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Informazione nativa digitale (sg)

    Un’occasione persa,  a nostro parere,  è stata quella non sufficientemente sfruttata,  durante gli Stati generali dell’editoria,  dai soggetti che avrebbero dovuto essere protagonisti dell’incontro svoltosi il 2 luglio scorso presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La giornata di lavoro, la penultima per la kermesse voluta e realizzata dal Governo giallo-verde, sembra essere stata realizzata mille anni fa, per come oggi viene raccontato il settore dai protagonisti dello stesso, che poi erano i medesimi che hanno partecipato agli Stati generali, se non andiamo errati?  In quell’incontro,  che oggi proviamo a raccontare,  i protagonisti come recitava il titolo:  “Informazione online: sfide, opportunità e trattamento per gli editori nativi digitali”, avrebbero dovuto essere gli editori e i giornalisti online, ma così non è stato, e se avrete la pazienza di leggere il resoconto ve ne renderete conto anche Voi. Peccato, perchè il settore dei nativi, ancorchè poco conosciuto, avrebbe davvero molto da raccontare all’editoria d’informazione italiana. Non fosse altro che per riportare esempi di sperimentazioni “digitali” fatte e in corso di realizzazione. Esempi e casi di studio  che potrebbero fornire utili suggerimenti e forse possibili soluzioni alla pesante e irreversibile –  a quanto pare al momento –  crisi,  del settore in corso.  Come al solito ad introdurre i lavori  c’era (l’ex) Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega all’informazione e all’editoria, Vito Crimi  affiancato questa volta da tre esperti:  Francesco Saverio Vetere  Segretario generale dell’Uspi , Matteo Rainisio Vicepresidente di Anso e Pier Luca Santoro consulente del dipartimento e responsabile di DataMediaHub. A moderare l’incontro c’era come sempre il capo del dipartimento dell’editoria e informazione  Ferruccio Sepe.   Partiamo come sempre e per sgombrare il campo da dubbi e incertezze dalla definizione del tema che troviamo sul vocabolario della Treccani.

 

 

nativo digitale loc. s.le m. Chi è abituato fin da giovane o giovanissimo a utilizzare le tecnologie digitali, essendo nato nell’era della rete e di internet. ◆  Dai dati del report di ricerca, emergono, infatti, tre tipologie differenti di nativi digitali, che segnano la transizione dall’analogico al digitale dei giovani nei paesi sviluppati: a. I nativi digitali puri (tra 0 e 12 anni); b. i Millennials (tra 14 e 18 anni); c. I nativi digitali spuri (tra 18 e 25 anni). (Paolo Ferri, Wired.it, 16 novembre 2010, Internet) • […] in principio c’erano i tardivi digitali (cresciuti senza tecnologia e tutt’ora scettici sul suo utilizzo), gli immigrati digitali (anche questi nati in un mondo analogico, ma ormai adattatisi a usare le ultime novità tecnologiche) e i nativi digitali (che con computer, internet e cellulari hanno a che fare dalla nascita) […] (Corriere della sera.it, 9 novembre 2013, Tecnologia).

Composto dal s. m. nativo e dall’agg. digitale2, ricalcando l’espressione ingl. digital native.

 

 

Introduzione

 

 

 

Francesco Saverio Vetere: Pensare di rimanere indenni,  cioè,  che le strutture delle nostre società possano rimanere le stesse di fronte ad una rivoluzione tecnologica così profonda,  e così ripetuta,  nel corso di pochi anni sarebbe un errore. Tutti quanti noi dobbiamo essere pronti a recepire il cambiamento,  e dobbiamo essere pronti a interpretarlo. Nel 2001 la legge 62 che ridefiniva il prodotto editoriale,  lo ridefiniva applicando al prodotto online,  quindi edito su qualunque mezzo, o la categoria della periodicità. Per il legislatore del 2001 il prodotto editoriale non era nativo digitale,  era semplicemente la versione pdf del giornale cartaceo. Per arrivare a riconoscere ai giornali digitali la stessa dignità,  e quindi parità di trattamento totale,  rispetto ai giornali cartacei,  ci è voluto,  in pratica,  il 2016.  La legge 198 del 2016 che per la prima volta definiva – ancora una volta con due errori – i giornali nativi digitali. Dico due errori perché, in prima istanza parlava solo di quotidiano e quindi ancora una volta introduceva un concetto di periodicità dentro ad una definizione, di un mezzo, di un giornale,  che non c’entra nulla con la periodicità. La seconda perché parlando di quotidiani escludeva i periodici. Ci troviamo di fronte ad un disagio di crescita degli editori nativi digitali,  perché ancora non riescono ad avere lo stesso impatto dal punto di vista economico,  rispetto a quello che hanno dal punto di vista sociale.  Sono giornali che sono letti da milioni di persone ma che non hanno dei ricavi soddisfacenti,  perché non viene retribuito il loro lavoro nella misura dell’importanza che hanno e dell’impatto sociale che hanno. L’intervento dello Stato è necessario e indispensabile a supporto dell’occupazione giornalistica e non,  e anche per quanto riguarda i proventi pubblicitari dell’editoria digitale. Dobbiamo trovare un modo affinché gli editori i nativi digitali possano ricavare di più,  e su questo lo Stato non può non intervenire. Abbiamo creato come Uspi e in accordo con il sindacato dei giornalisti un contratto alternativo al contratto Fieg Fnsi. Un contratto tagliato su misura,  dal punto di vista economico,  e destinato alla stampa periodica e digitale che la nostra associazione rappresenta.   Nell’ultima legge sui contributi all’editoria era previsto l’allargamento dei contributi anche agli editori nativi digitali. In realtà questo allargamento di fatto non si realizza perché la legge è strutturata in maniera tale da equiparare i dipendenti,  tra i quotidiani cartacei e i quotidiani online. Chiedere l’assunzione di almeno 5 dipendenti,  di cui la maggioranza giornalisti, a giornali che vogliono svilupparsi e che non raggiungono i 100 mila euro di fatturato,  significa escluderli di fatto dalla contribuzione pubblica. Questo sarebbe invece  il momento giusto di aprire, anche ai quotidiani nativi digitali, l’accesso ai contributi pubblici, prevedendo che vengano equiparati dal punto vista del lavoro dipendente non ai quotidiani ma ai periodici,  e che i dipendenti richiesti siano 3 e non 5.

 

 

 

Matteo Rainisio: Solo dal 15 novembre 2016,  abbiamo avuto la certezza di cosa eravamo,  noi giornali nativi digitali. Io ho aperto il mio primo quotidiano on line nel 2006,  all’interno della nostra associazione – Anso – abbiamo giornali che sono nati 20 anni fa,  e giornali che sono nati da tre o quattro anni. Ci sono voluti vent’anni per avere  la certezza, per chi volesse aprire una testata digitale, di sapere chi essere e come definirsi. Esistono tre tipologie di editori nativi digitali: ci sono i grandi gruppi nativi digitali nazionali. Fanpage è un esempio di questa tipologia. Poi abbiamo gli editori verticali,  che sono tutti quegli editori che hanno scelto di specializzarsi: chi fa lo sport,  chi si occupa di tecnologia,  chi di altri settori, e che sono in grado di creare modelli di business coerenti,  e sostenersi con la pubblicità e altre forme di business,  parlando ad una nicchia. E poi ci sono gli editori iperlocali o locali a seconda di quello che è il bacino di utenza e di riferimento.  Sono editori che parlano ad un territorio che molto spesso è stato abbandonato dai media tradizionali. Editori che lavorano con investitori locali che non sono schiacciati dalle agenzie,  da diritti di negoziazione, dalle campagne “programmatiche” o da altri sistemi di vendita di  pubblicità. Si tratta di editori che vanno porta a porta a vendere la pubblicità locale. Sono aziende che mediamente hanno dieci anni di vita,  poi ovviamente abbiamo dei casi di aziende molto più anziane, e alcune aziende che stanno ancora nascendo. Molto spesso gli editori sono giornalisti che vengono dal mondo dell’editoria tradizionale,   perché espulsi da altri media a causa della crisi dell’editoria radiotelevisiva e cartacea di questi anni. Io faccio sempre l’esempio di una famiglia,  marito e moglie, giornalisti, divenuti editori de Il giunco, perché si sono trovati senza lavoro dopo lo switch off del digitale terrestre. In provincia di Grosseto hanno aperto un giornale e  in cinque anni sono diventati un punto di riferimento per l’informazione sul territorio. Oggi fatturano circa 150 mila euro, hanno tre dipendenti e quindi sono riusciti a creare un modello di business che permette una crescita. Se parli al tuo territorio,  se racconti la tua comunità, se sei parte integrante della tua comunità: un editore nativo digitale è in grado di creare un’azienda. Poi ovviamente come tutte le aziende si può avere successo o insuccesso, però il modello di business è quello della stampa del 1800. Un giornale come Varesenews fa quasi 50.000 pagine viste al giorno solo con i necrologi. Gli editori nativi digitali nelle grandi città non esistono, dove non c’è spirito di comunità non c’è un giornale locale,  non riesce ad attecchire, non riesce a raccontare quella comunità. Quello che chiediamo è parità di trattamento. Se l’aiuto pubblico ci deve essere che sia in maniera eguale per tutti. Noi veniamo costantemente tartassati e zittiti da richieste di danni o  minacce di querele,  con richieste danni di notevole entità. Per un piccolo editore locale che riceve minacce di ogni tipo e che subisce richieste risarcitorie milionarie,  è difficile poter fare il proprio lavoro quotidiano. Bisognerebbe adottare il modello americano.

La seconda cosa che ci sta molto a cuore è la riforma del copyright. Noi abbiamo il copyright, vogliamo che il copyright sia protetto,  tutelato,  che sia garantita la certezza del contenuto.

Non amiamo la riforma europea del copyright che entro il 7 giugno 2021 dovrà essere recepita dal governo italiano. Perchè per come è scritta lascia troppe strade aperte al rischio per piccoli e grandi editori digitali di andare fuori mercato nel rapporto con le piattaforme.  In ogni caso, qualora si decida di far pagare i contenuti, chiediamo che ci sia una supervisione pubblica di questa tassa. Se un ente come l’Agicom fosse l’ente preposto alla raccolta collettiva garantirebbe anche maggiore trasparenza su quello che poi è la finalità dell’iniziativa.

 

 

 

Pier Luca Santoro: Negli ultimi dieci anni gli investimenti pubblicitari su internet sono cresciuti più di ogni altro canale e pesano oramai poco meno di quelli per la televisione. I dati di una ricerca di giugno del Politecnico di Milano confermano l’espansione del digitale per il prossimo futuro anche ai danni della televisione come tendenza consolidata. Programmatic e mobile sono gli strumenti pubblicitari scelti per le promozioni sulla rete. Per l’utilizzo del programmatic dal punto di vista degli investitori pubblicitari può sorgere  il problema della brand safety. Il fatto che i contenuti del mio brand non finiscano per essere associati a contenuti non controllati né controllabili,  e che possano danneggiare la reputazione della mia azienda o del mio marchio. L’uso del mobile per quanto riguarda l’editoria ha un impatto sul tempo speso sul sito del giornale,  del publisher, che è già molto meno,  rispetto a quello che viene speso per altre attività in rete. Oltre ai soliti elementi di prezzo e diffusione,  va notato che, secondo le ultime indagini, sono comparsi una serie anche di aspetti e di elementi qualitativi che l’investitore pubblicitario valuta,   prima di allocare le proprie risorse per la pubblicità online. Credo che questo sia un aspetto sul quale gli editori, nativi digitali e non, debbano prestare la massima attenzione per guardare con relativa fiducia al futuro. I giornali locali o addirittura iperlocali,  si basano sulla comunità,  senza il rapporto con la comunità i giornali non esisterebbero,  non avrebbero ragione di esistere. Dalle nostre analisi più recenti emerge però un dato in controtendenza,  e che riguarda tutti gli organi di informazione, nazionali, locali, iperlocali, all digital o misti. Quasi nessuno cura e sviluppa la propria community. Quasi nessuno risponde ai commenti dei propri lettori sulle proprie pagine social (facebook in particolare), dove invece vengono scaricati dai giornali centinaia di migliaia di link di contenuti.  Quindi se la rete è un ecosistema sociale,  come stiamo provando a dirci, l’impressione è che ci sia molta più gente connessa che gente che connette. Credo che l’informazione, compresa quella all digital, non possa esimersi dall’assumere questo ruolo,  per avere una propria posizione all’interno dell’ecosistema mediatico. Un contenuto diventa esperienza grazie alle relazioni. Dai dati presentati – che includono anche l’Italia – dall’Oxford Institute for journalism qualche settimana fa, emerge chiaramente una indicazione:  l’informazione online è unbranded e quindi è una commodity, ha poco valore. Un aspetto centrale sul quale intervenire. Chi vende un prodotto o  un servizio, favorisce il processo di ricerca e di informazione dei propri clienti. Gli editori di quotidiani,  non si capisce bene perché, sulla base di presupposti completamente errati,  a mio modo di vedere, ostacolano il processo di ricerca e informazione dei propri lettori. Aprite una pagina o un qualunque articolo di qualunque testata e guardate se  c’è un link che porta fuori dal sito. Sono casi rarissimi, al massimo,  se ci sono, sono link interni alla stessa testata. Gli editori oggi sono online,  ma continuano a non far parte della rete,  continuano a non far parte dell’ecosistema. Analizzando i vari modelli di business degli ultimi dieci anni, queste sono le corrette strategie per provare a rilanciare il settore: Solo per me (sentiment di esclusività), Personalizzazione (un buon set/sistema di raccomandazioni e personalizzazione), Distribuzione (piattaforme di accesso e distribuzione efficienti, semplicità e omogeneità su tutte le piattaforme), Conversione (aperta, rilevante,inclusiva, trasparente), Reputazione (socializzazione digitale e materiale, aumento della reputazione del cliente), Accesso (facilità di pagamento e di accesso), Immediatezza (accesso ai contenuti asap), Abbondanza (modello all you can eat), Relazione (buona valutazione e relazione affettiva con i clienti), Contenuti (unici e di qualità). Questo mix di ingredienti diversi,  calato naturalmente all’interno,  con caratteristiche specifiche, che inevitabilmente non possono che essere diverse per ogni testata, potrebbero essere la strada da seguire per rilanciare con successo il settore. Sia come dal punto di vista del contenuto,  dal punto di vista giornalistico, sia  dal punto di vista economico.

 

 

 

Vito Crimi: L’informazione locale è un’informazione che forse oggi vive,  non solo quella digitale ma anche quella cartacea, il momento più florido. E’ quella che resiste di più  in termini di ricerca da parte dell’utente. E quindi teoricamente questo modello dovrebbe essere quello che ha maggiore attrattiva verso i grandi investitori. L’informazione che riesce a creare comunità perché agisce in una comunità e  ha magari una credibilità maggiore legata a un rapporto diretto con il territorio. Eppure questo non avviene perché ancora conta molto la pubblicità fatta sul grande brand nazionale.

 

 

 

Ferruccio Sepe: L’ecosistema è un meccanismo che ci fa riflettere.  Fino a un certo periodo,  tutti noi abbiamo costruito un modello industriale basato solo sul grande.  Perché il grande fa grandi investimenti, il grande fa ricerca e sviluppo,  e il piccolo no. Poi scopriamo che l’ecosistema vive di varietà,  e che i piccole editori hanno resistito meglio all’urto dell’innovazione,  probabilmente perché più adattabili.

 

 

Discussione

 

 

Angelo Perfetti giornalista de Il Faro Online:  In rete esiste ancora un far west sul quale bisogna mettere mano e la linea guida deve essere quella della professionalità.  La professionalità la può dare certamente l’ordine dei giornalisti. Si possono trovare nuove strade, perché l’ordine è anche un istituto per certi versi superato. Ma comunque un punto fermo sulla professionalità di chi lavora deve essere segnato e tutelato da chi controlla.

 

 

 

Roberto Miscioscia editore LatinaQuotidiano Latina Corriere: Noi abbiamo creato LatinaQuotidiano nel 2013. Quest’anno abbiamo rilevato un secondo giornale Latina Corriere. Bisognerebbe in qualche maniera regolamentare  l’imprenditoria degli editori online, perché altrimenti si rischia di andare incontro ad un far west del mondo digitale,  che mette in grande difficoltà  chi lavora e chi mette il proprio impegno nei confronti anche dei propri dipendenti. Il termine quotidiano online è improprio perché noi siamo online in tempo reale,  siamo giornali in tempo reale perché in tempo reale noi pubblichiamo le notizie h24.

 

 

 

Alessandra Costante vice segretario generale Fnsi: La libertà è una bella cosa,  ma la libertà deve muoversi nell’ambito di situazioni lecite,  non possiamo vivere nella repubblica del copia incolla con giornalisti pagati a due euro al pezzo o addirittura con siti di giornali online che ti chiedono soldi per farti diventare giornalista.  Noi vogliamo un online molto professionale che viva bene,  che faccia buona informazione,  e che dia garanzie e tutele ai giornalisti. Stiamo parlando di informazione:  un diritto costituzionalmente garantito,  non si può appaltare ai cialtroni. Quello che chiede Fnsi è un impegno ad applicare il contratto Uspi là dove si può. Sono d’accordo sul fatto che il finanziamento vada esteso anche all’online con delle regole.  Le regole che non ci sono anche per altri settori dell’informazione e che devono essere introdotte. Possibile che si debbano dare i finanziamenti senza avere una regolarità contributiva, una regolarità contrattuale. Io sto dando finanziamenti ad un giornale è voglio quantomeno che i giornalisti vengano pagati per quello che sono: giornalisti, non rider dell’informazione, con contratti co.co.co. I giornalisti co.co.co sono gli schiavi del terzo millennio guadagnano 300 euro al mese e non hanno nessun diritto.

 

 

 

Ferruccio Sepe reprise: Tutte le volte che l’amministrazione pubblica eroga o a seguito di una competizione come nel caso delle gare o a seguito di una decisione legislativa,  risorse pubbliche verso soggetti privati,  inserisce sempre le cosiddette clausole sociali. Le chiamiamo banalmente clausole sociali perché come il fornitore delle pulizie di Palazzo Chigi deve assicurare il rispetto dei parametri del contratto collettivo e alcuni altri parametri contributivi e quant’altro rispetto agli orari di lavoro e quindi di tutti i diritti connessi, così vale per l’erogazione dei contributi pubblici all’editoria. Da sempre i contributi pubblici all’editoria vengono erogati nei confronti dei soggetti che rispettano quei parametri.

 

 

 

Vittorio Pasteris Quotidiano Piemontese: La collega di Fnsi non apprezzava la parola ecosistema, però  quello è, e con quello ci dobbiamo confrontare. Sarebbe forse interessante che coloro che hanno delle capacità di lavorare dal punto di vista normativo parlassero con questo sistema e cercassero di arginare quelli che sono i player più importanti, più imponenti, e che creano dei problemi all’intero sistema. Le fake news, bene o male ci sono sempre state, ora sono più evidenti per tante ragioni,  il problema a monte è un altro, ed è che in questo Paese,  ma anche in altri, abbiamo un problema gravissimo di media literacy cioè di competenza nella capacità di leggere i media che è parimenti legato a un problema di privacy literacy cioè di capacità di gestire la nostra privacy per evitare grossi danni. Questo è un altro problema che si collega,  tanto per cambiare,  all’esistenza di un ecosistema in cui ci sono dei player un pochino ingombranti che hanno sede nella Silicon valley e spesse volte andarci a parlare è un’avventura di un certo spessore,  alla faccia del villaggio globale. In Ilia stiamo cominciando,  ma lentamente,  a ragionare anche su altre forme di finanziamento per l’informazione. Il crowdfunding non si inventa dal nulla,  soprattutto su progetti di comunicazione e di informazione mirati. Bisognerebbe quindi,  come si fa in altri settori industriali, in cui l’ente pubblico mette una parte,  pari a quella che è riuscito a raccogliere l’editore o il giornalista. Un buon sistema per favorire le persone,  pardon,  le aziende, gli editori, i giornalisti a muoversi in questo ambito quanto prima.

 

 

 

Andrea Cosentino giornalista: io vengo da un altro mondo,  lavoro a Londra in un fondo di investimento.  Parlando con i gestori dei fondi alla domanda:  perché non investono in Italia,  mi hanno dato chiare motivazioni. La prima è che i giornali più importanti italiani non vanno bene,  tranne il sole 24 ore,  che viene venduto a Londra.  E questa è una cosa importante. Volevo tentare anche di capire i meccanismi di accesso ai contributi pubblici. Ci sono dei giornali italiani che sono eccezionali e andrebbero sostenuti. Ho visto che il Movimento 5 stelle ha  pubblicato, tempo fa,  la lista dei contributi.  Ho notato che ricevono aiuti economici alcuni giornali che io non ho mai visto in vita mia. Tipo La discussione di De Gasperi.  Secondo me, spesso,  alcuni di questi finanziamenti, vanno a finire a  giornali che non hanno voglia di entrare nella notizia.

 

 

 

Vito Crimi reprise: Il  dipartimento informazione ed editoria dal 2006 pubblica l’elenco di tutti i contributi dati a tutte le testate.  Massima trasparenza di tutte le tipologie. Ha toccato un tema che è ovviamente politicamente sensibile, sul quale siamo più volte tornati come Movimento 5 stelle sulla sostenibilità del sussidio nei confronti dell’editoria e dei giornali. La stampa online,  che di fatto per ora non ha preso alcun contributo,  oggi entra nel meccanismo, ma entra con dei parametri che lo rendono poi difficilmente applicabile alla quasi totalità dei soggetti, se non a pochissimi. Il sistema sicuramente va rivisto. Ma non va rivisto dall’oggi al domani,  va rivisto con prospettive triennali,  per garantire un processo di assorbimento delle modifiche. La logica con cui dobbiamo approcciare la questione è:  come rideterminare l’intervento dello Stato per garantire il pluralismo? Dove la parola chiave è garantire il pluralismo e non garantire il diritto soggettivo di esistere di una o più testate.

 

 

 

Lazzaro Pappagallo segretario Associazione Stampa Romana: Il contratto Uspi è un  contratto importante che indica una strada di regolarità,  fondamentale in un mondo che ha alcune categorie di ingaggio molto particolari.  Però quando il contratto Uspi è applicato alle aziende che fatturano più di un milione di euro,  non è che stiamo parlando di aziende piccole.  Mentana che certamente non è un associato Uspi,  che fa la onlus e fa la pubblicità con Cairo,  non è proprio diciamo l’eco di Ladispoli e non è neanche un giornale di quartiere di Roma. Quindi attenzione a come applichiamo il contratto Uspi.

 

 

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