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L’ iPad ridà potere agli editori, ma Jobs non è il ‘diavolo’

Gli editori hanno utilizzato l’ iPad come un’opportunità per cambiare l’intero paradigma della distribuzione degli ebook, passando dal “wholesale model” all’ “agency model”, che assicura loro ricavi più consistenti e le relazioni amichevoli di Jobs con Murdoch e le sue ultime prese di posizioni lo hanno messo al centro di una catena di attacchi – Certo, è sicuramente preoccupante che l’ uomo della mela dichiari di non volersi trovare in una nazione gestita esclusivamente da bloggers, oppure che possa profilarsi come un pericoloso censore – Ma, osserva Giulia Dezi in questo articolo, bisognerebbe lasciare a Jobs il compito che gli spetta: la responsabilità sui prodotti che produce, non sui contenuti da distribuire. E bisognerebbe pretendere dai veri garanti della libertà di stampa la capacità di trovare un sistema adatto alla situazione attuale
(illustrazione da attivissimo.blogspot)

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di Giulia Dezi

C’è gran rumorio nella rete su Steve Jobs. Le sue nuove relazioni amichevoli con Rupert Murdoch e le posizioni prese nei confronti della stampa e dei blog nella sua ultima apparizione pubblica non lasciano indifferenti nessuno.

Durante la conferenza annuale organizzata dal Wall Street Journal, la All things digital, l’amministratore delegato della Apple ha parlato di vari temi scottanti, che comunque, se vogliamo, possono tutti essere ricondotti all’ orbita del nuovo fenomeno Ipad. A quanto pare, però – come scrive Mike Shatzkin -, il famoso tablet si sta inserendo nel mondo non solo come innovazione tecnologica: sembrerebbe infatti destinato ad incidere più sul mercato dell’editoria che su quello della tecnologia di per sé. Non tutti forse sanno che, al di là delle qualità tecniche del dispositivo, la competizione tra l’ Ipad e il Kindle di Amazon ha sfociato su altre rive. E in America è stata una vera e propria inondazione.

Tutto iniziò, pochissimo tempo fa, con gli ebook.

Negli Stati Uniti fino a pochi mesi fa, appunto, l’intero sistema di distribuzione degli ebook era fondato sullo stesso modello utilizzato nel mondo non virtuale: “wholesale model”, cioè “all’ ingrosso”. Gli editori vendevano il libro ad un intermediario, che fosse un rivenditore come Amazon o Barnes & Noble (la catena di librerie più importante negli Stati Uniti) o un distributore come Ingram, alla metà del prezzo di vendita stampato in copertina. A quel punto poi, gli Amazon o gli Ingram del caso potevano scegliere di rivenderlo ai consumatori per qualsiasi cifra. Ovvero, se un libro costava di listino 28$, Amazon o chicchessia lo comprava per 14 $ e lo rivendeva poi a quanto voleva.
Il prezzo stipulato da Amazon era 9,99$ per l’appunto. Come? Meno della metà? Ebbene sì, ma Amazon essendo fino a poco tempo fa l’unico a coprire la nicchia degli ebook ha potuto sfruttare quello che era un modello basato sulla quantità: i consumatori compravano, e a quanto pare erano in così tanti a comprare, che tutto il sistema di vendita stava andando in frantumi.
Tra un titolo a 28$ in versione cartacea ed uno in versione digitale a 10$, voi quale avreste scelto? Ecco, la risposta è così semplice e scontata che Amazon nonostante il prezzo al ribasso aveva cominciato una escalation economica sempre più notevole. Comunque, non solo i rivenditori si sono innervositi: anche gli editori, preoccupati del fatto che i lettori iniziavano a svalutare il valore dei libri, hanno iniziato a scalpitare.
L’episodio più eclatante è stato quello in cui Macmillan, uno dei big six del mondo editoriale (Random House, Harper Collins, Hachette Book Group, Simon & Schuster, Penguin, and Macmillan sono le case editrici più importanti a livello internazionale), ha provato a trovare un accordo con Amazon e ha cercato di far capire al supermercato virtuale che il prezzo per i consumatori lo doveva decidere lui.
Risultato? Amazon ha tolto tutti i titoli di Macmillan dai propri scaffali, compresi quelli consegnati agli utenti. Un semplice messaggio sui Kindle già acquistati diceva: ci scusiamo ma questo libro non è più in catalogo. Un gioco di forza tra distributore e creatore di contenuti. Risolto però dalla competizione con un altro distributore.
Gli editori hanno infatti utilizzato l’ingresso della Apple nell’arena degli ereader come un’opportunità per cambiare l’intero paradigma della distribuzione degli ebook. Si è di fatto passati dal “wholesale model” ad uno chiamato “agency model”. Questo sistema alternativo si basa sull’idea che sono gli editori a vendere i testi direttamente al consumatore e, perciò, stabiliscono il prezzo a cui venderlo. Gli “agent” – tanto un rivenditore quanto un Apple store – prendono semplicemente una commissione dall’editore. Nel caso della mela mozzicata, appunto, il 30%. Considerando che fino ad adesso lo sconto è stato del 50% sul prezzo di copertina, gli editori sono già contenti di aver recuperato un 20% di margine.
E qui risbuca Rupert Murdoch: è stata proprio l’Harper Collins, che, ricordiamo, fa capo alla News Corp del magnate australiano, la prima a fare strada per il nuovo accordo con la Apple.
I prezzi degli ebook sono saliti fino a 14,99$ (e consiglio di leggere dal New York Times questi due articoli: E-Book Price Increase May Stir Readers’ Passions e Math of Publishing meets the E-book) ma, come scrive Shatzkin nel suo blog, se l’agency model funzionasse, porterebbe a tre innovazioni importanti per gli editori.
Le prime due, le più ovvie, è che gli editori otterrebbero un maggiore livello di controllo sia sul listino prezzi che sull’andamento e la suddivisione dei dollari guadagnati sulle vendite. La terza, la più scottante, è che potrebbero ottenere un vantaggio permanente sugli attori più piccoli per quanto riguarda i margini di entrata sugli ebook. A dirla tutta, questo processo era già stato avviato da Amazon sfruttando la sua influenza per ridurre gli introiti che i piccoli editori ottenevano dalle vendite sul Kindle. Ma l’agency model potrebbe in realtà istituzionalizzare il processo.
Come risultato ci troviamo davanti al fatto compiuto che Steve Jobs è riuscito in qualche modo a ridare potere agli editori. E sicuramente è preoccupante il fatto che lo stesso Steve Jobs, capo dell’azienda hitech più importante di oggi, dichiari di non volersi trovare in una nazione gestita esclusivamente da bloggers. Può inquietare il fatto che il più grande produttore di contenuti si allei in un futuro con il più grande produttore di distribuzione e se questo poi avvenisse può spaventare l’idea di un Steve Jobs censore, come si legge nel post di Paolo Attivissimo.

Mi sembra, però, che si stia perdendo di vista uno dei punti focali: Steve Jobs è l’imprenditore della start up più grande del mondo, come si autodefinisce lui, non un paladino della libertà di stampa. Lo scopo di Jobs, sempre come ha dichiarato più volte nella conferenza, è quello di creare il migliore prodotto possibile per i suoi consumatori. Sarà libero quindi di scegliere le regole della sua azienda? È corretto dare a lui le responsabilità dell’intero futuro editoriale?

Beh, io dico di no. Bisognerebbe lasciare a Jobs il compito che gli spetta: la responsabilità sui prodotti che produce, non sui contenuti da distribuire. E bisognerebbe pretendere dai veri garanti della libertà di stampa la capacità di trovare un sistema adatto alla situazione attuale.

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