Un virus razzista ancora all’ opera nei media Usa

In occasione della strage di Fort Hood i cronisti americani hanno messo da parte sangue freddo e mente lucida e hanno finito per descrivere le proprie paure lasciandosi sfuggire la complessità di quanto stava avvenendo: una strage incubata all’interno di un’istituzione totalizzante, come è già accaduto in passato in alcuni atenei d’America, da un cittadino statunitense con genitori palestinesi, ma nato e cresciuto ad Arlington, in Virginia- Le analisi di Alan Mutter (“se io fossi musulmano o arabo, sarei infuriato e impaurito da questo racconto giornalistico irresponsabile”) e Mark Ames, che analizza le tante montature costruite dai media sulla strage per avvalorare l’idea di un nuovo 11 settembre – Resiste un ‘’ethnic profiling’’ come quello usato in passato contro gli afro-americani

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di Matteo Bosco Bortolaso

New York – Un virus razzista ha colpito i media americani nel momento più delicato, quando si doveva raccontare il massacro nella base di Fort Hood, sul quale devono essere sciolti ancora molti nodi.

I fatti: un militare di origine palestinese, Nidal Malik Hasan, che faceva lo psichiatra all’interno dell’esercito americano, ammazza tredici commilitoni e ne ferisce una trentina. Quel che i media, a tutta prima, hanno raccontato: una serie di guerriglieri islamici si sono infiltrati in una base americana sparando all’impazzata, in un chiaro “atto di terrorismo”.

L’ accusa che viene mossa da diversi osservatori, fra cui in particolare Alan Mutter e Mark Ames, è che i giornalisti americani abbiano messo da parte sangue freddo e mente lucida e abbiano preferito descrivere le loro paure: un nuovo 11 settembre, un massacro voluto da Al Qaeda.

In effetti gli sviluppi – il massacratore era legato ad un imam che ha conosciuto alcuni uomini di Osama bin Laden – avrebbero potuto avvalorare la tesi della pista islamica, ma solo “a posteriori”, perché la strage in sé è nata tutta all’interno dell’esercito degli Stati Uniti e non da un gruppo di attentatori in stile 9/11. Quel che giornali e tv si sono fatti sfuggire nelle prime ore – anzi, nei primi giorni – di reporting è stata la complessità di quanto avveniva: una strage incubata all’interno di un’istituzione totalizzante, come è già accaduto in passato in alcuni atenei d’America, da un cittadino statunitense con genitori palestinesi, ma nato e cresciuto ad Arlington, in Virginia.

Mutter, un esperto di comunicazione, rileva che i canali all news hanno raccontato nei primi minuti che “almeno tre uomini armati islamici con addosso uniformi militari rubate si sono infiltrati nella più grande base militare dell’esercito ed hanno ucciso o ferito decine di pesone in un attacco terroristico coordinato”.

Il guru dei new media sostiene che i commentatori delle tv si sono subito sbilanciati verso la disinformazione perché hanno fatto affidamento alla “delegazione congressuale del Texas, mal informata, ed in particolare alla dichiarazione di un parlamentare secondo cui l’episodio era un atto di terrorismo”. Per di più, continua Mutter, “non ha certo aiutato che il portavoce ufficiale dell’esercito abbia impiegato diverse ore a dire ai media che lo sparatore solitario, che all’inizio sembrava fosse stato ucciso, era ancora vivo”.

Senza un’ informazione chiara e coerente, “il mormorio via cavo è stato diffuso per ore non solo su Twitter, ma anche da testate che dovrebbero essere rispettabili”. L’esperto di comunicazione, professore alla scuola di giornalismo dell’università di Berkeley, parla quindi di “ethnic profiling”, come quello usato in passato contro gli afro-americani: le origini palestinesi dell’omicida avvalorano la tesi del terrorismo islamico organizzato, proprio come avere la pelle scura equivaleva ad essere un criminale di periferia. Questa distorsione “ha infettato anche gli articoli del secondo e del terzo giorno, in giornali che avevano parecchio tempo per riflettere sui fatti del caso”.

Ci si chiede, continua Mutter, se il trattamento sarebbe stato lo stesso se l’omicidio fosse stato “un cristiano, bianco, di estrazione inglese, nato negli Stati Uniti”, perché “se io fossi musulmano o arabo, sarei infuriato e impaurito da questo racconto giornalistico irresponsabile”.

Sulla stessa linea anche Mark Ames, il quale mette in evidenza le tante montature costruite dai media sulla strage di Fort Hood per avvalorare l’idea di un nuovo 11 settembre. Si parte dal quotidiano britannico Daily Telegraph, che si concentra sul fatto che Hasan riceveva spesso visitatori “dall’aspetto arabo”. Persino la radio pubblica americana, la Npr, ha immediamtamente messo in evidenza che il futuro killer era un “fervente musulmano” che avrebbe incensato l’Islam in incontri e conferenze con altri colleghi dell’esercito. Ames fa le pulci anche a CBS, New York Times e CNN. I media avrebbero preferito ritoccare una foto in bianco e nero, per renderla simile a quelle dei sospetti del 9/11, piuttosto che usare uno dei tanti scatti a colori che erano disponibili.

La tesi diventa particolarmente convincente su un altro punto: le tv hanno trasmesso a loop continuo un filmato preso da una telecamera in un negozio di alimentari dove il futuro attentatore fa la spesa con addosso vestiti musulmani (e non la divisa militare che peraltro portava molto spesso). Sul pubblico televisivo, naturalmente, fa molta più presa un video del genere piuttosto che un’anonima foto di un militare presa dagli archivi militari. In questo modo, sottolinea Ames, si cancellano con un colpo di spugna i vent’anni passati da Hasan nell’esercito, cosa sulla quale ha indagato in profondità soltanto un giornale locale, il Victorville Daily Press, che si è preso la briga di telefonare al college frequentato diverso tempo fa dal futuro omicida.

Ames fa notare che Hasan faceva parte di una squadra che aveva preparato una serie di consigli sulla sicurezza per Barack Obama, quando quest’ultimo si preparava a diventare presidente: altro indizio che non si trattava certo di un attentatore islamico, bensì di una figura molto più combattuta e complessa.