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Perché non è il caso di mandare qualcuno a Chicago

La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. L’antico adagio descrive perfettamente la piccola storia che gira in questi giorni in alcuni circoli online nostrani, denominata “Manda Tigella a occupare Chicago!”.

In breve, Claudia Vago chiede ai netizen contributi economici per pagarsi viaggio più alloggio, vitto, ecc. a Chicago per 10-20 giorni a inizio maggio.

Rispondendo un commento critico sul suo blog, a questo fatto della stanza d’albergo, Claudia replica: “Non credo che resterò tutto il tempo all’accampamento: io vado per raccontarlo, non per occupare. Cercherò di dormire lì qualche notte, ma mi servirà un post tranquillo in cui rimettere insieme i materiali da pubblicare, ogni giorno, nel sito”. Il punto sembra essere insomma, non l’attivismo di per sè bensì quello di seguire in loco il movimento Occupy e poi produrre (in modo alquanto vago, no pun intended ;) “materiali multimediali che (ne) raccontino l’organizzazione”.

 

Ciò ha dato vita a un tam-tam preventivo alquanto assurdo e controproducente, neppure si trattasse di chissà quale evento storico per la Rete italica. Oltre a vari rilanci del tutto acritici, quasi di ‘default’, non manca chi ci appiccica l’inevitabile etichetta di “futuro del giornalismo”, altri rilanciano frasi ad effetto sulla disintermediazione dell’informazione — con toni che non nascondono acuti di ideologia e auto-referenzialità. Ne esce fuori un quadro dal sapore approssimativo, poco ponderato e tutto sommato superfluo.

 

Pur nel suo piccolo, da anni LSDI (a cui collaborano persone legate a testate tradizionali, dei new media e del citizen journalism, inclusi progetti collaborativi di respiro internazionale) scandaglia sia la Rete sia il mondo dell’informazione per partecipare, documentare e appoggiare i vari “giornalismi possibili”. Questa volta segnaliamo però un caso di giornalismo mancato, non tanto per criticare il progetto in sè, quanto piuttosto perché il puzzle sconnesso, e acriticamente massificato, che ha preso forma in questi giorni danneggia anche quel che di buono c’è nell’ idea stessa. Un guazzabuglio che provoca un rumore di fondo e un pressapochismo che risulta controproducente per l’informazione in generale — e ancor più per il “futuro del giornalismo”, qualunque forma questo dovesse assumere.

 

OWS (Occupy Wall Street) è già fin troppo coperto sui social media (e sul mainstream). Per sua genesi e natura, il movimento OWS è stato (lo sarà anche a Chicago e dopo) uno dei temi che più e meglio usa i social media e internet per farsi sentire, senza filtri e a modo proprio. Basta fare semplici ricerche sul web, nella blogosfera, su Twitter, YouTube o altrove. Gli attivisti hanno prodotto (e producono) una mole incredibile di materiali multimediali. Su Amazon sono disponibili a pochi dollari diversi e-book autoprodotti con documenti originali, riflessioni, resoconti dettagliati. Un libro cartaceo (il cui ricavato andrà tutto al gruppo di New York che lo ha curato) è uscito da poco per OR Books e sta per arrivare in Italia presso un editore molto grosso. Analogamente, pressoché ogni testata mainstream del mondo ha seguito le vicende di OWS finora (e seguirà l’evento di Chicago), spesso e volentieri rilanciandone gli stessi materiali autoprodotti diffusi online, oltre ovviamente ad aggiungervi proprie analisi condivisibili o meno.
C’è quindi bisogno di ulteriori “corrispondenti”? Cosa potrà raccontare Claudia che già non viene diffuso dagli stessi attivisti online? Ha senso creare ulteriore rumore online? Forse l’unica utilità è quella della lingua, ma molto materiale è visuale/multimediale e ormai in Italia tanti masticano un po’ d’inglese (soprattutto fra i netizen), esiste ‘Google translate’, la lingua non è affatto un elemento cruciale.
Esiste un valore aggiunto d’informazione in questa idea? C’è stato forse un ‘furor di popolo (della Rete)’ che ha chiesto a Claudia di fargli da ‘corrispondente’ in loco? Non sembra, oppure se è così non sembra che venga fuori dal suo progetto, che molte persone affermano di voler finanziare un po’ acriticamente. E in definitiva, c’è davvero bisogno di “corrispondenti” dei social media, e non piuttosto di semplici editor o curator, più che mai nel caso della copiosa produzione di OWS (vedi sopra)?

 

Da quanto si legge, poi, la proposta non rientra in un progetto più articolato, tantomeno collaborativo. Claudia scrive di voler “…andare sul posto e da lì assistere direttamente e raccontare cosa succede, vivere la quotidianità del movimento”. In realtà non si nomina alcun progetto di giornalismo collaborativo e/o di portata più ampia. Per fare un esempio, si poteva pensare a un team di lavoro sul fronte italiano che segue eventi e materiali online mentre lei opera sul posto, e poi insieme producono un blog collaborativo, scelgono il meglio di quanto gira online, traducono se/quando serve, gestiscono un account Twitter e/o pagina Facebook e/o spazio su Storify/Storyfull condivisi in cui confluiscono i diversi flussi, rilanciano i commenti degli utenti, sviluppano forum di discussione, e così via. Non si pensa, insomma, alla “curation” di un’iniziativa partecipativa, aperta e “dal basso”, di cui Claudia può farsi un nodo assai utile sul posto, ma pur sempre parte di una progettualità più ampia ed articolata.
Né, altro esempio, si prova a proporre reportage originali, interviste, ecc. a una qualche testata mainstream, onde sviluppare collaborazioni a tutto campo e integrare il giornalismo tradizionale con quello innovativo e sociale online. Come ben sappiamo, simili collaborazioni sono assai utili e proficue per raggiungere il maggior numero di persone al di fuori della Rete, soprattutto nel ristretto panorama editoriale italiano. Né si pensa, altro esempio, a organizzare magari un evento pubblico notturno in una libreria o un locale in centro a Bologna (o altra città) dove avere una postazione internet per seguire live quanto OWS (e Claudia) trasmetterà via internet, con ospiti in loco a discutere, commentare e interagire anche via Skype o simili (problemi tecnici a parte).
Citizen journalism significa anche e soprattutto ampliare la conversazione, fare dibattito, e queste integrazioni tra l’online e l’offline sono di primaria importanza per il ampliare al meglio l’area della partecipazione a tutti i livelli.

 

Il “crowdfunding” è un processo delicato e va considerato molto bene. È un concetto (e una pratica) sperimentale, quasi sconosciuto in Italia, avendo a che fare con il sociale, con le persone, con la condivisione di un’idea e di un progetto. E’ ancor più delicato, nello specifico, quando quest’ultimo viene proposto unilateralmente dalla sua ideatrice e riguarda un ‘prodotto’ assai particolare, il bene-informazione, e per di più online. Chiedere soldi per un progetto editoriale, in un contesto in cui l’informazione online è gratuita di rigore, si avvicina pericolosamente al tradizionale acquisto del giornale in edicola. E nella filiera della proposta in oggetto, diventa ambiguo sostenere “E siete solo lettori, beh, preparatevi a finanziare il reportage del vostro inviato preferito”.
Intanto perché in realtà i lettori non hanno scelto o proposto un bel nulla – semmai il contrario. E poi perché considerarli ancora “lettori passivi”, anziché netizen inter-attivi e coinvolti nei processi editoriali oltre che produttori di contenuti, rispecchia il tipico stile del giornalismo vecchio stampo — che almeno poi però s’incarica di pagare i propri corrispondenti.

Che senso ha chiedere soldi per un simile progetto, senza poi coinvolgere più direttamente i donatori nella sua realizzazione o senza ascoltarne i consigli per risparmiare? Nel senso che non è chiaro cosa otterrà chi finanzia il progetto: notizie in esclusiva, rendiconti giornalieri sull’avanzamento del progetto, possibilità di suggerire temi da coprire? Oppure nulla di tutto ciò: finanziamento puro e semplice? La trasparenza gestionale e la chiarezza di base sono cruciali. Non a caso, esempi analoghi come Spot.us in USA e, in parte, YouCapital in Italia, sono denominati “community-funded reporting” e ricorrono al crowdfunding per proporre inchieste iper-locali, iniziative partecipate, integrate con testate mainstream, organizzazioni non-profit, entità varie, e così via. Vedasi, ad esempio, l’inchiesta con Valigia Blu sulle discariche nel Vesuvio, che si concluse con un videodocumentario ancora sul sito de L’Espresso: completa di interviste, testimonianze, reperti ed approfondimenti, realizzato con i contributi della gente che era direttamente investita da quelle problematiche.

Inoltre, rispetto alle ovvie difficoltà della raccolta-fondi: una cosa è “promettere” quote, come in questo caso, un’altra è raccoglierle materialmente. E tra una “buona intenzione” e sganciare anche un solo centesimo, ce ne corre. Né in questo contesto si intravvedono riferimenti o speranze per un vero e proprio community-funding.

 

Nel complesso riteniamo che, pur con tutte le buone intenzioni, questa iniziativa sia quantomeno affrettata, inutile e controproducente. Né torna d’aiuto per il futuro del giornalismo o per la partecipazione online. E pur se ovviamente ciascuno/a è “libero/a di fare e sbagliare come meglio crede”, l’invito generale è quello di ripensarci e di stare attenti alla schiuma del passaparola online, all’assenso automatico per qualsiasi iniziativa “dal basso” o presunta tale, senza un attimo di riflessione critica. Meglio non sprecare le poche (e preziose!) risorse umane ed economiche del giovane citizen journalism nostrano.

 

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