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Tv pubblica, futuro incerto: un confronto fra Italia e Usa

Anche negli Stati Uniti la tv non commerciale non se la passa molto bene, ma la discussione sui possibili interventi è accesa, dall’ ipotesi di un servizio informazione finanziato dal denaro pubblico all’ idea di sfruttare le potenzialità delle reti di emittenti locali – In ogni caso viene dato per scontato il processo che porterà alla convergenza di linguaggi e piattaforme – In Italia invece l’unico settore dell’informazione in cui si investe più che negli altri Paesi è quello delle sovvenzioni pubbliche alla carta stampata, con risultati, prevedibilmente, pessimi

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di Andrea Fama

La televisione pubblica italiana è malata. I bilanci sono acciaccati e le entrate pubblicitarie sono stranamente in calo nonostante gli ascolti spesso tengano (a parte quelli del TG1). L’antidoto? Cancellare il programma con il maggiore share e le maggiori entrate pubblicitarie (Annozero), e mettere sulla graticola qualcuno scelto a caso tra i migliori della classe – vedi Che Tempo che Fa, Report e Parla con Me. Il tutto attraverso una nebulosa infantile di virgolettati, smentite e comunicati stampa.

Un antidoto masochista per un malato a tratti immaginario, dunque. Ma nonostante tutto, alla fine della fiera – e congedato finalmente Santoro – Fazio ce l’ha fatta e la Gabanelli sembra aver strappato un contratto. Sulla trasmissione del duo Dandini/Vergassola continuano, invece,  ad addensarsi dubbi, indiscrezioni, e speculazioni (vedi il ruolo da potenziale ‘acchiappatutto’ più volte affibbitao a LA7), a tratti imperscrutabili, spesso dequalificanti, trattandosi pur sempre della gestione del palinsesto della televisione pubblica nazionale.

Senza entrare nel merito della qualità di ciascun programma – ma senza ignorare il summenzionato apporto di share/inserzioni – ci si può limitare ad osservare che si tratta, accidentalmente ma implacabilmente, di programmi di informazione e cultura. Piuttosto che allarmarmi l’eventuale arricchimento – materiale ed intellettuale – del potentato mediatico di turno (LA7, appunto), mi atterrisce l’idea che l’Italia sia un Paese in cui si possa pensare di poter spegnere l’informazione e la cultura pubblica semplicemente perché … ci va.

E questo solo per quanto riguarda lo smantellamento delle risorse interne.

Naturalmente, a fronte del parziale (vedremo in che misura) sperpero di parte dei gioielli di famiglia, farà da contrappeso una massiccia politica di ristrutturazione e rilancio dell’azienda: rinnovato il contratto a Max Giusti al timone di Affari Tuoi, Fabrizio Frizzi torna a condurre Miss Italia, e viene confermata anche la profumata campagna acquisti dal vivaio Endemol (che produce centinaia di ore annue di trasmissioni RAI, tra cui lo stesso Affari Tuoi, ma anche Che Tempo Che Fa e Parla Con Me. Qui qualche interessante cenno storico – a proposito del matrimonio tra Endemol e RAI, ma anche della “convergenza tra parola e immagine” cui accenneremo in seguito). Insomma, una ricetta tutta nuova da leccarsi i baffi all’ora di pagare il canone.

La TV pubblica USA

Anche negli USA la televisione pubblica (che non esiste nella forma di un canale pubblico nazionale, ma solo di canali locali che al massimo possono aderire tutti ad un unico “consorzio”, il più grande dei quali e’ il Public Broadcasting Service (PBS)) non se la cava proprio benissimo, soprattutto sul fronte degli ascolti in campo di informazione e approfondimento (visto che lì, oltremare, la TV pubblica può fare anche questo): l’aggressiva Fox News ha eroso l’audience televisiva destrorsa e filo repubblicana, mentre il pubblico liberal-sinistroide adotta sempre più spesso, e  felicemente, canali di informazione integrati a scapito del mezzo televisivo.

L’ antidoto che viene offerto dalle pagine dei giornali a stelle e strisce (non una pagina a caso, ma dalla cover story della Columbia Journalism Review) è un auspicio affinché la cara, vecchia televisione che “ogni sera ci porta il mondo nel soggiorno di casa” sia in grado di risollevarsi e reinventarsi, “in un’era in cui abbiamo disperatamente bisogno” che la TV pubblica “sia più di quello che è attualmente”.

Un auspicio, e tre autorevoli punti di vista sul possibile evolversi della televisione pubblica statunitense.

La neo-adottata Emily Bell (ex direttrice della redazione digitale del Guardian, oggi alla guida del Tow Center for Digital Journalism presso la Columbia University Graduate School of Journalism), sostiene la mancanza, negli States, di una compagine come la BBC inglese, pur riconoscendo le ragioni di tale impossibilità e concentrandosi sulle possibilità realisticamente esistenti.

Secondo Lee C. Bollinger (presidente della Columbia University) l’evoluzione delle istituzioni regionali, inclusa la stampa, in entità nazionali, determina che le istituzioni nazionali assumano a loro volta un approccio necessariamente globale al fine di soddisfare le esigenze di informazione proprie del nostro tempo. E apre ad un “American World Service,” ovvero un servizio di informazione per l’era globale finanziato dal denaro pubblico statunitense.

Infine, Elizabeth Jensen (responsabile del settore relativo alle emittenti pubbliche per il New York Times) esamina il DNA delle emittenti locali pubbliche, nella speranza che possano colmare il divario sull’ informazione alimentando la propria capacità di rintracciare ed elaborare le notizie – pur non rintracciando numerosi “geni giornalistici” nella linfa che anima la cultura della televisione pubblica.

Ma quale futuro attende il mezzo televisivo in generale?

La risposta proviamo a rintracciarla attraverso due analisi che arrivano proprio dall’Italia e dagli USA, e che tracciano i possibili scenari futuri cui si va affacciando il mezzo televisivo nel suo complesso. Entrambi gli autori concordano sulla imprescindibilità della convergenza di più mezzi e linguaggi.

Tuttavia, uno è più cauto. Piero Macrì, sull’European Journalism Observatory, parla di sperimentazione, rimandando i risultati ad un futuro scarsamente prevedibile e lasciando anche emergere alcuni limiti strutturali alla realizzazione del ‘progetto convergenza’.

Oltre al problema di competenze e linguaggi, infatti, si può notare che per i giornali la migrazione – più che la convergenza – è una scelta obbligata, che non riflette necessariamente un’effettiva volontà di aprirsi e di sperimentare il nuovo che avanza. Per la TV, invece, in virtù delle difese pubblicitarie che la immunizzano dal virus della Rete, è un’opzione perseguibile più o meno virtuosamente.

Spetta dunque ai “grandi network d’informazione” raccogliere la “sfida per ridefinire il prodotto giornalistico: non più riferito a silos che raccolgono know how e competenze settoriali, ma riferito a un unico grande serbatoio di idee e risorse in grado di rendere fruibile un’informazione concettualmente innovativa e coerente con le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione”.

L’ altro autore (David Carr del New York Times), invece, analizza il fenomeno coniugandolo al gerundio presente. La sua analisi dipinge un paesaggio mediatico che appare “colpito da un terremoto seguito da uno tsunami” (triste metafora, visti gli sconvolgenti accadimenti verificatisi in Giappone soltanto due mesi più tardi che l’articolo fosse pubblicato), in cui sembra prevalere la contaminazione e la fusione dei media e delle piattaforme.

Già a gennaio, Carr etichettava il 2011 come l’anno del grande mash-up, la stagione che avrebbe segnato l’addio ai media verticali, la fine della “TV lineare” e l’affermarsi di modelli ibridi in campo editoriale e nella raccolta delle notizie, che avrebbero gradualmente sostituito la vecchia competizione con un grado sempre maggiore di cooperazione.

Dalle fusioni alle start-up, dai nuovi dispositivi ai format pubblicitari, dai social network ai Web-televisori: la convergenza, Carr pare già toccarla con mano.

In America, forse. Qui da noi (a parte qualche sporadico esempio dettato più dalla disperazione che dalla sperimentazione) siamo già fortunati se riusciremo a leggere la Settimana Enigmistica, visto che alla lucida strategia suicida e tafazziana del servizio televisivo pubblico, e alla stretta che da anni (salvo poi intensificarsi negli ultimi mesi) si cerca di dare in tutti i modi alla Rete, l’unico settore dell’informazione in cui l’Italia investe più degli altri Paesi è quello delle sovvenzioni pubbliche alla carta stampata – con risultati, molto probabilmente, pessimi.

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