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Visto che tante promesse del Web 2.0 si sono rivelate nient’ altro che dei miraggi, quanto tempo ancora si dovrà aspettare perché la bolla si sgonfi completamente?
Con la sua consueta dose di provocazione intellettuale, Narvic pone la questione su Novovision, aggiungendo che, alla fine, gli apostoli del WEB 2.0 si sono rivelati solo dei campioni del marketing, che hanno venduto i loro prodotti. Ma – osserva – oggi ci si può chiedere se questi prodotti valevano tanto, o anche solo qualcosa…
Secondo Narvic soprattutto due delle grandi promesse del Web 2.0 stanno crollando sotto i nostri occhi:
* l’ UGC (User generated content, i Contenuti generati dagli utenti), è una miniera d’ oro. Si può costruire un’ intera industria su questa materia prima gratuita, fregandosene dei contenuti a pagamento forniti dai professionisti.
* l’ era della partecipazione generalizzata e aperta. Le nuove relazioni sociali sono orizzontali e condivise. Lasciamo esprimersi e organizzarsi liberamente le folle che non chiedono altro che questo: il Web 2.0 alla fine dà corpo all’ aspirazione messianica alla democrazia diretta e partecipativa.
E invece l’ UGC si rivela di scarissima qualità e si “vende” molto male. La partecipazione aperta a tutti alla fine non interessa che una infima parte degli internauti.
I rimproveri fatti al Web 2.0 si erano concentrati, in questi ultimi mesi, sul business model di alcuni grandi siti, più o meno sociali, che non esitavano a sfruttare gratuitamente dei contenuti professionali soggetti al diritto d’ autore (diffusione di musica, ripresa di filmati tv, aggregazione di contenuti dei giornali, ecc.).
Non sono stato l’ ultimo a denunciare un modo di fare che metteva a rischio l’ economia della produzione dei contenuti professionali. Basta vedere la mia produzione online su questi temi: « En ligne, l’info ne paie pas » (1), (2) e (3) e « La mort de la poule aux oeufs d’or » (1), (2) e (3), la nota di lettura del libro di Andrew Keen, « Le culte de l’amateur. Comment internet détruit notre culture » (vedi anche Lsdi, Il lato oscuro della rivoluzione del ctizen journalism ) , o ancora il mio post « Comment internet disloque les industries de la culture et des médias »…
Gli inganni dell’ UGC
Ma, la promessa del Web 2.0 non era tanto di togliere di mezzo i professionisti rubando la loro produzione (cosa che comunque esso fa lo stesso, ma si tratta di semplici vittime « collaterali »…), quanto di fregarsene di loro alimentandosi ad altre fonti.
Si è puntato parecchio sui Contenuti prodotti dagli utenti, e ora il nodo è venuto al pettine.
Un contenuto di debole qualità
Per un solo contenuto originale e interessante, eventualmente ripreso dai grandi media (qualche foto degli attentati di Londra, dei video dello tsunami del sud est asiatico girati da qualche turista…) , quanti milioni di foto di gatti e di video di marmotte, pubblicati sulle piattaforme di condivisione di foto o video, oppure quanti brani “trapiantati” in massa sulle televisioni senza autorizzazione?
Se ne parlava già qui: « Le grand marais de la vidéo en ligne »
Per un solo articolo che fornisce una informazione, una testimonianza, una analisi interessante sui siti di citizen journalism e su milioni di blog, il tutto aggregato e ridiffuso sulle piattaforme 2.0, quante chiacchiere, quanto egotismo e quanti aneddoti senza interesse, quanti contenuti identici ripresi dalle stesse fonti (spesso professionali!) e ripetuti, deformati all’ infinito senza un qualsiasi apporto costruttivo?
Lo si era già detto qui: « Journalisme amateur : quel bilan ?>>
E i commenti? Quale segmento di dibattito reale, di apporto di informazione, di opportuna rettifica, in questo flusso continuo di commenti che si riversano dovunque e si riassumono molto spesso in una semplice affermazione di se stessi, quando non sfocia addirittura in una diarrea di invettive e di eruttazioni, o in un vero e proprio linciaggio?
Solo due esempi, qui:
Un contenuto che non dà niente
L’ inganno più profondo che colpisce oggi i partigiani di questo Web 2.0 dell’ UGC, è soprattutto il fattio che esso non produce affatto quello che era stato previsto. La formula magica era nient’ altro che una illusione e rimette in crisi il modello economico stesso sul quale l’ affare era stato costruito.
Nel campo dei video, Didier Durand, su Média&Tech osserva il fenomeno attentamente, e cominciano a venir fuori in questi ultimi tempi delle conclusioni interessanti:
Numerama ci informa che: « secondo uno studio del Diffusion Group, i video personali o realizzati dagli internauti dovrebbero rappresentare quest’ anno il 42 % dei video scaricati su internet, ma enerare soltanto il 4 % degli introiti. Al contrario, il 58 % rimanente saranno dei v ideo “professionali” e dovrebbero generale il 96% dei ricavi.
Bisogna risolvere il puzzle e trovare le chiavi della monetizzazione: i costi massicci delle infrastrutture (il 50% di Internet nel 2012) non potranno essere retti a lungo senza ricavi adeguati.
Mentre i produttori di contenuti video professionali cominciano a rialzare la testa e accentuano la pressione su questi siti di condivisione dei video che “sfruttano” i loro contenuti senza alcun compenso…
Leggere anche :
Il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo interessante sulle performances di Youtube : Paidcontent, che l’ ha analizzato, spiega che il management di Google è sconcertato dal fatto che per quest’ anno si prevedono ricavi per 200 milioni (cioè circa l’ 1% del reddito globale di Google previsto per il 2008) per una società acquisita per 1,6 miliardi di dollari.
Se si calcola che saranno 300 miliardi i video visti quest’ anno su YouTube, si tratta do 0,1 centesimo a video, e cioè un dollaro ogni mille video. Troppo debole se si considerano i costi della diffusione e il valore pubblicitario di questo mezzo:
« Youtube : monétisation pour 3% des 4 milliards de vidéos du site » :
Alley Insider fornisce la cifra che spiega l’ attuale disillusione di Google per la sua filiale Youtube: Brian Cusack, il direttore delle vendite, ha spiegato in occasione di una conferenza che Youtube poteva attualmente vendere pubblicità per non più del 3% dei video caricati. E ha citato un tale di 4 miliardi di video presenti sul sito.
La questione è sicuramente meno cruciale per altri tipi di contenuti, come quelli testuali, che non richiedono investimenti infrastrutturali pesanti come i video… Ma si pone lo stesso:
Alexandre Camden (Les bonnes fréquentations) : « La publicité sur Facebook : des résultats non convaincants ».
Il miraggio della partecipazione
Il secondo grosso buco scavato nella bolla del Web 2.0, è quello del miraggio della partecipazione, ce avrebbe dovuto avviare niente di meno che una nuova era della democrazia!
Anche qui il bilancio non è al’ altezza delle speranze.
Una minoranza attiva in un mare di « lurkers »
Un po’ se ne dubitava già, ma le recenti cifre pubblicate da Rue89 sulla partecipazione dei lettori nei commenti (vedi anche Lsdi, Il giornalismo partecipativo è solo un mito? ) è edificante ( « La participation en ligne ? 0,075% des lecteurs ! »).
La possibilità di partecipare al dibattito offerta dai siti d’ informazione, come Rue89 – apertura di un blog e commenti ai contenuti diffusi -, viene utilizzata da meno dell’ 1% dei lettori e, in maniera attiva, solo dallo 0,1% di essi.
Tutti gli altri restano dei « lurkers », dei bighelloni, dei passanti o dei voyeurs, che non affrontano affatto questa « sfida della partecipazione ».
Questo Web 2.0 della partecipazione somiglia alla fine molto di più a quello che descrive Szarah (SEO berSZerkers) : « il Web è, per il momento e non sorprendentemente, a immagine del resto del mondo, costruito dagli attivi per i fannulloni. »
Il web cooperativo, bisogna volerlo
Hubert Guillaud e Daniel Kaplan, su InternetActu avevano cercato di teorizzare tutto questo con molto acume il mese scorso: « Vouloir un web coopératif »
« Si sbaglierebbe quindi nel pensare che un web massicciamente relazionale annunci un mondo massicciamente cooperativo. Perché non è questo il problema principale degli utenti. E perché questo non è affatto il problema degli operatori del delle piattaforme del web 2.0. »
(…) L’ esplosione dei “contenuti generati dagli utenti” proviene più da una sete di relazione che da una esigenza di partecipazione, nel senso d un intervento nelle decisioni e nei processi collettivi. Nel 2006 Time ci assegnava indubbiamente delle intenzioni, e quindi delle capacità, che non erano le nostre.
Cosa che mi aveva indotto a fare questo commento :
Questa partecipazione, bisogna dunque costruirla. Non verrà da sola attraverso la magia della tecnologia 2.0: non c’ è generazione spontanea di democrazione online. Nessuna « sorpresa divina »…