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Il governo Usa raccoglie dati sulle comunicazioni digitali della stampa? Due giornalisti investigativi su tre ne sono convinti

Circa due terzi dei giornalisti investigativi americani (il 64%) ritengono che il governo degli Stati Uniti abbia raccolto dei dati sulle loro telefonate, e-mail o altre comunicazione online, e otto su dieci pensano che il fatto di essere un giornalista aumenti la probabilità che i propri dati verranno raccolti. Coloro che si occupano di sicurezza nazionale, affari esteri e attività del governo federale sono particolarmente propensi a credere che il governo possegga dei dati sulle loro comunicazioni elettroniche (il 71% rispondono affermativamente).

 

Lo mette in luce un sondaggio condotto da Investigative Reporters and Editors (IRE) – un’ organizzazione senza scopo di lucro che fa capo al Pew Research Center – in collaborazione con il Columbia University’s Tow Center for Digital Journalism.

 

 

Sul suo sito il Pew rileva comunque che, almeno finora,  le preoccupazioni per l’ azione di sorveglianza da parte dell’ amministrazione o di hacking non hanno per lo più condizionato i giornalisti nel loro lavoro investigativo: solo il 14% del campione intervistato affermano infatti che negli ultimi 12 mesi tali preoccupazioni hanno loro impedito di affrontare una vicenda o contattare una particolare fonte, o li hanno portati a considerare l’ ipotesi di abbandonare del tutto il giornalismo investigativo.

L’ indagine si basa su un sondaggio online condotto dal 3 al 28 dicembre 2014 su un campione rappresentativo di 671 persone: un mix di cronisti, producer, redattori, data specialist, fotogiornaliti, ecc, impegnati in una vasta gamma di aree di copertura giornalistica.

Queste preoccupazioni però hanno spinto molti giornalisti a modificare il loro comportamento negli ultimi 12 mesi. Quasi la metà (49%) dicono di aver almeno un po ‘cambiato il modo di raccogliere o condividere documenti sensibili, e il 29% dice di aver modificato il loro modo di comunicare con i colleghi, i direttori o i producer.

E tra i 454 reporter del campione, il 38% dicono che nel corso dell’ ultimo anno hanno almeno un po’ cambiato il modo di comunicare con le fonti.

Quanto alla protezione esterna da minacce, i giornalisti investigativi non hanno molta fiducia nei loro fornitori di servizi internet (gli ISP). Solo il 2% ha “molta fiducia” nel fatto che il loro ISP sia in grado di proteggere i loro dati da accessi da parte di persone non autorizzate, mentre il 71% non hanno ‘’molta’’ o ‘’nessuna’’ fiducia in generale.

Le redazioni giornalistiche offrono valutazioni contrastanti sulla capacità delle aziende di proteggere la sicurezza delle comunicazioni dei propri dipendenti. Tra coloro che lavorano per organi di informazione (589 dei 671 giornalisti intervistati), la metà dicono che il loro datore di lavoro non sta facendo abbastanza per proteggere i giornalisti e le loro fonti dall’ attività di sorveglianza o dall’ hacking, mentre circa la stessa quota (47%) sostengono che stanno facendo ‘’abbastanza’’. Solo il 21% dei giornalisti intervistati affermano che la propria organizzazione si è impegnata nel corso dell’ ultimo anno per proteggere loro e le loro fonti, mentre il 36% dichiarano che la propria testata non l’ ha fatto. Il 42% rispondono di non saperlo. Circa la metà (54%) riferiscono di non aver ottenuto nessuna formazione o istruzione in materia di sicurezza elettronica da parte di fonti professionali come le associazioni giornalistiche, gli editori o le scuole di giornalismo.

Comunque, ci sono problemi più pressanti rispetto alla sorveglianza e all’ hacking. Dovendo fare una classifica delle quattro sfide maggiori che si trova ad affrontare la professione, la stragrande maggioranza (88%) dei giornalisti mette al primo posto la diminuzione delle risorse nelle redazioni. Seguono molto a distanza, le azioni legali contro i giornalisti (5%), la sorveglianza elettronica da governi o corporation (4%) e l’ hacking contro giornalisti e organi di informazione (1%).

E infine relativamente pochi giornalisti (27%) hanno dedicato almeno “un po’ di tempo” negli ultimi 12 mesi alla ricerca di come migliorare la loro sicurezza elettronica.

Nel complesso – conclude l’ articolo -, questi dati dipingono un quadro complesso da cui emerge come i giornalisti investigativi si sentano complessivamente vulnerabili di fronte alla sorveglianza e all’ hacking, ma non al punto da cambiare drasticamente le loro pratiche giornalistiche o di investire energie per capire come farlo. E quasi tutti gli intervistati (97%) sostengono che per i giornalisti di oggi i vantaggi della comunicazione digitale superano i rischi. Solo il 3% è convinto invece che i rischi superino i benefici.

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