Giornalismo digitale: dalla ‘’convergenza’’ alle incognite di una nuova divergenza
(Innovazioni e paradossi di una rivoluzione ancora in cerca di un modello economico/4)

Mobile

Mobile, video e nuovi dispositivi emergenti hanno costretto le testate a rimettere nuovamente a punto l’ organizzazione delle redazioni in funzione delle nuove forme di prodotti per la ”mobilità” – Ma tutto il settore è  ancora in fase di transizione  e per le aziende fare previsioni basandosi su dati di vendita prematuri e volatili crea ulteriori difficoltà – Anche i video, che inizialmente sembravano un campo promettente anche dal punto di vista economico, sono risultati un settore difficile, troppo cari e difficili da realizzare: e anche se le tariffe pubblicitarie sono da tre a cinque volte maggiori rispetto ad un normale display, spesso non attirano traffico sufficiente per realizzare entrate sostanziose – Il quarto capitolo di ”The story so far”, il Rapporto della Columbia sul giornalismo digitale è dedicato ai ”nuovissimi media”

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Le testate giornalistiche sono al centro di un flusso continuo di innovazioni che consentono di portare la produzione di notizie e servizi su supporti tecnologici diversi e le aziende stanno compiendo investimenti notevoli per capire quali sono i dispositivi più attraenti e come ottenere i risultati migliori anche in termini di ricavi. Ma la situazione, oltre che incerta è ancora piuttosto confusa, e gli editori sono alla ricerca di una difficile ”quadratura”. Anche nel capo dei video, che inizialmente sembravano una gallina dalle uova d’ oro, le aziende si sono accorte che i ricavi non sono ancora sufficienti a coprire le spese e che convincere gli utenti a guardare i filmati non è una impresa facile.

Il quarto capitolo di ”The story so far” è dedicato ai problemi nel campo del ‘mobile’, dei video e delle altre piattaforme emergenti, che hanno costretto molte redazioni a fare una sorta di marcia indietro: dalla ‘convergenza’, la parola chiave che dominava negli anni scorsi e che aveva portato tv, quotidiani, magazine e siti online ad assomigliarsi tutti, si è passata a una nuova ‘divergenza’, visto che bisogna diffondere notizie ed articoli in modi distinti e per piattaforme diverse.

Il panorama – osserva il Rapporto – è molto complesso per il numero di dispositivi che via via si affacciano sul mercato e per le compatibilità fra formati e dispositivi, tanto che una domanda apparentemente banale continua a percorrere il mondo dell’ editoria digitale senza trovare una risposta: “perché non è possibile leggere un quotidiano su qualsiasi dispositivo?”.

Una questione di primo piano è quella delle forme di abbonamento – rilevano gli autori, che sottolineano comunque come la soluzione migliore siano le forme di abbonamento All access. Soluzioni come quella adottata da Time inc., con una schema di prezzi che aiuta a proteggere l’edizione stampata e raggiunge il pubblico digitale più ampio possibile.

D’ altra parte il piatto è ricco – forse è la fonte principale di questa industria nel futuro – e quindi alcuni editori sono disposti a investire molto, per scommettere su un futuro ignoto e evitare di doversi accomodare in seconda fila.

Grande fermento, molte proiezioni, ma fare previsioni basandosi su dati di vendita prematuri e volatili è complicato. I dati sull’uso di tablet e smartphone provengono da prodotti – e da un ambiente in forte concorrenza – che sono ancora di transizione. Molti compratori sono persone ipertecnologiche, una fascia di persone i cui comportamenti non si prevedono facilmente: dei 66 milioni di utilizzatori di smartphone negli Stati Uniti, ad esempio, solo un terzo ha usato browser o fatto il download di un’ applicazione (secondo i dati del gruppo comScore).

Quanto ai video sono stati ritenuti un ottimo strumento per avere una partecipazione vasta, ma molte redazioni hanno trovato i filmati troppo cari e difficili da realizzare. E anche se le tariffe pubblicitarie sono da tre a cinque volte maggiori rispetto ad un normale display, i video spesso non attirano traffico sufficiente per realizzare entrate sostanziose.

Certo, sottolinea il Rapporto, l’ accesso alla banda larga ha reso la distribuzione dei video più accessibile. Ma convincere gli utenti a guardare nuovi video non è facile. E così il videogiornalismo online sta diventando un mondo di ricchi e poveri. Fra i primi CNN.com regna suprema.

E’ anche un problema di scala : diversamente dai concorrenti locali, CNN.com riesce a mantenere in equilibrio i costi della tecnologia e della copertura giornalistica con una ampiezza di pubblico enorme. “Se non raggiungi una ‘scala’ adeguata non puoi fare business”, affermano in azienda.

Ma CNN.com è un po’ una eccezione per il suo successo: la gran parte dei siti web delle stazioni tv locali guadagnano molto poco. Dalle interviste ai dirigenti di una stazione tv con sede in una delle cinque più importanti aree metropolitane del paese (che ha accettato di condividere i dati a patto di non essere identificata), emerge una fotografia della situazione piuttosto difficile. Ad ottobre 2010, il sito di questa stazione tv richiamava circa 7 milioni di pagine viste. Ma quel mese aveva diffuso solo 622.000. Il direttore della stazione ha spiegato che quando, anni prima, i video erano diventati fruibili sul web, i dirigenti credevano che avrebbero avuto un vantaggio competitivo naturale. “Pensavamo che diffondere video fosse la chiave per diventare un sito web popolare – racconta il dirigente di una emittente di un’ area metropolitana -, ma solo il 10 % dei visitatori guarda i video”. E quindi, come risultato del basso utilizzo dei video, solo l’ 1% del totale delle entrate pubblicitarie provengono dal sito.

A metà strada fra la frustrazione delle stazioni tv e il successo di CNN.com c’è LIN Media, una compagnia che possiede 32 tv locali da Springfield ad Albuquerque. LIN ha alimentato un flusso di 116 milioni di video nel 2010 e ha costruito il suo business sulla condivisione di operazioni e costi fra più stazioni, su investimenti a lungo termine e sul marketing. E ha raggiunto un totale di 200 addetti nel settore digitale per una forza lavoro complessiva di 2000 persone (nel 2007 erano 9 su 2300 dipendenti).

I media cartacei stanno ancora costruendo esperienze e risorse video. Anche quelli i cui siti hanno avuto successo hanno dovuto affrontare tempi duri per conquistare un pubblico per i propri video. Michael Silberman, direttore generale del popolare sito del New York Magazine, racconta che nymag.com ha provato ad integrare video nei contenuti editoriali ma il ritmo dell’ operazione e l’ impegno in quella direzione continuavano a non funzionare per molti visitatori

Per nymag.com, comunque, meno del 10% di visitatori unici vanno ai video. All’Huffington Post, non più del 5% dei visitatori unici hanno cliccato su un video per gran parte del 2010.

Lewis DVorkin, di Forbes Media, è d’accordo sul fatto che lavorare “con i video sul web è dura. È molto stressante” afferma. Da quando fa parte di Forbes, nella primavera del 2010, DVorkin ha proposto nuovi modi di creare e diffondere contenuti. Ma i video lo hanno messo in difficoltà: “abbiamo una strategia video complessa, che è stata concepita sul modello broadcast, ed è quindi un prodotto altamente dispendioso, che coinvolge molte persone”.

E la resa economica è faticosa: al Miami Herald, per ricavare 4.000 dollari al mese devono far scaricare 200.000 video al mese (con un CPM di 20$ per 1000 visitatori).

Certo, Il sito del Wall Street Journal ha ottenuto traffico e ricavi significativi con la sua offerta video. Il sito conta circa 8 milioni di stream al mese, afferma Alan Murray, direttore esecutivo online per WSJ. E la resa pubblicitaria è buona – da 30 a 40 dollari per CPM. Ma al Dallas Morning News, Cynthia Carr, primo vicepresidente del settore vendite, dubita che i video possano portare ricavi significativi. “Non stiamo monetizzando i video. Non credo che porteranno grandi entrate”, afferma.

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Capitolo 4 – I nuovissimi media: mobile, video e altri dispositivi emergenti

(Introduzione e Capitolo 1 qui;
Capitolo 2 qui;
Capitolo 3
qui)

(La traduzione del Rapporto è a cura di: Valentina Barbieri, Elena Bau, Stefania Cavalletto, Claudia Dani e Andrea Fama).