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Giornalismo radiotelevisivo: garanzie di libertà e indipendenza professionale (sg)

   Dopo la pausa estiva torniamo ad occuparci degli Stati generali dell’editoria. Riprendiamo il nostro lavoro di analisi puntuale di tutti gli incontri fra addetti ai lavori e rappresentanti delle istituzioni voluto dal Governo –  oramai ex – per analizzare la crisi del comparto e mettere a punto interventi a supporto. Proseguiamo ripartendo dall’incontro del 6 giugno scorso, tenutosi nella  Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dedicato al “Giornalismo radiotelevisivo: garanzie di libertà e indipendenza nello svolgimento della professione”, cui hanno partecipato il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega all’informazione e all’editoria, Vito Crimi,  Marco Gambaro, Professore di Economia e Industria dei Media dell’Università Statale di Milano,  Ruben Razzante, Professore di Diritto della Comunicazione per le imprese e i media e di Diritto dell’Informazione dell’Università Cattolica di Milano, e Ferruccio Sepe, Capo Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, che ha moderato l’incontro.

 

 

Come siamo soliti fare introduciamo l’argomento in discussione prendendo a prestito la definizione del vocabolario dell’enciclopedia Treccani. Oggi parleremo di radio e tv e quindi iniziamo dalla spiegazione contenuta sul vocabolario della scatola delle meraviglie, prima quella sonora;  e poi andremo a estrarre quella dell’altra scatola,  oramai non più tanto contenitore quanto,  una sorta di sottile e grande quadro da appendere, e a cui ai suoni sono state aggiunte le immagini, per giunta in movimento:

 

 

ràdio1 s. f., invar. – 1. Forma abbreviata, e molto più com. nell’uso corrente, di radiofonia e radiotelegrafia (talvolta anche di radiotecnica): l’invenzione della r.; la storia, i progressi della r.; mediante la r. sono collegati rapidamente fra loro i paesi più lontani; intendersi, essere un po’ pratico di radio. 2. L’organizzazione che provvede a diffondere mediante trasmissioni radiofoniche notizie, musica, spettacoli di varietà, opere drammatiche, conversazioni di vario argomento, ecc.: la r. di stato (e, di contro, r. private, o commerciali, libere); questa sera la r. trasmette un’opera lirica; canzonette diffuse dalla r.; i concorsi banditi dalla r.; la r. francese, vaticana, ecc.; i funzionarî, i presentatori della r.; i programmi della radio. In queste e in altre frasi (per es., l’antenna della r.) s’intende anche, spesso, la stazione radiotrasmittente; in qualche caso, il singolo apparecchio trasmittente (per es.: una r. clandestina, pirata). Da notare inoltre le espressioni brachilogiche come abbonamento radio, o radio-Montecarlo (anche senza il trattino) e sim., sempre riferentisi alle stazioni trasmittenti e alla relativa organizzazione. Radio fante, espressione scherz. del linguaggio milit. (anche radiofante), nata durante la seconda guerra mondiale per indicare la fonte incontrollabile, ma spesso sicura, da cui si diffondevano tra i militari notizie relative alla guerra o alla situazione politica, al proprio reparto o corpo. 3. Nel linguaggio com., l’apparecchio radiofonico detto più tecnicamente radioricevitore: una r. portatile a transistori; aprire o accendere, chiudere o spegnere la r.; tenere la r. al massimo volume; far riparare la radio; talora anche l’apparecchio radioricetrasmettitore: militari addetti alla radio. ◆ Dim. radiòla, radiolina (v.), raro radiolétta, piccolo apparecchio radioricevente. TAV.

 

 

 

televiṡióne s. f. [comp. di tele- e visione, sull’esempio dell’ingl. television]. – 1. Sistema di telecomunicazione destinato alla trasmissione a distanza, per mezzo di un cavo elettrico o di un radiocollegamento, di immagini di oggetti fissi o in movimento, per lo più accompagnate da suoni. Tale trasmissione avviene per mezzo di un’apparecchiatura di ripresa (telecamera) che trasforma l’immagine da trasmettere in un segnale elettrico, mediante un procedimento (analisi) nel quale un pennello elettronico la scompone in un grande numero di elementi, secondo un numero standard di righe orizzontali e a un ritmo prefissato di immagini complete al secondo; e di un’apparecchiatura ricevente (televisore) alla quale viene trasmesso il segnale opportunamente amplificato e trasformato per essere riconvertito, mediante un procedimento inverso (sintesi), in un’immagine, simile a quella originale, composta di elementi di luminosità variabile (nella t. in bianco e nero), o da terne di punti di diverso colore, anch’essi di luminosità variabile (nella t. a colori). In partic., t. radioelettrica o radiotelevisione, la televisione realizzata mediante un radiocollegamento; t. circolare, la diffusione, via radio (radiodiffusione televisiva) o via cavo (telediffusione su cavo) di programmi audiovisivi a un gran numero di utenti; t. a circuito chiuso, la televisione che consiste nel trasmettere da un posto trasmittente a uno o pochi posti riceventi, in genere per mezzo di un cavo coassiale o mediante un ponte radio (è usata, per es., nell’industria per seguire a distanza lavorazioni pericolose, nelle esplorazioni sottomarine e sotterranee, in impianti di sorveglianza, per stabilire collegamenti audiovisivi tra ambienti diversi, ecc.); t. ad alta definizione (o ad alta risoluzione), sistemi che migliorano la qualità (definizione) delle immagini trasmesse rispetto ai sistemi tradizionali, utilizzando un numero maggiore di righe orizzontali (oltre mille) per la scomposizione e ricomposizione delle singole immagini; t. digitale, sistema che utilizza tecnologie digitali per la compressione e la ricezione del segnale, garantendo un risparmio sui costi di trasmissione e una maggiore qualità delle immagini; t. interattiva, quella che consente all’utente di intervenire nella programmazione tramite un decoder digitale e un telecomando, in maniera più o meno accentuata, per es. partecipando in diretta ad un telequiz o votando concorrenti in un reality show. Per i servizî pay-per-view e pay-tv, v. le voci. 2. estens. a. L’organizzazione tecnica, amministrativa, artistica che provvede all’esecuzione e alla diffusione dei varî programmi televisivi: che cosa trasmette oggi la t.?; i dirigenti, i tecnici, gli esperti, i cantanti, i presentatori della t. italiana (dove il sing. televisione sostituisce, con valore collettivo, il più proprio ed esatto reti televisive, e così vanno intese anche le due locuz. che seguono); le t. private o (nel linguaggio giornalistico e com.) libere, quelle gestite da privati, distinte da quelle controllate dallo stato. In queste accezioni, è frequente nel linguaggio ufficiale il termine radiotelevisione (che comprende anche le trasmissioni radiofoniche), mentre nell’uso corrente e colloquiale si preferisce la sigla TV (pron. tivvù). b. In qualche caso, la stazione trasmittente: la sede, l’antenna della televisione. c. Nel linguaggio fam., impropriam., l’apparecchio ricevente televisivo, cioè il televisore: accendere, spegnere la t.; comprare una t. nuova; mio figlio passa pomeriggi interi davanti alla televisione.

 

 

Passiamo dunque al dibattito che come, quasi,  sempre viene introdotto dal sottosegretario Crimi che enuncia i temi della discussione coadiuvato di volta in volta dagli esperti chiamati per l’occasione. Oggi si tratta dei professori universitari Marco Gambaro e Ruben Razzante. Cediamo dunque la parola al vice-ministro e buona lettura:

 

 

 

Vito Crimi: un tema che spesso ricorre è il tema degli algoritmi. Quando si parla della rete si parla spesso della misteriosità degli algoritmi cioè il fatto che Facebook, Google non rendono disponibili gli algoritmi tramite i quali decidono quali notizie guardiamo, quando le guardiamo, come le guardiamo, in che ordine.  E’ un tema che molto spesso viene viene fuori perché misterioso. C’è la rete, c’è questo concetto appunto di algoritmo e questa cosa ci lascia un po’ perplessi e ci fa temere che ci sia dietro chissà quale cosa. Eppure quando anche si fa un tg o quando si scrive un giornale, il modo in cui vengono disposte, composte, o esposte – si o no –  le notizie; è frutto di scelte che sono le scelte tipiche di un algoritmo. Cioè faccio questa notizia, la metto non la metto, prima o dopo, quella è una scelta e ovviamente è nella scelta di chi dirige, che sia il giornale, che sia un caporedattore di quella pagina, che sia un tg. Chi ha la responsabilità di decidere come deve essere composto,  decide anche come l’informazione deve essere esposta a chi la legge.  Quindi anche questo è un tema che non dobbiamo trascurare. Non dobbiamo pensare che solo la rete abbia questi elementi negativi. Sono degli elementi comuni anche all’informazione tradizionale.

 

 

 

Marco Gambaro: mentre i giornali sono stati investiti dal ciclone di internet in modo dirompente questo non è avvenuto tanto per l’informazione televisiva. Per due ragioni.  La prima è che mentre i giornali hanno perso copie, i consumi televisivi sono fino ad oggi rimasti relativamente stabili. La seconda ragione è nel formato stesso dei format produttivi stessi dell’informazione televisiva.  Il grosso della principale fonte di informazione per i cittadini alla fine sono i telegiornali. Un tg, a tutt’oggi, è fatto da 18 servizi 20 servizi, nel formato italiano, più qualche voiceover che richiedono feed, cioè richiedono produzione o acquisizione di materiale video. Il numero delle persone che guardano almeno un minuto di televisione tutti i giorni, fino a qualche anno fa non era lontano dalla quasi totalità della popolazione, ormai è fissato attorno al 70/72 %.  Sulla sostituzione della tv con internet – dati degli ultimi 12 anni – il tasso di sostituzione non è significativo,  per le persone con più di 35 anni. Mentre si trova una sostituzione significativa per quelli che stanno tra i 10 ei 35 anni. L’innovazione tecnologica, la digitalizzazione delle riprese e il grande calo dei costi, fa sì che rispetto a dieci anni fa sia possibile produrre materiali televisivi in forme molto più leggere, e naturalmente questo abilita un grande aumento del carico di lavoro nei radio giornali e nei telegiornali. E’ in corso una ridefinizione dei confini dell’informazione televisiva. E’ in corso un processo per cui non è più facile definire che cosa sia  informazione e cosa no e che cosa segua gli standard anche deontologici che si sono sviluppati sull’informazione e cosa no. Sicuramente nei telegiornali c’è stato uno sviluppo delle soft news, notizie più leggere di intrattenimento che storicamente, nella narrazione, i telegiornali mettono per mantenere l’ascolto. Secondo i nostri dati, a differenza di quello che si crede, la maggioranza delle persone lascia il telegiornale quando arrivano le soft news, non quando arrivano le hard news, almeno in Italia.  La seconda cosa che abbiamo visto è che i telegiornali italiani hanno un consumo abbastanza esclusivo, cioè i gruppi di persone che guardano i telegiornali, sono sempre gli stessi, c’è una forte fedeltà.

Un elemento di criticità sono gli user generated content. E poi l’abbassamento dei costi.   Con uno smartphone è possibile fare dei video, che non sono di qualità broadcast,  ma sono accettabili in molte situazioni informative.  Quindi mentre i giornalisti hanno difficoltà a montare,  i ragazzini montano rapidamente. La possibilità di produrre video di qualità,  associata a delle cose che somigliano a notizie, è  molto alta.  E’ in corso anche nel settore radiotelevisivo quel fenomeno di disintermediazione rispetto agli operatori professionali che ha interessato il giornalismo stampato e generato  un sacco di problemi. Questo cambierà anche il modo di lavorare dei giornalisti che si troveranno sempre di più ad avere un rapporto diverso con le fonti. E diventare persone che sono in grado di guardare rapidamente molte fonti diverse in rete,  che sanno riconoscere, e sanno anche trovare video in rete.  Un altro elemento di criticità è il confine labile con l’informazione sponsorizzata. Un problema storicamente presente nei giornali è diventato dirompente in rete dove non esiste neanche un minimo riferimento rispetto a  cosa è sponsorizzato e che cosa non lo è. Un problema non solo per le informazioni ufficiali ma anche in tutte le informazioni di tipo aziendale.  Le aziende cominceranno a produrre in proprio. La scelta, la selezione, la capacità di rappresentare le notizie sarà un problema critico di cui occorrerà molto discutere e questo porterà in qualche modo ad una ridefinizione dei profili professionali. L’idea che il giornalismo sia una professione prevalentemente umanistica si stempererà nel tempo perché anche gli umanisti dovranno saper lavorare coi dati molto più di quanto non si non sappia lavorare oggi perchè lì si troveranno le notizie.

Vorrei ricordare qual è il senso dell’intervento pubblico cioè perché a differenza di altri settori lo Stato, le Amministrazioni, si interessano di informazione.  Ci si interessa di informazione perché le attività informative hanno uno spill over verso i cittadini. Nel fatto che i cittadini se hanno informazioni adeguate possono scegliere e quindi nel gioco della politica delle democrazie occidentali l’idea è che io voto qualcuno se ho le informazioni su quello che fa.  Se mi dicono che quello che fanno i governanti non mi piace, cambio voto alle prossime elezioni. Per questo è necessario che le informazioni non siano biased (parziali);  e siano invece: varie, disponibili a tutti, ricche, piene di alternative,  pluraliste, indipendenti. Nella televisione che è un’industria “ancora” sana ci si preoccupa di questo,  pensando al pluralismo cioè pensando alla varietà delle fonti. Dove le fonti informative stanno morendo come nel caso dei giornali ci si pone il problema del sostegno. Il problema di far sopravvivere, se possibile,  più fonti “informative” per fare in modo che ci sia una varietà e quindi si costruiscono politiche su misura in funzione di questo. Devo pormi lo stesso problema nei singoli mercati. Perché quando il cittadino di Barletta o di Varese guarda le sue informazioni forse non sono le stesse che interessano al cittadino di Cuneo o di Bolzano. Quindi  ho il problema che nei singoli mercati di riferimento, ci sia un certo numero di voci informative, che si pongano criticamente nei confronti dei governanti e  svolgano le inchieste di approfondimento. Ho il problema che tutte queste voci continuino ad esistere. Questo è un problema particolare, che trovo  solo nei mezzi tradizionali,  con gruppi redazionali in grado di lavorare. Ci sono gruppi con redazioni di 50/100 persone che hanno un direttore e sono in grado di fare collettivamente questo lavoro. Quando queste redazioni scendono sotto certe soglie non si può più fare. Quando io faccio un radiogiornale in tre persone sto leggendo le agenzie sostanzialmente. Ho un problema di soglia e devo riuscire a mantenerlo.  Le politiche pubbliche di sostegno all’informazione, quando sono fatte bene, servono un po’ a questo.

 

 

 

Ruben Razzante: L’imperscrutabilità degli algoritmi in qualche modo assimilata o accostata alla discrezionalità delle scelte redazionali. Mentre per l’algoritmo non possiamo farlo, perché è un criterio, un elemento imperscrutabile che attiene alla logica del business, del commercio. E quindi  non possiamo chiederci in base a quali criteri vengano indicizzate le notizie sui motori di ricerca. Certamente non in base a criteri giornalistici o comunque non solo in base a criteri di interesse pubblico. Dobbiamo invece,  soprattutto in una sede come questa,  porci il problema di quali siano i criteri ai quali si ispirano le scelte redazionali delle redazioni giornalistiche,  in questo caso radio televisive,  e quindi in che modo si declini o si debba declinare questa dialettica tra libertà e responsabilità.

 

 

Permetteteci a questo punto di mettere in pausa un attimo lo sbobinamento del convegno,  per fare un breve, ma a nostro avviso necessario,  intervento a questo punto del dibattito. Il professor Razzante – giornalista professionista prima che docente –  sottolinea,  nell’aprire il suo intervento,  un passaggio importante,  che il senatore Crimi aveva affrontato nella sua prolusione. Un passaggio fondamentale, a nostro avviso, su cui è molto importante avere le idee chiare. Confondere l’operato di una redazione giornalistica con il meccanismo di funzionamento di una non meglio precisata “funzione algoritmica” rischia di intorbidire acque già molto agitate e opache. Se a questo aggiungiamo un passaggio fondamentale dell’intervento del professor Gambaro, dove il docente della Statale, sottolinea con grande precisione,  una delle differenze sostanziali dell’attività giornalistica “professionale”:   quella del lavoro collettivo realizzato collegialmente in una redazione strutturata.  Ebbene forse potremo avere una visione più lineare della professione e dei principi fondanti di essa. Quei principi che fanno di questo mestiere una bussola imprescindibile cui avvalersi soprattutto in questa epoca di grande confusione. Non è possibile paragonare l’attività degli algoritmi di ricerca di Google o di altre OTT con l’attività di una redazione giornalistica. Innanzitutto perché non conosciamo i meccanismi di sviluppo e definizione dell’attività di questi algoritmi. In secondo luogo perché la finalità di detti algoritmi è meramente economica e a beneficio dell’azienda che investe i propri capitali per migliorarli continuamente. In terza battuta perché gli ambiti di  ricerca in cui questi,  non meglio definiti algoritmi,  ci assistono,  sono decisi da noi utenti in prima persona e in funzione di nostre specifiche esigenze. Che questo accada secondo automatismi di cui non ci accorgiamo neppure,  o per nostro volere, la dinamica che si sviluppa non ha niente a che vedere con l’attività di una redazione giornalistica strutturata e coordinata a produrre informazioni che devono obbligatoriamente rispondere a principi di legittimazione fissati da uno specifico ordinamento giuridico.  Verità,  pertinenza e continenza della notizia.  La notizia pubblicata deve essere vera, e deve esserci altresì un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il principio di continenza richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività.  Non è possibile confondere i due ragionamenti. Non fa bene al dibattito e non spiega un bel niente anzi, confonde e complica i fatti. Facciamoci spiegare dai padroni delle OTT come lavorano e quali sono le  basi da cui muovono le attività dei  programmatori che sviluppano i codici che compongono i famigerati algoritmi.  Convinciamoli a sviluppare questi codici  in modo trasparente e secondo una logica condivisa di servizio al bene comune. E proteggiamo e sosteniamo la libera circolazione delle notizie attraverso il lavoro della stampa professionale per una corretta formazione dell’opinione pubblica.  Perdonate l’inciso,  e continuiamo a seguire l’intervento del professor Razzante, decisamente pertinente proprio su questi temi:

 

 

 

Il tema del pluralismo non è stato affrontato in modo puntuale dal legislatore italiano,  tanto che la prima legge di sistema che ha riguardato il sistema radiotelevisivo è  la legge Mammì del ’90  che è arrivata un po’ su input della allora comunità europea con la direttiva europea 552 dell’1989 che ha quindi indotto tutti gli stati ad adeguare i loro ordinamenti giuridici, e un po’ perché si era creata in Italia, come ben sapete, una situazione di crescita di alcuni gruppi, di uno in particolare nell’ambito radio televisivo privato, e che poneva un problema anche di regolamentazione giuridica. Quindi le leggi sono state fatte tardi e sono state certamente influenzate da motivazioni di natura politica Soltanto nel luglio del 2012, quindi appena sette anni fa, con la definitiva digitalizzazione del sistema radiotelevisivo in Italia, si è arrivati ad un bilanciamento, un riequilibrio, che ha in qualche modo moltiplicato l’offerta televisiva,  e  ha diluito quelle che erano alcune posizioni dominanti che certamente sono sopravvissute nel nostro Paese per molti anni.

La corte costituzionale con almeno cinque sentenze, che si sono succedute nell’arco di vent’anni, ha coperto i vuoti,  ha coperto le lacune legislative,  ha ampliato la portata applicativa al sistema radiotelevisivo dell’articolo 21 della costituzione. Ha chiarito che il pluralismo radiotelevisivo non è una categoria aggiuntiva ma essenziale alla libertà di informazione. Non può esserci libertà di informazione se non c’è il pluralismo dell’informazione. Ha detto nella sentenza 826 dell’88 che il pluralismo ha due profili:  il pluralismo esterno e il pluralismo interno. Non basta che ci siano tanti editori occorre che ci sia in ogni contenitore un approccio pluralista.

Nel ’93 nella sentenza 112 del 24 marzo ha detto che l’informazione deve essere completa, corretta e continua.  Non bisogna lasciare le notizie in sospeso. Bisogna garantire continuità all’informazione. Bisogna scavare anche con il giornalismo d’inchiesta. Bisogna fare in modo che ci sia una continuità nell’aggiornamento e che il pubblico sappia quale sia la parola definitiva di quel caso,  come vada a finire quella storia. Questo problema con la rete è diventato drammatico. Adesso con i motori di ricerca noi troviamo delle notizie non aggiornate, noi troviamo degli allarmi ingiustificati dei quali abbiamo perso le tracce. Per esempio gli allarmi alimentari, gli allarmi sanitari. Il tema della continuità dell’informazione che viene troppo spesso trascurato e che invece secondo me fa parte della completezza, correttezza e anche della libertà,  dell’indipendenza e del pluralismo dell’informazione. Altro elemento è la deontologia dei giornalisti. Dobbiamo partire dalla sentenza più importante della storia del diritto di cronaca:  la sentenza decalogo dell’84. La Cassazione ha dettato i tre principi cardine. Il  giornalista deve raccontare la verità; deve raccontarla con un principio di pertinenza cioè di aderenza all’interesse pubblico alla notizia;  e deve raccontarla anche con un principio di continenza quindi con un linguaggio non offensivo nei confronti delle persone protagoniste dei fatti. Questi tre principi della sentenza decalogo dell’84 sono stati tradotti poi nelle carte deontologiche che i giornalisti hanno prodotto. Codici di autoregolamentazione confluiti tre anni fa nel testo unico dei doveri del giornalista. Il  principio deontologico è fondamentale per distinguere i giornalisti,  dai dilettanti,  dagli avventurieri,  da coloro che invece fanno informazione semplicemente per altre finalità non professionali.

 

 

 

“Coloro che invece fanno informazione semplicemente per altre finalità non professionali” non devono essere depennati, a nostro avviso,  con uno sguardo caustico e un rimbrotto da parte del  fratello maggiore “stampa professionale” –  permetteteci questa nuova incursione – ma devono entrare in tutti i modi a far parte della narrazione. Del racconto del mondo. Questo rinnovato mondo digitale, che si compone di notizie di vario tipo, che arrivano da ogni dove, e in ogni forma e modo, e da tutti. Ma proprio da tutti noi. Il compito della stampa professionale è ancora più duro e arduo, ai giorni nostri,  ma anche sempre più importante e probabilmente decisivo. In questo mondo, in questa epoca:  ognuno di noi può diffondere qualunque tipo di informazione. Facendosene carico di fronte alla Legge. Mentre  l’informazione professionale deve imparare ad utilizzare al meglio questa informe e ipertrofica massa di dati. Bisogna cambiare al più presto l’orientamento dei professionisti. Farli scendere dal piedistallo su cui si sono rifugiati in un soprassalto di inutile orgoglio e di lesa maestà. Un soprassalto anche comico, non fosse che nel frattempo la barca affonda e la democrazia e il pluralismo VANNO A FONDO con essa. Ma torniamo di nuovo all’intervento di Razzante:

 

 

 

Andiamo verso una civiltà multimediale, siamo già immersi in una realtà fortemente intrisa di elementi di convergenza multimediale.  Dobbiamo chiederci in che modo le norme tradizionali si possano applicare anche al giornalismo online.  Quale debba essere il ruolo dei motori di ricerca e quindi delle piattaforme web – Google, Facebook, etc. – rispetto alla divulgazione, alla diffusione delle notizie di natura giornalistica, e quali debbano essere le nuove competenze richieste ai giornalisti. Il tema non è quello di traslare pedissequamente in modo abbastanza meccanico i criteri di libertà, indipendenza e pluralismo pensati per i media tradizionali e quindi traslarle sul terreno del web bensì quello di aggiornarli riadattarli e poi eventualmente superarli introducendo dei nuovi criteri di responsabilità che possano meglio cogliere la complessità del web. C’è ad esempio  l’omesso controllo: non solo il giornalista direttore risponde se scrive un articolo a sua firma,  sappiamo bene che risponde anche degli articoli scritti dai suoi giornalisti. Ci sono sentenze di pochi anni fa nei quali direttori sono stati condannati per omesso controllo per la versione cartacea dell’articolo,  e esonerati da responsabilità per la versione online dello stesso articolo. Quindi vuol dire che c’è anche da questo punto di vista un vuoto normativo,  che lascia spazio alla discrezionalità dei giudici,  ma che crea però un terreno di incertezza sul piano delle responsabilità dei giornalisti. Il cittadino é diversamente tutelato in un articolo sul web,  anziché in un articolo sul cartaceo o in un servizio radiotelevisivo.  E’ su questo terreno neutrale, asettico, obiettivo, imparziale, e scevro da ideologismi che bisogna confrontarsi realmente su questi temi,  abbandonando visioni preconcette e pregiudizi per arrivare ad arricchire il diritto del web.

 

 

Interventi del pubblico:

 

 

Alessio Falconio direttore di Radio Radicale: La sfida che ci ha mosso da sempre è quella di poter svolgere un servizio pubblico.  Perché interessa, perché è considerato necessario, pur non essendo la nostra emittente di proprietà statale. Per tornare alla relazione d’apertura del sottosegretario Crimi:  l’algoritmo compie delle scelte come le compie un direttore. Però secondo me un giornalista –  e lo dice chi ha l’onore di dirigere una radio che ha fatto anche campagna per l’abolizione dell’ordine giornalisti – un giornalista formatosi in anni e anni di esperienza dal punto di vista della conoscenza e della deontologia, sicuramente a mio giudizio fornisce della garanzie maggiori.  Tanto più che si è avuta la sensazione in Italia ma non solo, che l’algoritmo più che privilegiare le notizie fondate e certificate a un certo punto ha cominciato a privilegiare quelle più condivise facendo una scelta evidentemente commerciale. Questo a mio modesto parere potrebbe in qualche modo portare a distorcere la realtà e  dare una rappresentazione distorta dell’agenda setting di un paese o di come si racconta il mondo che poi è quello che dobbiamo fare tutti noi.

 

 

 

Giuseppina Paterniti  direttore Tg3: Siamo in una fase di trasformazione globale, siamo nel flusso, ma non vediamo il punto di approdo. Dobbiamo avere, secondo me, il coraggio, anche sul piano della normativa, per quanto riguarda definizione dei contratti di puntare a una figura di giornalista crossmediale dove il tema della formazione permanente diventa l’asse portante. L’esperienza che ho fatto alla Tgr è stata proprio questa:  abbiamo già redazioni con nuclei che lavorano in crossmedialità;  quindi radio, televisione, e web, e social,  e questo ovviamente ci porta a ricostruire tutto il tema dei linguaggi che oggi è così importante.

 

 

 

Sigfrido Ranucci Report: Il web è una fonte di notizie, di  libertà e di ricchezza impressionante,  ma secondo me:  è ancora un bibliotecario ubriaco, come lo  definisco io, nel senso che l’attendibilità delle notizie è difficilissima da verificare. L’inviato che va sul posto, e che  controlla e verifica le notizie, è una condizione indispensabile per la libertà di stampa.

Il diritto all’oblio. Si è detto e parlato dell’importanza della memoria di una notizia.  Una notizia senza memoria è orfana diceva il mio direttore Roberto Morrione.  A Report siamo sommersi di richieste di diritto all’oblio. Noi facciamo resistenza,  perché a nostro avviso viene male interpretata la legge. Ogni volta resistiamo e manteniamo la notizia sul nostro archivio.  Report è l’unica trasmissione che sbobina tutti i contenuti dell’inchiesta per una questione di trasparenza. Lo facciamo per una questione di trasparenza, di verifica e di controllo. E’ importantissimo mettere un freno a queste richieste di oblio. Perché altrimenti fra un po’ non si avrà più la possibilità di capire chi è che ha fatto dei danni al bene pubblico e alla collettività.

 

 

 

Enrico Mentana  direttore Tg La7: Le condizioni tecniche e generazionali stanno modificando completamente il sistema delle comunicazioni e quindi anche dell’informazione. Per dirla in termini molto banali: nessun giovane legge un giornale,  pochi giovani guardano i telegiornali,  e soltanto per tradizione familiare. Nel sistema in cui ognuno può essere informato in tempo reale attraverso il suo smartphone i mezzi di comunicazione di massa sono diventati qualcosa che è simile al supermercato lontano quando c’è Amazon.  Perché è evidente che il web non ha regole,  non è regolamentabile da uno Stato sovrano, non è frenabile,  e concepisce il diritto all’oblio come vuole lui.

L’ordine dei giornalisti è anacronistico perché proprio il web è lì a dimostrare che fa informazione chi apre un sito di informazione. Una notizia è una notizia. Se è vera oltretutto cementa la credibilità di chi la dà,  anche se non ha mai visto un tesserino da giornalista neanche col binocolo. Il regolatore però qualcosa deve fare, e può fare,  innanzitutto a livello sovranazionale,  imponendo un tavolo di confronto con i gestori dei social network. Bisogna pensare ad una riforma del settore che tuteli tutti.  La questione di fondo resta una sola:  nel 2023 chi finanzierà i giornali? Chi finanzierà le televisioni e i prodotti informativi, i prodotti di servizio pubblico qualunque sia la rete che li ospita? Chi finanzierà i siti informativi o le radio che vogliono fare un pubblico servizio? Se non partiamo da questo, tutto il resto, compreso una categoria sbrindellata – perché ripeto chiunque ormai può esercitare il ruolo di informatore – tutto il resto è noia.

 

 

 

Marco Gambaro repriseQualche anno fa negli Stati Uniti le cinque principali fondazioni hanno mandato una letterina alle scuole di giornalismo –  lì le fanno le università le scuole di giornalismo, i corsi universitari sono circa 130/140 – e hanno detto loro: cari amici l’anno prossimo o fate il corso di giornalismo fully digital oppure non vedrete più un soldo. E’ un tema che riguarda tutti non solo i giornalisti. Il percorso è quello e va realizzato subito. Formazione digitale di qualità per tutti.

Il tema sono sicuramente le piattaforme. Regolamentarle è molto difficile.  Porsi invece il problema di quali siano i meccanismi che consentono la sopravvivenza dei diversi sistemi informativi in modo laico,  cioè partendo da zero. E’ fondamentale.  Sono finiti i  soldi e dunque cosa si può fare per salvaguardare il sistema? Questo è un approccio ragionevole che andrebbe sicuramente seguito.

 

 

 

Direi che ci siamo. La formazione della cittadinanza, l’intera cittadinanza, non solo i giovani, non solo la popolazione scolastica, ma tutti noi, alle rinnovate dinamiche di vita post rivoluzione digitale. Questo è il primo e forse anche l’unico vero passaggio nodale attraverso il quale potrà essere davvero possibile, comprendere il presente e innescare tutti i meccanismi di superamento della crisi attuale,  ma soprattutto tutte quelle dinamiche che ci potrebbero portare – vivendo consapevolmente il nostro presente –  ad essere persone migliori e a poter vivere, tutti noi,  molto meglio.

E poi, scendendo nell’agone della crisi del sistema dell’editoria e dell’informazione, ripartire da zero per trovare nuovi modi per salvaguardare il sistema e continuare a garantirne il corretto funzionamento. E a questo punto e con grande pudore che ci permettiamo di citare lo studio del nostro associato Marco Dal Pozzo. Una piccola proposta nel cassetto. Si tratta di uno studio tutto da verificare nella sua eventuale applicazione pratica. Però è un elemento di effettiva discontinuità –  tanto per usare un termine molto in voga in questi giorni in politica – che parte da studi scientifici e non tenta, come abbiamo visto fare un po’ da tutte le parti fino ad ora, di rimescolare le carte per adattare un qualche tipo di vecchio modello analogico al nuovo paradigma digitale. Uno studio su un nuovo modello che è naturalmente a disposizione di tutti; Governo e Dipartimento dell’editoria in primis.

 

 

 

Ruben Razzante reprise: Non ha più senso mantenere la contrattazione standard visto che le competenze richieste per i giornalisti sono profondamente diverse e  trasversali.  Per cui ben venga dal punto di vista giuridico la definizione di nuovi profili contrattuali. La formazione dei giornalisti. Ci sono le scuole di giornalismo per le nuove leve. Chi è già giornalista ha la possibilità di fare i corsi di formazione organizzati dagli ordini regionali come obbligo di legge sulle professioni del 2012. Inizialmente, questi corsi sono stati fatti, secondo me, in modo pessimo. C’è stata una stretta e ora ci sono molti corsi centrati proprio sugli aspetti della formazione delle nuove leve di giornalisti,  che devono essere sempre più crossmediali.

C’è la necessità di affrontare in una in un’ottica sovranazionale la questione della regolamentazione del web. I bilanci di Facebook e degli altri colossi del web sono superiori, dal punto di vista economico e finanziario ai bilanci di alcuni stati. Non possiamo certamente pensare di fare la guerra a questi colossi e di vincerla. La logica è quella della corresponsabilità e quindi di un tavolo per definire dei parametri di corresponsabilizzazione nella produzione e diffusione dei contenuti sulle piattaforme del web.

In base alla direttiva sul commercio elettronico del 2001 i colossi del web erano de-responsabilizzati rispetto ai contenuti che viaggiavano in rete. Dicevano:  noi non siamo responsabili,  sono gli utenti che postano i video, noi non possiamo controllare tutto quello che avviene sul nostro spazio virtuale.

Adesso si stanno rivedendo questi profili ci si rende conto che anche questi colossi della rete attraverso filtri tecnologici, attraverso un monitoraggio diretto, devono essere obbligati a fare,  possono contribuire al potenziamento della qualità dell’informazione.

Un’azione in rete quindi è un processo che certamente andrà avanti per molti anni e che però sta già in parte producendo dei risultati.

 

 

Perdonate la nuova interruzione. Ma non possiamo che dissociarci da questo tipo di visione, che è in parte la stessa che ha portato alla recente sottoscrizione della dannosa direttiva sul Copyright, che rimette, come auspicato in qualche modo dal professor Razzante nel suo intervento, ai giganti della rete la responsabilità di quello che viene pubblicato sui loro portali/motori di ricerca/reti sociali e quant’altro. Parole come controllo vanno decisamente poco,  anzi,  per niente d’accordo, a nostro avviso, con termini come: informazione o libertà di espressione. Le procedure di funzionamento di questi portali, reti sociali, motori di ricerca, devono essere la parte condivisa e amministrata collegialmente con tutti gli Stati in cui le OTT agiscono, non il contrario. E se le medesime OTT hanno bilanci superiori a quelli di uno Stato, non dobbiamo per questo spaventarci o temere chissà quali ripercussioni. Sono loro prima di tutti noi a non volere questo tipo di responsabilità. E se andate a vedere le polemiche sollevate proprio da uno dei maggiori player in questione: Google, tanto per non far nomi, proprio pochi giorni prima che la famigerata legge europea fosse approvata, capirete che – per motivi certamente a noi sconosciuti e che tali rimarranno –  anche le OTT non cercano l’approccio di “controllo e corresponsabilità”. In fondo pensiamoci, nonostante si presentino come Campus e non come aziende, nonostante il loro fine propagandato in ogni dove sia:  “fare del mondo un posto migliore”; queste compagnie, giustamente dal loro punto di vista,  essendo attività imprenditoriali, perseguono il profitto come scopo primario, non altro. Quindi ogni sorta di corresponsabilizzazione in qualcosa,  non può che essere un impedimento, una zavorra non richiesta, un inutile rallentamento nella realizzazione del loro oggetto sociale. Dal nostro punto di vista corresponsabilizzarli cedendo loro il controllo dei contenuti,  non solo non è un passo avanti,  bensì un enorme mannaia pendente sulla libera circolazione delle informazioni e conseguentemente sulla formazione dell’opinione pubblica. Facciamo aprire loro il vaso di Pandora e poi  lavoriamo assieme a loro per costruire un modello sociale diverso e condiviso fondato sul bene comune e non solo sul profitto. Meglio:  sul loro profitto.

 

 

 

La giurisprudenza ha arricchito la mappa delle tutele. Ci sono tantissime sentenze della Cassazione in Italia che hanno punito in modo esemplare persone che attraverso i propri profili social avevano offeso degli altri soggetti. La giurisprudenza si sta spingendo a colmare i vuoti normativi e sta applicando l’articolo 595 terzo comma del codice penale che prevede il reato di diffamazione con altro mezzo diverso dalla stampa. Molte persone che postano online dei contenuti offensivi possono essere passibili di condanna. Ci sono tantissime sentenze della cassazione che tutelano le persone diffamate sui social anche attraverso chat di whatsapp. La mappa delle tutele sia pure solo su un piano giurisprudenziale, quindi di sentenze dei tribunali o della Cassazione in via definitiva,  si sta lentamente arricchendo.

Il tema delle questione delle liti temerarie va posto. Ci vuole una legge che possa scoraggiare coloro i quali cercano di intimidire i giornalisti,  impedendo l’attività del giornalismo d’inchiesta. Ma ci sono anche tanti giornalisti che non rispettano il loro stesso codice deontologico. Non è possibile spiare la vita delle persone dal buco della serratura senza che esistano elementi di reato.  Bisogna valutare caso per caso,  se esistano dei principi di liceità nell’utilizzo di questi strumenti. Non si può spiare tutto,  non si può registrare tutto,  non si può mandare in onda tutto. C’è un bilanciamento doveroso dettato dal nostro ordinamento giuridico tra il diritto all’informazione e il diritto alla privacy delle persone. Su questo bisogna fare un po’ di chiarezza.

La legge sulla par condicio. E’ una legge che in questo momento non ha più nessun senso e che diventa sicuramente limitativa della libertà d’espressione e soprattutto non è in grado di disciplinare la propaganda politica sul web.  Il problema di fondo è che la par condicio non è applicabile al web. Abbiamo difficoltà a determinare il quantitativo di follower, di like,  etc. e quindi non vedo in che termini si possa applicare. Si impone una revisione di questa regolamentazione.

Diritto all’oblio. Bisogna chiarire un punto: il diritto all’oblio non è il diritto indifferenziato al colpo di spugna. Una cosa mi dà fastidio sul web:  chiedo di eliminarla e il broadcaster è obbligato ad eliminarla. Non è così. Ci provano a intimidire,  ci provano,  ma non è così. Il Gdpr,  il regolamento europeo sulla privacy,  non disciplina il diritto all’oblio in ambito giornalistico;  come viene chiaramente spiegato nello stesso regolamento: quando il trattamento dati avviene per finalità informative sfugge a quel tipo di trattamento. Nei casi giornalistici ci sono due sentenze a cui far riferimento contro le richieste cicliche di diritto all’oblio.  13 maggio 2014 sentenza della corte di giustizia europea (caso spagnolo di richiesta di de-indicizzazione dal motore di ricerca Google di una notizia) e la sentenza della Cassazione 5.525 del 5 aprile 2012 (vicenda ex assessore socialista coinvolto in tangentopoli e poi assolto). Il diritto all’oblio per i giornalisti non è un obbligo di rimozione ma è un obbligo di corretta contestualizzazione dei fatti storici, corretta ricostruzione dei fatti storici. Nel web ci deve essere il racconto reale fino all’ultima evoluzione della vicenda. In caso di mancato aggiornamento della notizia si fa riferimento ad un provvedimento del garante della privacy del 24 gennaio del 2013 che ha stabilito che le redazioni devono intervenire nell’ url dell’indirizzo internet dell’articolo non aggiornato,  con una stringa di testo in neretto iniziale,  per dire che: l’articolo che vi accingete a leggere contiene delle notizie non aggiornate perché alla fine della vicenda giudiziaria “mario rossi” è stato assolto. Nessuno potrà mai chiedere di rimuovere le notizie o i servizi fatti,   purché siano rispettosi deontologicamente della verità dei fatti, dell’interesse pubblico, del contraddittorio. L’obbligo delle redazioni online è quello di essere depositarie della memoria storica. C’è anche una sentenza della Corte suprema tedesca che definisce che l’archivio è un bene della collettività e non può essere nella disponibilità di chiede la cancellazione.

 

La rettifica è un principio giuridico ed è un principio deontologico: ristabilire il dominio della verità dei fatti, rettificare le notizie inesatte, chiedere scusa e riparare gli eventuali errori. E’ scritto nell’articolo 2 della legge 69 del ’63 la legge che ha istituito l’Ordine dei giornalisti e quindi la legge professionale dei giornalisti. E’ scritto nelle principali carte deontologiche e anche nel testo unico dei doveri del giornalista che proprio scolpisce quest’obbligo di rettifica, chiedere scusa, ammettere gli errori. Tutti possono sbagliare,  anche i giornalisti,  purché poi nel web comincino ad essere aggiornate le notizie false.

 

 

 

 

Giuseppe Carboni direttore Tg1: La rete è la cosa più strutturata che esista nel sistema mondiale. E’ strutturata perché  l’algoritmo è severamente strutturato, pensato, studiato,  quasi infallibile per non sbagliare. L’informazione attualmente, è completamente destrutturata,  cioè l’informazione fondamentalmente riceve oggi la disintermediazione,  che è un elemento della società odierna.

 

 

 

Roberto Ghizzo Radio Veneto Uno di Treviso: Non possiamo sopravvivere senza avere il sostegno pubblico,  e noi diamo un servizio pubblico,  diamo un servizio alla comunità. La nostra piccolissima realtà è l’unica realtà italiana,  l’unica impresa privata italiana,  che fa informazione e anche cultura.

La nostra piccola realtà oggi è l’unica realtà italiana con una orchestra filarmonica  e una orchestra da camera,  che svolge un suo programma. Una serie di iniziative,  1/2 al mese. Abbiamo una redazione strutturata, tutti giornalisti assunti con regolare contratto. Non possiamo sopravvivere con la pubblicità,  diamo un servizio pubblico e abbiamo bisogno del sostegno del Pubblico.

 

 

 

Conclusioni

 

 

Ferruccio Sepe :  Questa giornata in qualche misura riporta al centro il fattore umano.  Non è l’algoritmo che ci spaventa non è lo strumento di diffusione orizzontale e anche internazionale che è il web che ci spaventa,  è l’uso che gli esseri umani possono fare di questi strumenti. Questo in qualche modo ci riporta alla dimensione deontologica che è probabilmente la sfida del futuro perché questi accordi internazionali che ci permettono regole che possono in qualche modo valere per tutti,  sono difficilissimi da realizzare. Attenzione a dare per morti gli strumenti, probabilmente la sfida del futuro è nella segmentazione. Ci saranno vari modelli, vari strumenti di fruizione e vari modi di fruire dell’informazione.  Non è detto che si vada per forza per sottrazione. Potremmo andare avanti per addizione ancora una volta. Questa è la lezione che ci viene dalla democrazia.

 

 

 

RingraziandoVi ancora una volta per la pazienza e il tempo che ci avete concesso fino a qui Vi lasciamo con il video integrale dell’incontro. Permetteteci una piccola nota a margine per completezza dell’informazione. Normalmente postiamo i video originali dell’evento condivisi su You Tube direttamente dalla segreteria del dipartimento dell’editoria. In questo caso abbiamo dovuto optare per il video postato dai giornalisti di  Radio Radicale.  Nello sbobinare l’evento,  lavorando sui video originali, ci siamo accorti, che nel secondo video postato dalla segreteria del dipartimento dell’editoria, mancavano alcuni minuti del secondo intervento del professor Gambaro e del professor Razzante. Grazie ancora a tutti  e alla prossima.

 

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