa pandemia ci ha lasciato, non può non farci riflettere e imporci di farlo a voce alta o meglio per iscritto.  A questo proposito, scrive Piero Dominici nel suo ultimo articolo pubblicato sul sito Nova del Sole 24 ore:

 

 

 

 

 

Nella civiltà ipertecnologica e della materia intelligente (?), fondata sul controllo totale, sull’illusione della prevedibilità, sulla programmazione/(iper)simulazione dei processi e delle azioni, e segnata da una progressiva crescita del tecnologicamente controllato – che marginalizza lo spazio della responsabilità – le sfide del cambiamento sono riconducibili all’urgenza di definire un sistema di pensiero adeguato al mutamento in corso e in grado di ripensare/ridefinire la centralità dell’Umano, dentro ecosistemi in cui non esiste più alcun confine tra naturale ed artificiale. In tempi di “tecno-capitalismo” e di “capitalismo della sorveglianza”[1], di egemonia della cd. «platform society»[2], le sfide più complesse e difficili continuano ad essere, ancora una volta e per numerose ragioni, quelle educative e formative.

Lo ribadisco con ancora più forza oggi immersi, come siamo, nel mezzo di una pandemia (di una serie di pandemie) che, nel riaffermare la straordinaria, e sostanziale, inadeguatezza dei paradigmi organizzativi e culturali, oltre che dei processi educativi e formativi, ha evidenziato, senza alcun margine di ambiguità, una crescente complessitàho sempre preferito parlare di “ipercomplessità” e dell’urgenza di abitarla, non essendo gestibile, controllabile, prevedibile – del mutamento (globale) in atto e la radicale interdipendenza e interconnessione di tutti i fenomeni, i processi e le dinamiche: ebbene, nonostante tali evidenze, non possiamo non rilevare come siano tornate alla carica, in maniera ancor più decisa e invasiva, le ipotesi/analisi/spiegazioni riduzionistiche e deterministiche fondate, a tutti i livelli della prassi sociale e umana, su quello che ho definito in passato l’“errore degli errori” – la confusione, il gigantesco fraintendimento, tra “sistemi complicati” e “sistemi complessi” (Dominici, 1995 e sgg.) – che, tra le varie implicazioni, ha determinato il ritorno, ancor più evidente, dell’egemonia della “tecno-scienza” e della “tecnocrazia” e la scelta di concedere una sorta di delega in bianco alla tecnologia/alle tecnologie.

 

 

 

 

Controllati, sempre di più, e – purtroppo – anche vessati e in qualche caso brutalizzati. In nome di principi di “sicurezza” che di sicuro “ahinoi” hanno solo la certezza dell’imposizione senza scampo, senza scelta, senza ragionamento e discussione. La certezza della forzatura, anche violenta, o peggio, la giustificazione data dell’eccezionalità. Ebbene, lo dice come al solito in maniera eccelsa il professor Dominici, proviamo a ribadirlo molto peggio noi: non si può e non si deve vivere nell’emergenza perenne. Non si può rendere perenne la precarietà. Lo stato di crisi non può per nessun motivo al mondo diventare una condizione reiterata fino ad essere compresa e accettata come fosse l’unica realtà quotidiana possibile, l’unico scenario in cui poter vivere.

 

Cerchiamo soluzioni alternative, cerchiamo dialoghi, spiegazioni. Agiamo nel rispetto delle regole democratiche e chiediamo di essere parimenti rispettati. Chiediamo soprattutto che vengano compiuti quei passi e vengano prese quelle misure che qualificano l’attività di governo,  che certificano la qualità dell’azione amministrativa. Sarà stato anche vero e plausibile ricorrere a mezzi e misure estreme 24 mesi fa, quando improvvisamente –  più o meno improvvisamente, permetteteci questa ulteriore nota a margine, perchè nelle scelte di una amministrazione pubblica dovrebbe esserci anche un profilo che preveda la preparazione a emergenze di questo tipo – ci siamo ritrovati in una condizione davvero difficile da prevedere e conseguentemente da gestire. Ma dopo 2 anni, tale condizione non può essere ancora e sempre la stessa. Inutile e velleitario invocare un ripristino dello status quo. Molto giusto e necessario chiedere invece di progredire, di agire per cambiare e rendere  efficienti, tutti quei meccanismi che con la pandemia hanno mostrato la corda o peggio sono collassati. Questo significa amministrare, governare. Questo. Non arringare le folle a ripetizione, riproponendo a raffica e senza sosta inutili proclami basati su tatticismi da bastone e carota. Su tecniche di marketing becere in cui si spaventano le masse per poterne prendere il controllo. La macchina scricchiola. Lo sentite laggiù? Parafrasando una bellissima canzone di Ivano Fossati. In epoca non sospetta, all’inizio della pandemia e grazie alle parole estratte da un articolo che come sempre Vi invitiamo a leggere per intero a firma dell’economista francese Gael Giraud, scrivevamo:

 

 

 

La democrazia

 

 

Un possibile errore sarebbe quello di apprezzare l’efficacia dell’autoritarismo come soluzione.

In termini di evoluzione biologica, per un virus è molto più «efficace» infettare gli esseri umani che la renna artica, già in pericolo a causa del riscaldamento globale.

 

È soprattutto la distruzione della biodiversità, in cui siamo da tempo impegnati, a favorire la diffusione dei virus

 

La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare le trasformazioni che, anche ieri, sembravano inconcepibili a coloro che continuano a guardare al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria. Abbiamo bisogno di una re-industrializzazione verde, accompagnata da una re-localizzazione di tutte le nostre attività umane.

 

La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima. 

 

A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche.

I «beni comuni», come li ha definiti in particolare l’economista americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra il mercato e lo Stato, tra il privato e il pubblico. Possono guidarci in un mondo più resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia.

 

Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.

 

 

 

 

 

Lo abbiamo scritto in epoca non sospetta, quando la pandemia spaventava tutti e sembrava per davvero una bestia selvaggia senza alcun controllo, pronta a divorare il pianeta.  Altroché nucleare. Non Vi fa morir dal ridere leggere il bravo ed illuminato Giraud e poi pensare agli “europei” che revisionano l’energia dell’atomo in versione green?  Ridere per non piangere s’intende. Ma anche per affrontare con animo limpido e scientifiche certezze il momento ancora e sempre più incerto in cui si fanno strada “revisionismi” storici di pessimo gusto ed effetti ancora più deleteri.

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)

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