Le parole che ti ho detto

Prosegue e si rafforza la nostra deriva. Storpiare un titolo per abbozzarne un altro. Pessimo esempio di cui dovremo pentirci o divertente esercizio di stile? Ai posteri o ai Vs commenti la sentenza. Questo titolo ci serve per introdurre un altro tipo di esercizio molto giornalistico che è quello dell’osservazione della realtà attraverso lo studio delle parole che la compongono. Avete mai fatto caso a come improvvisamente la nostra quotidianità fatta di termini noti e ripetuti,  improvvisamente sia squarciata e trasformata da vocaboli sconosciuti, mai usati, spesso appositamente costruiti; che condizionano forzatamente e completamente il nostro eloquio, i nostri scritti, i nostri dialoghi? Dunque in questo specifico periodo, ad esempio,  per colpa o per merito di chi non è dato sapere – ma poi chiederemo lumi ad una esperta del ramo – è tutto un florilegio di: “lockdown, distanziamento sociale, mascherine, quarantena, pandemia, tamponi, contenimento, soggetto asintomatico, smart working”.

 

Vabbè che domanda, siamo nel bel mezzo di un’epidemia, anzi di una “pandemia”, tanto per usare un’altra delle parole ricorrenti del periodo. Difficile non usare certi termini. Sì certamente, ma non del tutto. La risposta non è così scontata. Il ruolo dei termini in uso è decisivo e centrale; ma anche estremamente fluido, tutt’altro che banale. Istante per istante, crisi dopo crisi, un particolare momento storico o un fatto particolarmente eclatante ci esaltano, o ci distraggono, o ci spaventano, talvolta terrorizzano, e cambiano anche la nostra percezione della realtà o almeno di parte di essa. Alcuni termini divengono improvvisamente noti, famosi, celeberrimi in alcuni casi. Sono termini preesistenti, parole che già galleggiavano quà e là nel nostro conversare, e che ora tornano improvvisamente di “moda”, e diventano essenziali, fondamentali. Alcune parole,  invece,  cambiano di significato, almeno parzialmente, altre ancora rafforzano il proprio senso, e grazie ad esse riusciamo ad orientarci, forse un pochino meglio, dentro l’attualità, fattasi di colpo più complicata, o meglio più “complessa”. Alcune parole arrivano sulla scena nuove, nuove, e in “due balletti”, la dominano, ne divengono, fondamenta e  pilastro essenziale. Non potremmo mai più farne a meno, almeno fino alla fine della crisi in atto, fino alla fine dell’emergenza. Poi ce ne dimenticheremo, sicuramente, anzi, molte le odieremo,  e le vorremo proprio scacciare dal nostro immaginario, dalla nostra memoria, al più presto e per sempre. Dunque che succede con questi termini, come mai sono così mutevoli e cangianti, come mai irrompono e poi scappano, come mai ci condizionano e talvolta ci sorreggono, oppure ci sgomentano e attraggono insieme?

 

Intanto proviamo a dare un’occhiata più da vicino ad alcune di queste parole. Abbiamo estratto un campionario di 10 termini dal vocabolario della crisi in atto. E usando la bussola dell’enciclopedia Treccani,  come cartina al tornasole, proveremo a capirne il significato primigenio, e magari – se ne saremo capaci –  anche a verificare come alcuni di questi significati originari,  siano cambiati durante l’epidemia. Cominceremo da un anglicismo, già noto e usato ma che ora ha assunto un significato più largo: “smart working”. E poi, parola dopo parola,  risalendo lentamente la china, arriveremo al trionfo finale,  di “lockdown” un’altra parola inglese, sconosciuta ai più prima d’ora, e divenuta improvvisamente comune e insostituibile, sebbene l’italiano sia dotato di un termine appropriato, e certamente più comune. Un fenomeno questo – permetteteci –  molto “italiano” da sempre. Cortocircuiti di questo tipo sono ricorrenti nella nostra società. Trattasi di neologismi? Forse potrebbero essere assimilati o assimilabili ai neologismi, anche se  non del tutto, forse? Sentiremo in seguito il parere dell’esperta.   Un esempio che ci arriva dal passato riguarda un termine calcistico come “corner”, per citare il primo che ci viene in mente, un termine inglese che dal nulla –  o meglio dalla “perfida Albione”  – è arrivato e ha travolto tutti “i calci d’angolo” precedentemente comminati e battuti in ogni italica partita di calcio, sino quasi a soppiantare del tutto, l’identica,  e indubbiamente più corretta,  definizione italiana.  Si scherza naturalmente, ma più avanti, l’esperta che abbiamo coinvolto,  proverà a darci anche un’indicazione tecnica su questa nostra riflessione. Intanto iniziamo ad esplorare le dieci parole che abbiamo scelto per rappresentare la crisi in atto: cominciamo con “smart working” ,  detto anche “lavoro agile”,  e sfatiamo immediatamente l’idea che i termini inglesi stiano lì a sostanziare un concetto che la lingua italiana liquida con il molto meno eclatante e pomposo“tele lavoro”  (si capisce che scherziamo vero?).

 

Più che una definizione da vocabolario serve,  in questo caso a nostro avviso,  comprendere quanto sia complesso questo termine e quanto stratificato sia l’atto che sta alla base della realizzazione pratica della funzione operativa che sostiene il “lavorare agilmente”. Per dirla con Piero Dominici, il sociologo della complessità, nostro associato, e massimo esperto sul tema: “attenzione alle false dicotomie quando proviamo a spiegare la complessità, altrimenti non la comprenderemo mai per davvero”.

Per spiegare un termine complesso come smart working non basta, a nostro avviso, la definizione enciclopedica Treccani, serve altro. Serve un estratto, dal magazine dell’enciclopedia, uno strumento più agile e in divenire, come del resto la parola stessa e la pratica che essa sottende implicano:

 

 

Nonostante la crisi economica e le diffuse difficoltà a trovare un’occupazione, molti lavoratori, soprattutto giovani e qualificati, sono attenti nella scelta dell’impiego alla qualità della vita anche a discapito della retribuzione. Cresce il fascino delle flessibilità: molti lavoratori scelgono le opportunità in cui inserirsi professionalmente sulla base delle politiche aziendali di conciliazione tra lavoro e tempo libero e apprezzano forme di flessibilità in entrata e in uscita, il lavoro remoto, part time verticale e orizzontale. Sono tutti aspetti di quello che viene spesso definito come Smart working (lavoro ‘agile’): la possibilità di rompere grazie alla tecnologia e a una nuova mentalità l’unità di spazio e di tempo nel processo lavorativo. Orari flessibili e possibilità di lavorare in luoghi diversi sono esigenze che trovano attenzione non disinteressata delle aziende ma anche nella politica, posta di fronte al compito di dotare l’innovatività delle forme produttive di norme e di tutele. Nel disegno di legge che dovrebbe riorganizzare il mondo del lavoro soprattutto autonomo sono previste specifiche misure normative relative al lavoro agile definito una «modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Se la politica muove i primi passi e si confronta con le categorie, trasformazioni significative avvengono direttamente nel mondo delle imprese. Nel 2015 il 17% delle grandi imprese italiane ha già avviato dei progetti organici di Smart working, introducendo stabilmente nuovi strumenti digitali, una nuova e più flessibile organizzazione dell’orario, una modifica degli spazi; e si prevede che in un tempo relativamente breve il lavoro agile raggiungerà circa il 50% delle grandi aziende. Molto più lenta la diffusione delle forme di lavoro agile tra le piccole e le medie imprese: solo il 5% ha sviluppato in maniera organica le modalità flessibili. Le difficoltà non sono poche, ma è possibile che agiscano anche conservatorismi di tipo culturale. Naturalmente è difficile che questo passaggio a cui in qualche modo concorrono con i loro interessi e le loro aspirazioni lavoratori, imprese e istituzioni si sviluppi senza contraddizioni e senza conflitti anche aspri. Rimane però un nodo ineludibile per tutta la società.  

 

 

Ora la domanda sorge spontanea, e sarebbe davvero utile senza alcun dubbio, conoscere la Vs risposta e le Vs riflessioni in merito: quanti di Voi conoscevano il reale significato di questa prassi, o ancora meglio la applicavano o erano in procinto di farlo, prima della crisi?  Ma soprattutto, quanti di Voi, nell’ineluttabile collo di bottiglia venutosi a creare al tempo dell’epidemia, si sono ritrovati a prestare la propria attività in apparente e del tutto non coerente con la definizione che abbiamo appena scritto e letto –  di “smart working”? Che tradotto significa: col cavolo che lavorare da casa – oltretutto costretti – significa per davvero quello che viene riportato nella  definizione del magazine enciclopedico Atlante Treccani. O no? Siamo tutti davvero diventati “agili lavoratori” d’emblée? Siamo tutti digitalmente evoluti al punto da poter svolgere in modo adeguato ed efficiente la nostra funzione operativa non più dal nostro posto di lavoro in azienda ma da casa? Siamo tutti noi adeguatamente retribuiti per il lavoro che svolgiamo da casa? E le domande potrebbero continuare a decine, se non a centinaia. Domande perlopiù retoriche. Domande senza risposta, e senza senso,  nella maggior parte dei casi. Un po’ come risulta essere poco sensato il non essere in grado di partecipare attivamente alla gestione della crisi in corso, da casa nostra.  Visto il livello “altissimo” raggiunto dalle tecnologie digitali,  nel farci essere nei posti in forma virtuale, e digitale, esattamente come se fossimo realmente lì: onlife, come recita la formula  – oramai quasi abusata –  coniata dallo studioso e filosofo del digitale Luciano Floridi.

Pensate ad esempio al 5g. Ne abbiamo scritto, ci abbiamo fatto un digit. Ora sembra di parlare di dischi volanti, quando ci stiamo appena affacciando dalle nostre caverne. Comode forse, ma sempre caverne, altroché “internet of things” e “smart cities”. Mah…

Proseguendo nella nostra rapida disamina dei dieci termini più in uso in questo sfortunato periodo. Troviamo in rapida successione ben 5 e dico 5 parole, che fanno parte dello speciale glossario in uso in questo specifico periodo, ma che possiamo trovare con un significato pregresso anche sulla Treccani, vediamole,  e vediamo soprattutto,  come e se,  sono cambiate nel frattempo.

Si tratta di distanziamento sociale, quarantena, pandemia, contenimento, soggetto asintomatico.

Iniziamo da  “soggetto asintomatico”.  Trattasi evidentemente di termine molto tecnico, usato tipicamente nel linguaggio medico, e infatti, al termine asintomatico, regolarmente presente nel vocabolario enciclopedico è stato ora associato permanentemente il vocabolo soggetto. Vediamo dunque le due definizioni. La prima è stata estratta dalla Treccani, mentre la seconda l’abbiamo trovata su un prezioso vademecum realizzato dall’Osservatorio Epidemiologico dell’ASL di Vercelli e che come vedrete a loro volta hanno messo insieme definizioni scientifiche emanate dai vari organi di controllo sanitari maggiori: Ministero, Oms, Iss, etc, etc.

 

 

asintomàtico agg. [comp. di a– priv. e sintomatico] (pl. m. –ci). – In medicina, che non presenta sintomi: malattia che decorre in modo asintomatico.

fonte Treccani

 

 

Soggetto “asintomatico”

È un soggetto che, nonostante abbia contratto un’infezione, non presenta alcun sintomo apparente. Un soggetto può rimanere asintomatico per periodi brevi o lunghi; in alcuni casi può rimanere asintomatico per sempre. La presenza di pazienti asintomatici affetti da corona virus sembra possibile anche nel caso del SARS-CoV-2, tuttavia, secondo l’OMS, le persone sintomatiche sono attualmente la causa più frequente di diffusione del virus.

fonte Ministero della Salute

 

 

Proseguiamo la nostra osservazione con “quarantena” e facciamo lo stesso accostamento di definizioni, prima la Treccani e poi il vademecum dell’Osservatorio Epidemiologico della Asl del Piemonte:

 

 

quarantèna s. f. [originariamente, forma veneta per quarantina]. –

1. ant. Periodo di mare, in tempi moderni è stato ridotto a seconda delle varie malattie, in rapporto al relativo periodo d’incubazione e alle pratiche di disinfezione (ed è diventato quindi sinon. generico di quaranta giorni: indulgenza di sette anni e sette q.; anche, digiuno di quaranta giorni, fatto per penitenza.

2. Periodo di segregazione e di osservazione al quale vengono sottoposti persone, animali e cose ritenuti in grado di portare con sé o trattenere i germi di malattie infettive, spec. esotiche; così detto dalla durata originaria di quaranta giorni, che in passato si applicava rigorosamente soprattutto a chi (o a ciò che) proveniva per via di i contumacia, per cui si possono sentire espressioni quali: una q. di venti, di quindici, di otto giorni, ecc.); fare la q., osservare il prescritto periodo di contumacia; mettere, tenere in q., anche con il senso estens. di segregazione, isolamento.

In usi fig., mettere, tenere in q. qualcuno o qualcosa, tenerlo lontano, in disparte, escluderlo per un dato periodo da una possibile attività o utilizzazione: tenere in q. un funzionario in attesa di promozione, un candidato alla presidenza, non dare per il momento corso alla sua promozione, alla sua nomina o elezione; mettere, tenere in q. una riforma, una pratica, una notizia, non darle immediata attuazione o pubblicità, in attesa di un momento più opportuno, di ulteriore esame e accertamento (si dice anche di merci o prodotti, per es. medicinali e materiale sanitario, che non hanno avuto ancora l’approvazione per essere messi in distribuzione o in vendita).

fonte Treccani

 

 

QUARANTENA (O CONTUMACIA)

La quarantena è una misura che si applica a persone che sono state esposte ad un possibile contagio ma non sono (ancora) ammalate.  Quarantena significa la separazione e la restrizione di movimento di persone che, anche se non manifestano ancora sintomi, sono state esposte ad un agente infettivo e di conseguenza possono diventare contagiosi. La quarantena include altre strategie per il controllo della malattia che possono essere usate individualmente o in combinazione, tra le quali: – Confinamento in casa volontario, a breve termine. – Restrizioni sui viaggi di persone che possono essere state esposte. – Restrizioni sull’entrare ed uscire da una zona. – Restrizioni sul raduno di gruppi di persone (per esempio, eventi scolastici) – Sospensione di raduni pubblici e chiusura di luoghi pubblici (quali teatri). – Chiusura di sistemi di trasporto pubblico o restrizioni estese per viaggi in aereo, treno, nave. Misure di quarantena si posso applicare, ad esempio a: – Persone a bordo di un aereo o di una nave da crociera tra le quali vi è  un passeggero ammalato con una sospetta malattia contagiosa per la quale una quarantena può servire a limitare l’esposizione di altri. – Persone in uno stadio, teatro o in altri luoghi pubblici. – Persone che hanno avuto contatto con una persona infettata della quale non si conosce la fonte dell’esposizione alla malattia. 

fonte Centres for Disease Control  (U.S.A.)

 

 

Ancora, troviamo altri tre termini,  che come vedrete oltre al significato già previsto e presente nel vocabolario enciclopedico,  si rinnovano e trovano più specificità nel glossario della crisi sanitaria in atto,  realizzato dagli epidemiologi. In rapida successione osserviamoli: pandemia, contenimento, distanziamento sociale. Sono tre termini che proprio nell’ordine in cui li scopriremo,  ci racconteranno nei fatti quello che proviamo a dirVi oggi. L’evoluzione delle parole, la loro trasformazione, e anche,  infine l’invenzione di termini nuovi,  per rappresentare al meglio, le esigenze di tutti, adesso, in questo specifico momento, quando l’Umanità intera deve affrontare un unico gigantesco problema, e provare a risolverlo. In aggiunta a quanto già detto, va anche osservato, quali siano le fonti primarie da cui hanno attinto gli epidemiologi dell’Asl piemontese, al momento della compilazione del loro utile glossario. Fonti che trovate sul documento originale, e che riporteremo in calce ad ogni loro definizione che estrarremo.

 

 

pandemìa s. f. [rifacimento di epidemia secondo l’agg. gr. πανδήμιος «di tutto il popolo» (v. pandemio)]. – Epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territorî e continenti: p. influenzale, p. vaiolosa

fonte Treccani

 

 

PANDEMIA

La pandemia è la diffusione di un agente infettivo in più continenti o comunque in vaste aree del mondo. La fase pandemica è caratterizzata da una trasmissione alla maggior parte della popolazione. Al momento secondo l’OMS COVID-19 è una pandemia. 

fonte Ministero della Salute

 

 

conteniménto s. m. [der. di contenere]. – 1. Il contenere, capacità di contenere. 2. L’azione di frenare, soprattutto nel senso di limitare, ridurre: provvedimenti mirati al c. della spesa pubblica, dei consumi voluttuarî. 3. ant. a. Modo di comportarsi, contegno. b. Astinenza.

fonte Treccani

 

 

STRATEGIA DI CONTENIMENTO

Il contenimento si assicura che tutte le persone sospette di positività al virus che entrano in un determinato territorio (comune, città, regione o stato) siano prontamente identificate, controllate e isolate. Questa strategia è indicata a condizione che nell’area oggetto del contenimento non vi siano casi o siano molto pochi e già identificati e isolati. E’ una strategia che funziona se attivata molto presto, non appena i primi soggetti potenzialmente contagiati entrano in un territorio. Quando questi hanno già cominciato a diffondere il virus, è troppo tardi. Si deve quindi adottare una strategia diversa, come quella di mitigazione.

fonte European Centre for Disease Prevention and Control

 

 

distanziamento sociale (neologismo) loc. s.le m. L’insieme delle misure ritenute necessarie a contenere la diffusione di un’epidemia o pandemia, come, per esempio, quarantena dei soggetti a rischio o positivi, isolamento domestico, divieto o limitazione degli assembramenti, chiusura delle scuole, ecc

fonte Treccani

 

 

DISTANZIAMENTO SOCIALE

Il distanziamento sociale ha l’obiettivo di rallentare o interrompere la circolazione del SARSCoV-2 in una popolazione, attraverso la massima riduzione dei contatti fra individui infetti e popolazione suscettibile. Il corona virus si trasmette principalmente attraverso i droplets, le goccioline di saliva provocate da colpi di tosse o da starnuti. In questo modo questo virus riesce a diffondersi entro 1-2 metri dalla persona che starnutisce o tossisce. Oltre questa distanza le goccioline di saliva cadono a terra e non infettano.Le misure di distanziamento sociale, come la chiusura delle scuole, dei bar, dei negozi e l’ordinanza di restare in casa, riducono la necessità di spostamenti e il rischio di affollamento, che sono le occasioni in cui le distanze fra le persone si riducono, e il virus può circolare facilmente. Se guardiamo il seguente grafico relativo alla provincia di Hubei, notiamo che, non appena si è verificato il lockdown, il blocco della regione, gli inizi di sintomatologia (barre grigie, confirmed cases by date of onset) sono diminuiti. Questo perché le persone hanno smesso di interagire tra loro e il virus non si è potuto diffondere.

fonte Kampf G et al. Persistence of coronaviruses on inanimate surfaces and their inactivation with biocidal agents. Journal of Hospital Infections 2020

 

 

Come anticipato all’inizio del blocco, nell’osservare le ultime tre parole, abbiamo avuto modo di verificare in modo empirico, le tesi che abbiamo provato ad imbastire precedentemente. A partire da pandemia, proseguendo per contenimento che in epoca di virus, diventa strategia di contenimento, – almeno per gli scienziati – fino ad arrivare al neologismo del distanziamento sociale, creato ad hoc per il momento storico che stiamo vivendo, e che però viene diversamente spiegato dai  linguisti,  rispetto a come poi lo troviamo esplicitato nei documenti degli epidemiologi. Fa ancora più effetto vedere quale sia la fonte utilizzata dai medici, proprio per chiarire ancora di più, il nostro punto di vista, che riassunto in estrema sintesi potremmo definire: estrema fluidità nei termini e nei significati delle parole in uso.   A questo punto rimangono altre tre parole per chiudere la nostra piccola analisi, si tratta di mascherine, tamponi, e lockdown.

 

 

Per il termine mascherina, non c’è stato,  come per altre parole,  un adattamento alla situazione in corso. Il passaggio è stato più radicale ed è ancora in corso di realizzazione. Per spiegare meglio, cominciamo riportando la definizione dal vocabolario:

 

 

mascherina s. f. [dim. di maschera]. –

1. a. Piccola maschera; in partic., mezza maschera di seta, velluto, carta (detta anche bautta) che copre parte del volto, lasciando libera la bocca. Per estens., nome di semplici dispositivi di tela o altro tessuto, talora rinforzati con gabbietta di filo metallico, da applicare davanti alla bocca e al naso per protezione dalla polvere (spec. nell’esecuzione di determinati lavori), dallo smog, da possibili infezioni batteriche, e sim. b. Persona mascherata, spec. bambino o donna giovane e graziosa: che bella m.!; ti conosco, m.!, frase rivolta a una persona che si riconosce nonostante la mascheratura e, in senso fig., a una persona che usa inganni e menzogne, per farle capire che si è scoperto il suo gioco.

2. Macchia di colore diverso sul muso di cane, di gatto o di altro animale: un micino bianco con la m. nera.

3. Borchia, ornamento in figura di maschera, usata in pelletteria, tappezzeria, ecc. (in questo sign., anche mascherino).

4. Nelle calzature, la parte principale e centrale della tomaia, talora anche di colore diverso, quando la punta e i quartieri sono costituiti da pezzi a sé.

5. Piccolo schermo, sagoma di materiale opaco, che si usa per limitare gli effetti di una sorgente luminosa.

6. In tecnologia, nome dato a sagome di cartone, di plastica, o di altro materiale, usate per delimitare l’area da colorare o verniciare, rimanendo nascosta la zona su cui non si deve depositare il colore; lo stesso che stampino nel sign. 2 b e del termine ingl. stencil (nel sign. 2).

7. Elemento di metallo o di plastica, eventualmente cromato o verniciato, che copre la parte anteriore del cofano di un autoveicolo, con aperture o trafori di vario disegno che hanno la funzione di permettere l’ingresso dell’aria e il raffreddamento del radiatore.

fonte Treccani

 

 

Nel caso di questo termine come anticipato, non esiste una sua definizione legata ai tempi in cui stiamo vivendo, siamo passati direttamente dalla definizione all’uso specifico dell’oggetto, come presidio necessario, addirittura indispensabile, per affrontare al meglio i rischi connessi alla diffusione del virus, e contenere il contagio. Per questo motivo, e per spiegare meglio la nostra posizione,  riportiamo direttamente  qui di seguito, le modalità d’uso dell’oggetto,  estraendole dalle disposizioni emanate in queste settimane dal nostro Ministero della Salute in accordo con l’Organizzazione Mondiale della Sanità:

 

 

Devo indossare una mascherina per proteggermi?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di indossare una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo Coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti o se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo Coronavirus.

L’uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani.

Infatti, è possibile che l’uso delle mascherine possa addirittura aumentare il rischio di infezione a causa di un falso senso di sicurezza e di un maggiore contatto tra mani, bocca e occhi.

Non è utile indossare più mascherine sovrapposte. L’uso razionale delle mascherine è importante per evitare inutili sprechi di risorse preziose.

     

Come devo mettere e togliere la mascherina?

Ecco come fare:

  • prima di indossare la mascherina, lavati le mani con acqua e sapone o con una soluzione alcolica 
  • copri bocca e naso con la mascherina assicurandoti che sia integra e che aderisca bene al volto    
  • evita di toccare la mascherina mentre la indossi, se la tocchi, lavati le mani    
  • quando diventa umida, sostituiscila con una nuova e non riutilizzarla; in quanto maschere mono-uso    
  • togli la mascherina prendendola dall’elastico e non toccare la parte anteriore della mascherina; gettala immediatamente in un sacchetto chiuso e lavati le mani
  • le mascherine in stoffa (es. in cotone o garza) non sono raccomandate.    

 

 

Il caso della parola tampone/tamponi è a nostro avviso, ancora più emblematico. Si passa dalle molteplici definizioni da vocabolario, la numero 1 come vedrete, è quella che ci riguarda più da vicino – ma rimane, a nostro avviso, molto interessante, leggere anche le altre definizioni/spiegazioni della parola  –  e si arriva, non ad una definizione d’uso legata al momento storico, bensì direttamente alla spiegazione di come impiegare al meglio questi strumenti. Non abbiamo infatti trovato nessuna altra definizione online, se non molteplici spiegazioni, non scientifiche, in numerosi siti di informazione. La prima definizione accreditata e riscontrabile arriva dal sito dell’Ospedale Pediatrico  Bambino Gesù di Roma. Ed è quella che vi proponiamo di seguito a quella dell’enciclopedia.

 

 

tampóne s. m. [dal fr. tampon, forma nasalizzata di tapon, affine all’ital. tappo]. –

1. In medicina e igiene, nome dato a varie confezioni o preparazioni in materiale assorbente (cotone idrofilo, garza, carta speciale, e simili, in batuffoli, fogli, cuscinetti, piccole masse stipate o ripiegate, ecc.), eventualmente medicato. A seconda della finalità igienica o terapeutica, essi vengono o semplicemente applicati sulla parte interessata (a scopo di medicazione; nell’igiene intima della donna, ecc.) oppure premuti (come mezzo meccanico di emostasi) o anche strisciati (per il prelievo di essudati o altro materiale patologico). T. diagnostico (o t. per prelievi batteriologici), batuffolo di cotone idrofilo sterile opportunamente arrotolato attorno all’estremità di una bacchetta di vetro o metallo, e destinato a essere strisciato sulla superficie di una cavità naturale (faringe: t. faringeo; vagina: t. vaginale, ecc.) per praticare la ricerca e l’eventuale coltura di microrganismi patogeni; la bacchetta viene quindi riposta in una provetta tappata con cotone. Nell’uso corrente, si dice tampone (nella locuzione fare il t.) anche il prelievo stesso e l’esame che si fa dell’essudato o di altro materiale patologico.

2. a. Qualsiasi mezzo di fortuna (tappo, palla di cenci, stoppa pressata, ecc.) con cui si chiude provvisoriamente un’apertura prodottasi nelle pareti di un recipiente per arrestare la fuoriuscita del liquido, o una falla in un’imbarcazione, ecc. Di qui, l’uso frequente in senso fig., per lo più con funzione attributiva (invar.), in riferimento a rimedî, interventi o iniziative con cui si cerca di arginare o risolvere con prontezza, anche se provvisoriamente, difficoltà o situazioni di emergenza: programma t., misure tampone, interventi tampone, ecc.; il governo ha varato un provvedimento t. inteso a frenare almeno in parte la crisi occupazionale. b. In tipografia, sinon. di mazzo (v. mazzo2). c. Batuffolo di feltro o di cotone avvolto in tela rada, con il quale si distendono vernici a base di gommalacca; per la lisciatura a tampone, v. lisciatrice. d. Cuscinetto di feltro o di lana, coperto di tela e imbevuto d’inchiostro, che serve a inchiostrare i timbri. e. Arnese da scrivania per asciugare la scrittura a inchiostro, formato da un corpo di legno o metallo o marmo o materia plastica, ricurvo nella parte inferiore, sul quale vengono fissati, mediante una tavoletta avvitata fornita di manico, più strati di carta assorbente in strisce.

3. Sinon. ormai raro di respingente, con riferimento a veicoli su rotaie.

4. a. In elettrotecnica, carico t., il resistore disposto in parallelo a un generatore al fine di stabilizzarne grossolanamente la tensione; per i generatori di tensione continua (macchine rotanti o raddrizzatori statici) è spesso usata come carico tampone una batteria di accumulatori, detta, in tal caso, batteria tampone. b. In elettronica e in informatica, per traduz. dell’ingl. buffer (v.), circuito t., memoria t., registri più o meno estesi in cui possono essere immagazzinati temporaneamente dei segnali digitali che rappresentano dati o istruzioni, in attesa di essere trasferiti ad altri circuiti. c. In termotecnica, t. di vapore, la presenza, in un condotto contenente liquido, di un cuscinetto di vapore del liquido stesso, che spesso è causa di cattivo funzionamento o addirittura dell’interruzione nel funzionamento di una macchina o di un’apparecchiatura.

5. a. In chimica, ogni miscela (costituita in genere di un acido o una base debole e di un loro sale) che, presente in una soluzione, si oppone alle variazioni di pH dovute all’aggiunta di acido o alcali. Si dice che la miscela possiede e presenta azione t., e la sua soluzione si dice soluzione t.; si parla inoltre di capacità t. di una soluzione, per indicare il rapporto tra la quantità di base o di acido aggiunta alla soluzione e la variazione di pH. Particolare importanza hanno le soluzioni tampone in biologia, in quanto evitano le forti variazioni di pH conseguenti al metabolismo di organi; in medicina vengono usate per stabilizzare estratti opoterapici e soluzioni di farmaci da iniettare. b. In fotografia, sviluppo t., bagno di sviluppo a debole alcalinità, ottenuto da una soluzione fortemente alcalina a base di carbonato sodico o idrossido di sodio o borace, che viene resa quasi neutra con l’aggiunta di un acido debole (per es., acido borico): in tal modo uno stesso bagno può venire usato più volte senza che la sua alcalinità si alteri sensibilmente, e si può contare perciò su una certa costanza di risultati. ◆ Dim. tamponcino.

fonte Treccani

 

 

La rapida diffusione dell’epidemia di COVID-19 ha richiesto di avere a disposizione test rapidi per diagnosticare l’infezione da nuovo Coronavirus.

All’inizio era disponibile solo il tampone faringeo, successivamente sono stati realizzati test sierologici per la ricerca degli anticorpi diretti contro il Sars-Cov2.

Il tampone faringeo o naso-faringeo, serve per diagnosticare la presenza del virus nell’organismo e quindi l’infezione in corso.

I test sierologici, invece, servono per capire se una persona è già entrata in contatto con il virus.

COME SI FA UN TAMPONE FARINGEO O NASO-FARINGEO PER SARS-COV-2

Il tampone è un esame rapido (eseguito in pochi secondi) e indolore che viene effettuato inserendo un bastoncino con una sorta di cotton fioc alla fine:

– Nella bocca (tampone faringeo);

– Nel naso (tampone naso-faringeo) del bambino.

Il test è semplice, ma non può essere fatto da chiunque, deve essere eseguito da personale addestrato e protetto da mascherina, guanti, occhiali e camice monouso perché viene fatto, nella maggior parte dei casi, a bambini o adulti che hanno sintomi.

Il tampone viene strofinato leggermente sulla mucosa:

– Del faringe posteriore, infilando il tampone in bocca fino ad arrivare nei pressi delle tonsille per il tampone faringeo;

– Del naso, infilando il tampone in una narice e procedendo fino a raggiungere la parete posteriore del rinofaringe (parte superiore del faringe).

Sia il tampone faringeo che quello naso-faringeo vengono mandati ad un laboratorio specializzato. Il laboratorio conferma se il virus è presente nel faringe per mezzo di test molecolari (Real Time Polymerase Chain Reaction, RT-PCR).

fonte Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma

 

 

Ed eccoci finalmente all’ultimo termine di gran “moda” ai tempi del corona virus. Lockdown. Cosa significa, perché siamo arrivati ad utilizzarlo. Perché è diventato così comune, quasi insostituibile?  Chi sono i principali responsabili della sua diffusione? Invece di provare a rispondere, come abbiamo fatto per le altre parole esaminate, cambiamo passo e  giriamo,  a questo punto della narrazione,  il testimone alla nostra esperta.  Una linguista, e anche e soprattutto, un’esperta di digitale e di rete. Stiamo parlando di Vera Gheno, autrice fra le altre cose di un libro che sembra riassumere nel titolo l’idea stessa che vorremmo riuscire ad esprimere in questa nostra piccola riflessione sulle parole della crisi. Il volume si intitola “Potere alle parole”, e come recita l’incipit percorre strade molto simili a quelle intraprese oggi qui a bottega:

 

 

Che cosa penseremmo del proprietario di una Maserati che la lasciasse sempre parcheggiata in garage pur avendo la patente? E di una persona che, possedendo un enorme armadio di vestiti bellissimi, indossasse per pigrizia sempre lo stesso completo? Queste situazioni appaiono improbabili; eppure, sono esempi dell’atteggiamento che molti hanno nei confronti della propria lingua: hanno accesso a un patrimonio immenso, incalcolabile, che per indolenza, o paura, o imperizia, usano in maniera assolutamente parziale. Anche se l’italiano non ha bisogno di venire salvato, né tanto meno preservato, è pur vero che dovremmo amarlo di più, perché è uno strumento raffinatissimo, ed è un peccato limitarsi ad una frequentazione solamente superficiale. Perché conoscerlo meglio può essere, prima di tutto, di grande giovamento a noi stessi: più siamo competenti nel padroneggiare le parole, più sarà completa e soddisfacente la nostra partecipazione alla società in cui viviamo. Vera Gheno si fa strada nel grande mistero della lingua italiana passando in rassegna le nostre abitudini linguistiche e mettendoci di fronte a situazioni in cui ognuno di noi può ritrovarsi facilmente. E ci aiuta a comprendere che la vera libertà di una persona passa dalla conquista delle parole.

 

 

Concludiamo quindi la nostra piccola disamina sulle parole della crisi, cedendo la parola a Vera Gheno – che ringraziamo davvero molto per la sua disponibilità –   e lasciando spazio ad un breve botta e risposta,  che abbiamo realizzato con la nostra amica sociolinguista, recente ospite e relatrice assieme a Bruno Mastroianni di un nostro appuntamento digit.

 

d: Perché le parole arrivano e ci condizionano spesso completamente?

 

 

Vera Gheno: Esiste una teoria scientifica, sulla cui scientificità non tutti gli esperti sono d’accordo, si chiama “ipotesi Sapir-Whorf”. Questa dice che non solo la realtà influisce sulle parole che usiamo (cioè che le parole che usiamo sono conseguenza di ciò di cui abbiamo esperienza nella nostra vita), ma anche che la lingua che usiamo, le parole che scegliamo influiscono sulla visione che abbiamo della realtà. Io sono abbastanza sicura che le cose funzionino esattamente così. E perché, beh, perché noi esseri umani siamo animali “verbali”: gli unici ad avere l’uso della parola, nel bene e nel male. E nel nostro essere animali verbali, decodifichiamo la realtà anche (o forse soprattutto) in base alle parole che abbiamo per descriverla, per concettualizzarla. Questo funziona anche “in ricezione”: se la lettura della realtà ci viene propinata tramite determinate parole, un determinato lessico, questo contribuirà a “farci” vedere la realtà in un certo, specifico modo. Mi viene in mente un caso ormai “storico”: l’insistenza nell’accostare il termine “invasione” a “migranti”, che ha finito per condizionare almeno parte dell’opinione pubblica rispetto al fenomeno migratorio (con livelli di “immigrazione percepita” molto diversi da quelli reali). Per quanto riguarda il presente, cito solo la questione della metafora bellica, che io non trovo del tutto giustificata e che un po’ mi spaventa (Federico Faloppa ne ha fatta un’ottima analisi per Treccani). Quasi senza che ce ne rendiamo conto, infatti, la metafora bellica sottintende la ricerca di un nemico (anche un nemico individuabile, non solo quello “invisibile” del coronavirus) e così finiamo per bollare come tale chi ci fa al momento comodo che lo sia: i cinesi, i lombardi, i meridionali scappati da Milano (cito un pensiero non mio), i runner, i “pisciatori di cani”, chiunque esca. L’importante è che ci sia un nemico da odiare. Insomma, ho come l’impressione che la “guerra”, invece che unirci, diventi  un “uno contro tutti”.

 

 

 

d: Come si originano questi termini. Molto spesso le parole che improvvisamente diventano stra famose e stra usate sono sbagliate rispetto all’uso che se ne fa.

 

Vera Gheno: Le parole hanno storie individuali, particolari. Non ci sono regole o meccanismi prevedibili rispetto al termine che diventa “tormentone”. Semplicemente, qualcuno inizia a usare una parola, la parola attecchisce, perché piace o perché suona bene, o professionale, o scientificamente corretta, o al contrario piacevolmente misteriosa, ed ecco che tutti iniziano a usarla. Spesso non è un’imposizione, ma una sorta di “viralizzazione” (con riferimento ai bei tempi in cui il termine “virale” denotava una caratteristica della comunicazione e non un contagio reale). E il fatto che un termine sia magari sbagliato dal punto di vista tecnico o scientifico significa poco: le persone, a meno che non siano esperti di un certo settore, non è detto che ci facciano caso.

 

 

d: Ad esempio gli anglicismi (lockdown in questi giorni) sono davvero utili ? Non c’è un termine italico migliore?

 

Vera Gheno: Lockdown, rispetto a isolamento, serrata, chiusura totale, segregazione casalinga, ha secondo me due vantaggi: il primo, che non essendo a tutti semanticamente trasparente, suona più “eccitante” delle espressioni italiane analoghe. Il secondo, che non è mai stato usato prima, in italiano, e di conseguenza viene associato a *questa* chiusura in particolare. Cioè, per spiegarmi meglio, “lockdown” non è più percepito come il nome generico della misura di sicurezza presa per combattere un’epidemia, ma il “nome proprio” di questa misura di sicurezza in particolare. Insomma lockdown vince perché ormai è diventato il nome dello specifico momento che stiamo vivendo. E francamente è entrato così prepotentemente nelle vite di tutti che secondo me ormai non potrà essere più sostituito. Le persone hanno scelto.

 

 

d: E distanziamento sociale che sembra spiegare tutto significa davvero quello che pensiamo o ci vogliono far pensare?

 

Vera Gheno: Non so cosa ci vogliono fare pensare, francamente. A me “distanziamento sociale” suona molto chiaro per indicare la necessità di tenerci a debita distanza fisica dagli altri. Non so se poi negli intenti c’è qualche altra intenzione che magari io stessa non colgo. Secondo me, però, nel distanziamento che diventa ostilità sociale conta di più il ricorso alla summenzionata metafora bellica che non l’espressione “distanziamento sociale”.

 

 

d: E poi, domanda delle domande: quanta responsabilità hanno i media su questo? Cioè sull’origine e la diffusione più o meno corretta di questi  vocaboli?

 

Vera Gheno: Secondo me i media hanno una responsabilità enorme alla quale molti hanno abdicato a favore dei click e della popolarità. All’inizio di marzo ho analizzato le prime fasi della comunicazione legata al corona virus per Treccani e lì ero estremamente critica del comportamento tenuto in quelle prime settimane dai media. Poi ho visto che si sono ridimensionati, ma ancora permangono picchi di sensazionalismo inutile (qualche giorno fa un pezzo titolava “Il virus si trasmette per l’aria” e l’articolo era dietro paywall: se non è un titolo irresponsabile questo…). Insomma, io richiamo i media a una maggiore attenzione nell’uso delle parole. E quando mettono in circolazione una nuova espressione, è anche loro responsabilità (anzi, forse soprattutto loro responsabilità) verificare di non dire castronerie.

 

 

d: E poi nell’epoca della disintermediazione chi altri sono i responsabili:  politici, gli influencer? E perché?

 

 

Vera Gheno: Nell’epoca della disintermediazione siamo tutti responsabili. Anche l’ultimo di noi, nel suo piccolissimo, è un microinfluencer o un nanoinfluencer. Tutti dobbiamo assumerci la responsabilità delle parole che scegliamo di usare. Se continuiamo a pensare che le responsabilità siano solo di quelli che hanno il megafono più grosso in mano, mentre noi, nel nostro piccolo, possiamo fare quello che vogliamo, stiamo sbagliando. Quindi ognuno di noi deve smettere di parlare e scrivere a vanvera sui social o nelle chat di whatsapp. Per assurdo fanno più danni quelle, a volte, con il messaggio che viene inoltrato “da una fonte fidata, è un amico del fratello del cugino di mia zia Peppina” che non le notizie che leggiamo sui giornali. Insomma, io invito tutti a parlare solo di ciò che capiscono e conoscono bene. Ne va, a mio avviso, la tenuta della nostra società.

 

 

L’ultima risposta di Vera Gheno, ci offre un assist davvero potente, per inserire una considerazione finale. La parte iniziale della risposta non ci può che vedere completamente in accordo. Senza alcun dubbio, la società globale, disintermediata, in cui tutti siamo ugualmente emittenti e riceventi, in cui il meccanismo di diffusione non è più verticale ma orizzontale, ci vede tutti protagonisti. Ma, come spesso abbiamo precisato in più riprese qui e durante i nostri appuntamenti live, “digit”, non è nell’assunzione di responsabilità che troveremo la risposta ai nostri comportamenti “leggeri”, o peggio, “dolosi”. Non possiamo trasformarci tutti in giornalisti, o medici, o scienziati, o macellai, o imbianchini. Ognuno continui a fare il proprio mestiere, con coscienza e responsabilità, ma contemporaneamente, continui pure ad essere cittadino del mondo, di questo nostro mondo. Non possiamo, e non dobbiamo, sopprimere la libertà di espressione, che è garantita dall’articolo 21 della nostra Costituzione. Troppo facile “Orbanizzarsi” (scusate il neologismo, davvero terribile). Troppo facile cedere alla tentazione di mettere uno solo al comando. Spegnere il cervello e lasciare a qualcun altro le decisioni, magari ad una azienda/nazione. L’accesso ai mezzi di comunicazione di massa in forma orizzontale, e non più riservato soltanto agli addetti ai lavori, non può risolversi in una compressione sociale o peggio in una limitazione delle libertà di ciascuno di noi. Quello che deve succedere: è un presa di coscienza della trasformazione sociale in atto, e la conseguente formazione di una diversa coscienza/conoscenza degli ambienti, dei mezzi, e dei comportamenti da tenere. Bisogna affrontare una volta per tutte la complessità con i mezzi e gli strumenti adeguati,  per garantire a ciascuno l’accesso, l’uso, e in ultima analisi, le migliori condizioni di vita possibili, per stare dentro all’attuale società: multiculturale, digitale e ipercomplessa.

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)