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Uk riots, l’ uso di Twitter e Facebook è un diritto fondamentale?

I social network non sono come un’ autostrada che si può chiudere in casi di emergenza, come sostiene il primo ministro inglese, e farlo – sostenendo che ‘’non sarà certo la fine del mondo’’ – significherebbe violare il principio e il diritto della libertà di espressione – Una mossa che governi repressivi di paesi come Cina e Iran accoglierebbero con entusiasmo, come una indiretta giustificazione delle loro politica repressiva  – Matthew Ingram su Gigaom e Giovanni Boccia Artieri sulla scoperta dell’ ”uncivic engagement”

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Mentre due giovani inglesi, di 20 e 22 anni sono stati condannati a 4 anni di reclusione per aver usato Facebook per lanciare un appello a scendere in piazza (come tanti altri avevano fatto in Tunisia o in Libia),  in Parlamento il primo ministro britannico David Cameron ha spiegato che il governo prendeva seriamente in considerazione l’ ipotesi di bloccare l’ uso collettivo di social network come Facebook e Twitter,  paragonando questo dipo di blocco alla chiusura di una strada o alla sospensione del servizio ferroviario a causa di una emergenza.

Intanto, sul Wall Street Journal Gordon Crovitz, un noto commentatore,  utilizzava lo stesso argomento, sostenendo che un divieto di usare i social network  non violerebbe il principio delle libertà di espressione e che i ‘’tecno-utopisti’’ si starebbero preoccupando per niente.

Ma è la verità? Oppure decisioni di questo tipo possono costituire un passo sul pendio scivoloso che porta a un controllo in stile cinese sui network di informazione?, si chiede Mathew Ingram su gigaom.com. Una domanda retorica, accompagnata da un riferimento alle posizioni di Evgeny Morozov, esperto di politica internazionale, che in un articolo sul Wall Street Journal dal titolo “Repressing the Internet, Western-Style” consiglia i sostenitori di tali misure a prendere coscienza del fatto che governi repressivi in paesi come la Cina o l’ Iran stanno seguendo con attenzione quello che le democrazie occidentali fanno in questo campo e aggiungendo che ogni restrizione delle libertà verrà presa come una giustificazione della loro politica repressiva.

Ingram ricorda che Cameron non è il solo a considerare possibili misure del genere. Tra l’ altro, secondo lui, anche l’ argomento usato dai sostenitori di quella politica – il ‘’non sarà certo la fine del mondo’’- è parte del problema, visto che ci incoraggia a vedere tale politica come una sorta di semplice misura punitiva e non come un risultato fortemente negativo. Ma, nonostante quello che Crovitz pensa – sottolinea Ingram -,  ogni restrizione o sospensione in questo campo viola principi importanti come quello della libertà di espressione. I governi – aggiunge Ingram – hanno il diritto di stabilire restrizioni di quella natura in alcune situazioni di emergenza? Certo che sì. Ma quelle situazioni devono essere scelte con molta attenzione e noi dovremmo spingere le autorità che lo fanno a giustificare tale scelta.

La libertà di parola deve essere protetta in ogni modo.

Questi tipi di restrinzione non si possono paragionare alla chiusura di una strada. Il discorso pubblico, che avviene anche col supporto di social media come Twitter e Facebook – per non parlare dei cellulari e degli altri network – non è come andare in macchina a comprare il latte, quando qualche inconveniente non è certo un grande problema. Coloro che sostengono che  non è un diritto usare Twitter, oppure che questi strumenti sono irrilevanti e frivoli – e che quindi una loro sospensione non è rilevante – finiscono per giustificare le politiche repressive dei governi di paesi come Iran e Cina.

La doppia morale

E’ una ulteriore conferma del principio della doppia morale ‘’ che può essere applicata a questi luoghi di rappresentazione della pubblica opinione e di civic engagement’’, commentava qualche giorno fa  Giovanni Boccia Artieri su Mediamondo.

‘’Come ho già scritto se l’ uso ci sembra volto alla determinazione dei popoli, come per l’Iran l’Egitto, la Siria, ecc., allora siamo pronti a schierarci contro ogni censura delle conversazione online. Se le azioni violente organizzate dai cittadini (ma anche le manifestazioni meno cruente) ricadono su territori reali che vedono già i popoli “determinati” allora ci possiamo domandare “se sia giusto bloccare le comunicazioni attraverso questi siti e servizi”.

La nostra morale – aggiunge Boccia Artieri – oscilla in base ad una ragione pragmatica, frutto di convenienze orientate dalla nostra presunzione di civiltà: noi non siamo il Nord Africa.

Tanto che – come hanno riportato vari giornali, fra cui la Stampa –  molti paesi dittatoriali ironizzano pesantemente sulla vicenda.

La scoperta dell’ uncivic engagement – rileva Boccia Artieri – è emersa con forza. Leggendo i diversi contenuti su Twitter non ho avuto tanto la sensazione che le gang (parte terribile del problema secondo la polizia inglese e il Primo Ministro) si auto-organizzino online: secondo me si parlano, più congeniale alla forma tribale di appartenenza territoriale. Quello che ho letto è invece disagio e rabbia, voglia di riappacificare gli animi e tensione capace di accendere la miccia. Un ambiente in cui la gente si confronta con la gente, in cui l’umore di una nazione sembra emergere, dal basso, con forza. Le strategie proposte di censura non faranno altro che spostare verso nick name, nuovi account e domini diversi i facinorosi. Il resto sembra tanto, giusto per ricollocarci nell’immaginario, richiamare (e spesso l’ho trovato citato) lo spirito di “V” – personaggio che Alan Moore inventa sotto la spinta emotiva del clima di un’ Inghilterra governata da Margaret Thatcher, aggiunge Boccia  Artieri, che conclude:

Come scrive Ousley: “killing a communication method doesn’t kill the spirit behind the messages”.

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