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Il gaming journalism, una nuova piattaforma per l’ informazione online

In una intervista a Fast company, Nick Kristof, editorialista del New York Times e primo blogger del quotidiano, parla del futuro del giornalismo nel mondo digitale e del filo sottile che separa le opinioni dall’ attivismo – Secondo Kristof i lettori vorrebbero dai giornalisti, oltre alle interpretazioni, anche delle indicazioni sul da fare per impegnarsi direttamente e racconta come, insieme alla moglie, stia lavorando a un gioco tipo FarmVille per parlare dei problemi di paesi in via di sviluppo e far impegnare col gioco i cittadini in campagne di solidarietà e beneficenza – Da sei anni, conduce i lettori direttamente dentro il suo lavoro, con l’annuale concorso “Vinci un viaggio”. Lo studente vincitore accompagna Kristof  in un viaggio di lavoro per la realizzazione di un reportage in un paese in via di sviluppo e quindi lo descrive nel blog.

 

THE NEW YORK TIMES’S NICK KRISTOF ON JOURNALISM IN A DIGITAL WORLD AND THE AGE OF ACTIVISM

 

di David D. Burstein*

 

(traduzione a cura di Elena Baù)

 

Nicholas Kristof ha scritto per il New York Times per oltre un quarto di secolo ed ha cominciato a pubblicare anche sulla pagina degli editoriali a partire dal 2001, scrivendo spesso sulle ’’battaglie’’ condotte da cittadini in parti lontane del mondo. E’ anche considerato la “coscienza morale” della sua generazione di giornalisti. Meno noto è il suo ruolo di innovatore nella professione. Nel 2003, è stato il primo blogger sul sito del The New York Times. Da allora, Kristof  è stato un pioniere tra i giornalisti nel mondo digitale. E’ attivo su Twitter e Facebook. Nel 2012, ha anche in programma di avventurarsi nel territorio del gaming-journalism, i giochi online applicati alla narrazione giornalistica.

 

Kristof ha creato il suo ‘’marchio’’ coprendo le crisi dei diritti umani di tutto il mondo: dalle proteste in corso in Bahrain ( lì si è beccato i gas lacrimogeni il mese scorso), alla guerra in Congo, al genocidio in Darfur (copertura che gli è valsa un premio Pulitzer). E, insieme alla moglie, la giornalista Sheryl WuDunn, ha vinto un altro Pulitzer per i loro reportage sulle dimostrazioni di Piazza Tiananmen in Cina, nel 1989. Nonostante il suo curriculum giornalistico, Kristof non ha paura di tuffarsi nei social media e sperimentare pubblicamente. Da sei anni, conduce i lettori direttamente dentro il suo lavoro, con l’annuale concorso “Vinci un viaggio”. Lo studente vincitore accompagna Kristof  in un viaggio di lavoro per la realizzazione di un reportage in un paese in via di sviluppo e quindi lo descrive nel blog.

 

Con Kristof  Fast company ha parlato di come il giornalismo si sta evolvendo nel mondo digitale.

 

Fast Company: Nei tuoi commenti e sui tuoi post online incoraggi il lettore al dialogo e alla comunicazione. Che tipo di risposte ottieni?

Nicholas Kristof: Una delle lamentele maggiori che ricevo dai lettori è che non gli dico abbastanza spesso che cosa possono fare. Io credo che questa sia un errore in cui il giornalismo a volte cade facilmente. Descriviamo una situazione molto triste ma non spieghiamo in realtà alla gente cosa può fare al riguardo. Così, qualche anno fa ho iniziato a compilare a fine anno un lista di buone azioni efficaci da fare. La prima volta ero molto in ansia e mi chiedevo se fosse davvero opportuno. Ma la risposta è stata così schiacciante, che sembrava quasi di aver fatto un vero e proprio servizio per i lettori e quindi ho continuato a pubblicarlo. Succede anche quando non incoraggio particolarmente le persone a donare. Per esempio, alcuni mesi fa ho parlato di un’ associazione chiamata “Room to Read” e dopo ho saputo che avevano raggiunto 700.000 dollari, dopo che la gente l’ aveva conosciuta dai miei articoli.

 

E’ un impatto piuttosto forte.

E’ piuttosto sorprendente, mi ha veramente colto di sorpresa. E mi ha reso un po’ nervoso perché non è ciò che noi giornalisti facciamo o dovremmo fare tradizionalmente, ma, di nuovo, questo evidentemente risponde al desiderio del lettore di fare qualcosa di più oltre a leggere l’ articolo, alla voglia di essere coinvolto. Noi giornalisti dobbiamo riconoscere che abbiamo bisogno di un reale confronto e di un dialogo a più voci con i lettori. Credo che siamo davvero in ritardo con i social networks. Avevamo una grande rete già predisposta in termini di lettori e non siamo riusciti a capitalizzarla.

 

Eppure sei stato uno dei primi ad adottare i social media al New York Times.

Sono stato il primo blogger sul sito web del Times. Era in corso la guerra in Iraq, e volevo uno sbocco per tutte le cose che vedevo ogni giorno e che non potevo inserire in due soli articoli a settimana. Poi mi sono interessato all’uso delle applicazioni multimediali, in particolare come strumento per coinvolgere i giovani. Tutti noi del mondo dell’ informazione ci stiamo chiedendo come sarà il futuro. A me è sembrato che i social networks siano parte della risposta a questo, perciò ho voluto sperimentare e vedere come potrebbero essere utilizzati.

 

Cosa ne pensi della tua interazione con i social media?

Tendo a considerarli come strumenti molto informali, ma imparo molto da loro, soprattutto da Twitter. Durante la Primavera araba ho saputo un sacco di cose da Twitter. Non è che credessi a priori a quelle informazioni, ma mi hanno dato idee sulle domande da porre. Si possono davvero imparare delle cose dal buon senso delle folle. Quando stavo andando ad Haiti ero alla ricerca di cose interessanti di cui scrivere, così ho chiesto alla gente su Twitter e Facebook ed ho ottenuto delle grandi risposte, che poi ho utilizzato nel mio lavoro.

 

Si tratta di un cambiamento rivoluzionario nel giornalismo o di uno sviluppo più naturale?

Per certi versi è solo un adattamento dei tradizionali parametri di approccio giornalistico. Prima solitamente sentivo un gruppo di esperti per sapere chi avrei dovuto intervistare ad Haiti. Lo faccio ancora, ma ora invio richieste anche tramite i social media. Un cambiamento che è in incremento. Stiamo passando da un formato in cui noi “proclamiamo le notizie” al mondo su una tabella fissa ad uno dove conversiamo con il mondo su base 24/7. E’ un cambiamento significativo. Non credo che quello che faremo fra 20 anni sarà molto simile a quello che stiamo facendo oggi. Non penso che gli opinionisti si dovranno limitare a due articoli da 780 parole a settimana.

 

C’è un grosso dibattito sul ruolo dei social media nel giornalismo, specialmente da parte delle maggiori testate della carta stampata. Mentre il Times stava sviluppando strategie e politiche, lei ha immediatamente iniziato a metterle in pratica. Perché?
Nella storia del processo di industrializzazione, le persone che padroneggiavano una tecnologia tendenzialmente non erano le stesse che avrebbero dominato la tecnologia successiva. I costruttori di diligenze non hanno prodotto le automobili. Quelli dei veicoli a motore non erano gli stessi che hanno sviluppato i treni. E questi ultimi non erano quelli delle compagnie aeree e così via. Questa è una cosa a cui penso con preoccupazione per quanto riguarda le piattaforme giornalistiche. E questa è la ragione per la quale sono disposto a fare sperimentazioni con i nuovi media e le piattaforme così come via via si presentano. Alcuni di essi sembrano vicoli ciechi, spesso non sono molto bravo a riconoscerli. Credo ci sia una naturale tendenza ad essere molto orgogliosi della propria piattaforma esistente e ad essere un po’ scettici verso le nuove tecnologie. Ma penso sia utile respingere lo scetticismo e provare cose nuove. A volte funzionano e a volte no. Penso che il gaming online possa essere la prossima grande piattaforma per le redazioni, anche se c’ è ancora un po’ di snobismo: il gioco? ‘’Ma è quella roba che fanno i ragazzini’’, pensano molti di noi, o sono troppo divertenti per essere degni della nostra attenzione. Ma ci sono un sacco di persone che passano parecchio tempo a giocare online, quindi noi dell’industria dell’informazione faremmo bene a pensare a come possiamo utilizzare i giochi per attirare l’ attenzione. Mia moglie ed io stiamo facendo un documentario televisivo del nostro libro Half the Sky, ma stiamo anche creando un gioco su Facebook come parte di questo lavoro.

 

Come funzionerà il gioco?

Ci stanno lavorando in un’ azienda chiamata Games for Charge. Per certi versi sarà analogo a Farmville. Ci sarà un villaggio e per tenerlo in cita bisognerà prendersi cura delle donne e ragazze della comunità. Le azioni nel gioco avranno anche degli effetti nel mondo reale. In altre parole, ci saranno scuole e campi profughi che beneficeranno dei buoni risultati ottenuti giocando. Andrà in diretta quando il documentario debutterà alla fine di quest’ anno.

 

C’è un lato più problematico del giornalismo nell’era digitale? Ti preoccupa il fatto che il giornalismo partecipativo possa diminuirne la credibilità complessiva, ad esempio?

Credo ci sarà sempre una gerarchia di credibilità. Noi del mondo dell’ informazione ne siamo stati storicamente i custodi. Ora penso che tale funzione sia andata in gran parte perduta, e questo è uno svantaggio. Ma poter avere gente che fa delle riprese video ovunque garantisce un buon livello di attendibilità. Un sacco di persone, me compreso, sono rimasti davvero sbigottiti vedendo i video sulla violenza della polizia durante Occupy Wall Street. Un decennio fa nessuno avrebbe saputo di ciò, perché non ci sarebbe stato un giornalista lì e anche se qualcuno avesse scritto di questo non avrebbe potuto rendere lo stesso dramma. Allo stesso modo in Siria, i video procurano qualche imbarazzo al governo che, se massacra le persone sa anche che ci sarà probabilmente un video che lo testimonierà. Loro possono comunque decidere di massacrare la gente, ma il prezzo di questa azione aumenterà notevolmente.

 

Un altro dei grandi cambiamenti che abbiamo visto negli ultimi anni nel mondo del giornalismo è l’aumento dell’ informazione di parte. Una cosa diversa da quello che fai tu. Prendi Fox News ad esempio.

Gli ospiti di Fox News hanno tutto il diritto di essere partigiani e dogmatici. Nel caso di Fox News è un po’ sgradevole perché sono tutti molto vicini al partito repubblicano. In modo minore forse Bill O’Reilly – sono in disaccordo con lui su qualsiasi cosa possibile -, ma penso sia più indipendente.  Non mi sembra un problema se i commentatori sono così ostinatamente di parte, sia che si tratti di Bill O’Reilly che di Keith Olbermann. Ma vorrei che una parte di quella passione ed energia fossero dedicate anche a far luce su altre questioni. Penso a quelle cose su cui il giornalismo potrebbe modificare le menti e dove possiamo avere un impatto. Una volta ho invitato Bill O’Reilly ad un viaggio in Darfur con me. In quel periodo era concentrato sulla terribile ingiustizia della “Guerra al Natale”. Scrissi un articolo dicendogli che, se voleva vedere ingiustizie e soprusi, chiudesse con quella storia venisse con me in Darfur.

 

E’ venuto?

No.

 

Ma ti sei portato dietro varie altre persone per raccontare quelle vicende, tramite il concorso ‘’Vinci un Viaggio’’. Come ti è venuta l’idea?

L’ impulso mi è venuto mentre stavo scrivendo sul Darfur. Ero molto frustrato perché stavo scrivevo questi articoli ma mi sembrava che stessero sparendo nel nulla. Stavo cercando di capire come coinvolgere i giovani e introdurli nel mondo del giornalismo d’ opinione. Così ho avuto l’ idea di scegliere uno studente da far venire con me in viaggio in Darfur e che poi ne avrebbe scritto nel blog. L’ho proposto ai consulenti legali del Times e loro hanno detto qualcosa del tipo “Hmm. Così si vuole portare uno studente in una zona di guerra?!” Allora ho rettificato il tiro e ho pensato di portare uno studente con me in un viaggio di reportage in un paese in via di sviluppo. E’ stato un grande successo. Ho incoraggiato fortemente gli studenti ad adottare diverse prospettive e a scrivere tutto quello che vogliono.

 

Una volta ti sei descritto come una sorta di ‘’frode’’ nell’ industria delle opinioni.

Quando mi dettero il mio spazio ero entusiasta, ma anche un po’ inorridito. Non sono una persona particolarmente supponente, e qui mi veniva chiesto di scrivere commenti ‘’pesanti’’ per due volte alla settimana. Ma sono entrato nel giornalismo perché volevo fare la differenza nel mondo. La piccola luce che portiamo con gli articoli di opinione può realmente avere un effetto potente sull’ agenda delle priorità nel campo di argomenti che sento con passione: giustizia sociale, uguaglianza e opportunità.

 

Come fai a negoziare il confine tra giornalismo e attivismo?

Ogni tanto qualcuno continuerà a venire da me e mi dirà “Oh, sei un meraviglioso crociato” e trasalirò. Sono scettico sul concetto di essere un attivista o un crociato. Certo sono un uomo di parte quando scrivo un editoriale, ma c’ è una sottile, quasi impalpabile linea di demarcazione tra la partigianeria e l’ attivismo. Uno dei pericoli dell’ attivismo è che si diventa così tanto parte di una causa che si perde la propria obiettività. Ci può essere la tendenza di iniziare a parlare per una causa piuttosto che per se stessi. Io cerco di muovermi in questi territori, ma francamente ci sono un sacco di linee sfocate.

Specialmente quando stavo scrivendo parecchio sul Darfur, a volte ero preoccupato a proposito di dove mi trovassi io in rapporto a quella linea. Rispettando le regole di condotta del New York Times io non parlo di raccolte fondi o riunioni a porte chiuse di organizzazioni specifiche. Questo è un modo per cercare di mantenere una certa distanza giornalistica. D’ altra parte, quando si sente che ci sono un sacco di vite in gioco, è dura non poter fare tutto il possibile per salvare quelle vite. Esistono delle difficoltà oggettive nel cercare di capire quando è opportuno per i giornalisti tuffarsi nell’arena. Ma a volte è quello che si deve fare.

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