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Un giornalismo di immersione per vivere l’ attualità dall’ interno

L’ immersive journalism utilizza le piattaforme per i giochi online e le ambientazioni virtuali, come Second Life, per dare nuova forma a notizie, documentari e vicende di attualità e permettere di ‘viverle’ dall’ interno – I prototipi realizzati sulle prigioni di Guantanamo, le torture negli interrogatori, il mercato del carbone

 

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Esplorare dall’ interno una delle prigioni di Guantanamo provando le stesse sensazioni di un detenuto incappucciato che vi è rinchiuso. Seguire attraverso il percorso dei soldi i meccanismi e le possibili conseguenze del mercato mondiale del carbone, come se se ne fosse uno dei protagonisti.  Entrare nel corpo virtuale di un detenuto sottoposto a torture da parte di strutture dell’ amministrazione americana.

E’ l’ “immersive journalism” (come tradurlo? giornalismo di immersione?), un nuovo genere di giornalismo, che utilizza le piattaforme per i giochi online e le ambientazioni virtuali per dare nuova forma a notizie, documentari e vicende di attualità vere, come spiegano alla Annenberg School of Communications and Journalism dell’ University of Southern California.

 

Su memeburn.com, Nonny de la Pena, una ricercatrice della Annenberg, spiega di ritenere che che la professione giornalistica non dovrebbe trascurare la possibilità di ottenere dei buoni risultati usando le piattaforme dei giochi online per raccontare delle storie.

L’ idea di fondo dell’ immersive journalism – precisa de la Pena – è di permettere ai lettori di immergersi effettivamente in uno scenario ricreato virtualmente che rappresenta la vicenda. I servizi possono essere realizzati o in mondi virtuali come Second Life oppure usando un sistema di tracciamento come l’ head-mounted display system (HMD), un caschetto con visore mono o bioculare, che crea la sensazione di possedere un corpo immerso in una esperienza virtuale.

L’ immersive journalism può essere realizzato anche attraverso il Cave (Cave Automatic Virtual Environment), un sistema che utilizza le tecnologie del gioco virtuale (full body-tracking technologies) in una piccola stanza virtual in modo che le persone possano muovere i propri corpi all’ interno di quello spazio.

Materiali video e audio catturati dal mondo fisico vengono utilizzati per rafforzare il concetto che i partecipasnti stanno ‘vivendo’ una storia reale. Per esempio, il video inizia nel punto chiave del paesaggio virtual per ricordare ai partecipanti che quell’ ambiente generato dal computer si basa su una storia di attualità vera. La ‘sceneggiatura’ degli eventi che crea una interazione in prima persona con il reportage può anche aiutare a dare la sensazione dell’ “essere lì”.

Sia che si visiti quello spazio come osservatori sia che lo si faccia come protagonisti della vicenda narrata, l’ immersive journalism punta ad offrire ai partecipanti un accesso senza precedenti alla vicenda e, possibilmente, le sensazioni e le emozioni che la accompagnano.

In collaborazione con il designer di digital media Peggy Weil – racconta De la Pena – ho realizzato diversi prototipi, alcuni dei quali riflettono i miei interessi per il problema dei diritti umani. Ad esempio Gone Gitmo, una prigione virtual di Guantanamo Bay realizzata su Second Life, permette ai partecipanti di esplorare uno spazio che altrimenti è inaccessibile a tutti gli americani e alla stampa (e recentemente il New York Times ha pubblicato un articolo sulla impossibilità di accedere alla prigione). Gone Gitmo offre un insieme di sensazioni che permette di sentirsi come un prigioniero, incappucciato e quindi rinchiuso nel Camp X-Ray. E ricostruisce anche le questioni connesse con la perdita del diritto all’ habeas corpus.

Un altro prototipo realizzato su Second Life,  Cap & Trade, è frutto di una inchiesta sul mercato del carbone che porta il partecipante a compiere un viaggio dietro al danaro che gli consentirà di capire meglio la complessità e le conseguenze umane dei meccanismi di quel mercato.

Cap & Trade è stato realizzato con il Centre for Investigative Reporting e Frontline World e si basa in gran parte all’ eccezionale lavoro in vestigativo compiuto da Mark Schapiro e apparso sulla copertina di Mother Jones ed Harpers Magazine.

Un terzo prototipo è basato sui verbali di interrogatorio del Detenuto 063, Mohammed Al Qahtani, indicato come vittima di torture da parte dell’ amministrazione Bush. Lo abbiamo realizzato presso l’ Event Lab a Barcellona, insieme a Mel Slater e alla sua squadra, usando un HMD per spingere i partecipanti nel corpo virtuale del detenuto mentre viene sottoposto alla cosiddetta “posizione di stress” (che provocano un disagio fisico associato all’affaticamento muscolare; vedi il Dossier da noi pubblicato nel gennaio scorso).

Quando i partecipanti si guardano attorno vedono uno specchio virtual con una figura digitale che somiglia a un detenuto e che si muove all’ unisono con i partecipanti e, attraverso un meccanismo digitale, respirano con lo stesso lor ritmo, in modo da rafforzare ulteriormente l’ aderenza col corpo virtuale. E per tutta la durata del brano, le parole e il rumore dell’ interrogatorio del detenuto risuonano come se venissero dalla stanza accanto. Abbiamo accertato che tutti i partecipanti hanno raccontato che durante l’ immersione il loro corpo si contorceva come se fosse in una stress position, pur stando invece seduti normalmente.

Quando l’ industria discografica si era rifiutata di valutare  quello che stave accadendo, e cioè che i loro utenti stavano interagendo con la musica, aveva sostanzialmente dato ad Apple il diritto di realizzare iTunes. Il risultato è stato un successo enorme e un ambiente economicamente robust, che offre una nuova maniera estremamente ricca di accedere alla musica attraverso l’ iPod. Non c’ è dujbbio: l’ immersive journalism è ancora nascente e speriamo che si possa imparare dagli errori dell’ industria musicale che sfortunatamente, a quanto sembra, i media starebbero per ripetere. Prendendo  iTunes come modello, dobbiamo concentrarci sull’ esperienza già vissuta.

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