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La Rete. Imparare a stare senza la ‘’droga’’ degli altri

Thierry Crouzet, esperto di reti sociali e autore di numerose opere sulle  nuove tecnologie (la più famosa delle quali è Le peuple des connecteurs), torna sull’ esperienza di disconnessione totale per sei mesi che aveva compiuto tre anni fa.

 

E spiega che, a suo parere, non è la tecnologia che dà dipendenza ma sono gli altri che diventano una ‘’droga’’ tanto da non riuscire più a stare soli con se stessi.

 

 

Crouzet riporta sul suo blog una intervista concessa a Le portail de langues franco-allemand, a cura di Chloé Stevenson, in cui spiega che cosa lo aveva spinto a quella ‘’cura estrema di disintossicazione’’ e che cosa quella esperienza gli ha insegnato.

 

Ma ecco la traduzione dell’ intervista

 

— A cosa somigliava una sua giornata classica prima del primo aprile 2011 ?

— Erano  piuttosto le notti ad essere bizzarre. Appena mi svegliavo per bere o andare in bagno leggevo le mail, i commenti sul mio blog e sulle reti sociali. Spesso restavo sveglio per ore, scrivendo articoli per spiegare e rispondere. Ero in uno stato di lavoro continuo, senza contare che i miei due figli erano ancora molto piccoli.

Il tempo reale delle macchine dominava il mio tempo biologico. Tentavo di essere sempre disponibile. Senza rendermene conto, avevo negato il mio corpo. Ero diventato solo spirito che inviava dei bit nel cyverspazio. Notte e giorno si confondevano.

 

—    Da quanto tempo è un  blogger professionale? Come lo è diventato?

Non sono un blogger professionale perché non guadagno su soldo col mio blog. Io bloggo per scambiare, per condividere, per incontrare. Bloggo perché scrivendo vedo il mondo e perché pubblicando sono costretto, forse, a una maggiore precisione.

Ho cominciato nel 2005, quando avevo finito di scrivere Le peuple des connecteurs. Avevo ancora delle cose da dire. Allora ho scoperto che questa scrittura aperta generava una sua propria forma, dei suoi propri contenuti, il suo proprio ritmo. Tutto ciò in seguito l’ ho definito il   Send .

 

Qual è stata la molla che la ha convinta a disconnettersi per sei mesi? Perché un gesto così radicale? Avrebbe potuto per esempio limitare il suo tempo di connessione.

— Lo racconto all’ inizio di  J’ai débranché. Una pseudo crisi cardiaca durante la notte. Mi ritrovo in ospedale. Va meglio, e io cosa faccio? Sul mio cellulare guardo le mail, il mio blog, Facebook, Twitter… E a quel punto mi dico: ‘’Ma questo è il meglio che puoi fare nel momento della tua morte?’’. La risposta era evidente: ‘’No’’.

In quel momento capisco di essere un tossicomane. Qualcuno accende sigarette su sigarette senza rendersene conto, io facevo lo stesso col web. Non decidevo più. Lo strumento si era impadronito di me. Dovevo riprendere il controllo della mia vita.

Senza parlare del segnale che il mio corpo mi aveva inviato nel cuore della notte. Non era una crisi cardiaca ma una crisi di angoscia. Un sintomo di burn-out. Ero agli sgoccioli. Dovevo riposare, cambiare vita, ma senza rinunciare alla Rete.

Per me Internet è una rivoluzione gigantesca, tecnica ma anche sociale ed estetica. Non si trattava di girare le spalle a questa forza fantastica. Io dovevo capire meglio. Quello che era importante e quello che lo era meno. Non potevo rinunciare a questo o a quel servizio arbitrariamente. Poiché non ero lucido dovevo tagliare, ma con l’ idea di tornare meglio, con maggiore serenità.

 

Da che cosa era diventato dipendente? Dall’ interazione? Dall’ istantaneità?

— Ero dipendente dagli altri, e lo sono sempre. Internet è lo strumento di comunicazione più fantastico che mai sia stato creato. Scrivo per essere letto, per avere degli scambi con i lettori. Tutto il giorno, sempre. Persone che ti dicono ‘’ti amo’’ o ‘’ti detesto’’, e ogni volta io lo intendevo come ‘’tu esisti, io esisto perché voi mi date importanza’’. Se ne chiede di più, si vuole aumentare la dose, si vuole più felicità.

 

Lei pensa che questo rischio di overdose riguardi anche delle persone ‘’normali’’, il cui mestiere non è quello di essere connessi in permanenza? Penso soprattutto alla generazione dei ‘’digitali nativi’’, una buona parte della quale ormai è connessa alle reti sempre e dovunque.

— Siamo quasi tutti dipendenti dagli altri. Nessuno viene risparmiato da questo fenomeno. Un giorno che uno gusta la droga della felicità che gli altri ti possono dispensare, la richiede, la rivuole.

 

Come educare questa generazione al digitale per evitare di farne dei futuri addict?

Tutto questo non ha alcun rapporto col digitale, ma unicamente con gli altri. Bisogna stare con loro, parlare con loro, ma anche imparare a stare solo, a vivere dei momenti di solitudine, dei momenti di inazione, di meditazione… Niente di più difficile quando gli altri sono sempre là, sempre pronti a mandare un po’ di felicità a un prezzo minimo.

Bisogna imparare a ritrovarsi senza di loro per stare dopo meglio con loro. Mi sono imposto questo esercizio per sei mesi. Credo che non esiste nessun altro modo di imparare tutto questo se non tramite l’ ascesi.

Ora che viviamo in permanenza con gli altri, come una vasta tribù, dobbiamo reinventare i rituali iniziatici propri delle tribù, adattandoli all’ epoca digitale.

 

Mi racconta la giornata classica del Thierry Crouzet “disconnesso”. Quali difficoltà ha incontrato?

— Era semplicemente una giornata del pre-internet, senza alcun obbligo. Ho letto molto, ho fatto un po’ di sport, ho dedicato un po’ più di tempo alla cucina e sono stato di più coi ragazzi… Molto banale e molto logico: il tempo che dedicavo agli altri su internet ora lo dedicavo ai miei. E’ ugualmente piacevole. Credo di non essere mai stato così felice.

 

Perché poi si è ‘’riconnesso’’?

— Ho già risposto indirettamente. E’ su internet che si gioca la nostra modernità. Quello che accade oggi e che non è mai successo prima. Sono troppo curioso per tenermi lontano molto tempo da questa rivoluzione. Sono incapace di smettrere di leggere gli autori che per me contano e che non pubblicano libri su carta.

E poi senza la Rete non potremmo risolvere problemi complessi del nostro tempo (climatici, economici, spirituali…). La Rete è indispensabile se vogliamo accrescere la nostra intelligenza collettiva. Dunque, giocare agli eremiti non ha senso. Dovevo rientrare, ma essendo meglio armato.

 

Che cosa ha provato al momento della prima riconnessione?

— Disgusto. Ho dato un occhio alle reti sociali e tutto ciò mi era apparso vuoto, lezioso, puerile. E poi ho una grande avversione per tutti quei muri in cui tutti vogliono esistere un po’ più degli altri. E’ terribilmente deprimente.

 

In seguito, ha fatto altre ‘’cure’’ più brevi?

— No, perché ho capito che le reti sociali non erano per me. Troppe voci che griudano ‘’Ci sono anche io’’. Sembrerebbe che l’ umanità sta affogando e che milioni di mani si levano per salvarsi.

Non sono sparito da questo mondo ma conservo una distanza prudente. Mi sforzo di non chiedere soccorso e soprattutto non mi aspetto niente. Tocca ai miei cari prendere la mia mano quando sto affogando.

 

In che cosa è cambiato dopo questa esperienza?

— Ho smesso di sdoppiarmi. Di essere nello stesso tempo su Internet e con le persone intorno a me. Ormai sono più presente. Quando sono con i miei cari sto con loro e non pronto a vedere quello che accade altrove. Se mi annoio, mi do da fare. Invece di fuggire sulla Rete, cerco dentro di me la forza per modificare la situazione. E quando sono sulla Rete, paradossalmente, vi sto in maniera più totale, con la coscienza che questa fase sarà seguita da una fase di disconnessione.

 

E se dovesse rifarlo?

— Lo rifarei con gioia, perché l’ ascesi è sempre un arricchimento, al di là di quello a cui si rinuncia. D’ altro canto, io alterno ormai senza interruzione le fasi di connessione e di disconnessione. E la mia è una presenza piena.

 

 

 

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