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Giornalisti, conviene coltivare anche una identità digitale


In un universo sempre più digitalizzato, i giornalisti disputano ancora se e dove possono sviluppare una loro presenza online – In una interessante riflessione di Mallary Jean Tenore su Poynter, modi e motivi per cui i giornalisti dovrebbero formarsi questa nuova identità – A causa della frammentazione dei media, ad esempio, un giornalista può aver ‘’bisogno di costruire un proprio ‘marchio’ personale’’ – O, più in generale, può essere importante infiltrare volti umani in strutture redazionali diventate sempre di più ‘’pesantemente monolitiche’’

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di Mallary Jean Tenore

Del.icio.us, Twitter, Linked In, Go Daddy, Flickr, Pownce. Se qualcuno menziona questi siti a voce alta potrebbe essere scambiato per uno straniero. Ma per la comunità dei social media -, ad esempio gli smanettoni che ‘’twittano (cinguettano, ndr) su Twitter’’-, questi nomi e questi siti sono semplicemente una parte del loro gergo e della loro identità nel mondo online.

Una identità digitale è la tua presenza sul Web – i siti e gli account che registri per frequentarli e per crearli e che aiutano a determinare chi sei e che cosa fai online. Per avere un senso più preciso della tua identità digitale, avvia una ricerca su Google col tuo nome. Guarda quante citazioni compaiono. Molti dei link che risultano dalla ricerca possono condurre alle redazioni o alle testate per cui lavori, ma altre possono portare a pagine che tu non hai mai visto prima, scritte da gente che tu non conosci. Queste persone – spesso blogger – non ti hanno rubato la tua identità online, ma stanno contribuendo a darle forma.

Per i giornalisti, che sono abituati a condividere le storie degli altri, creare e formare una identità digitale può sembrare rischioso o deviante.


JD Lasica

Qualche cronista sostiene che meno informazioni su di lui ci sono online, meglio è. Ma altri, come ad esempio JD Lasica, analista di strategie mediatiche e co-fondatore di Outmedia.org, sostengono che sviluppare una identità digitale offre la possibilità di raggiungere il pubblico in nuovi modi, in maniera interattiva.

“I centri di produzione giornalistica hanno per troppo tempo praticato il giornalismo come un’ arte oscura, e così il pubblico si muove nei confronti dei giornalisti e delle loro intenzioni con un certo grado di sospetto’’, dice Lasica. “Certo, se io scegliessi una trasparenza maggiore, tu potresti facilmente trovare online il mio indirizzo e sapere che ho un bambino di 8 anni, ma, appunto, ora stiamo proprio vivendo nell’ era di Internet. Quando vado in giro e scatto qualche foto il mio istinto è di tornare a casa e di scaricarle su Flickr. Condividere media e informazioni online ora è una routine. I giovani si aspettano proprio che un certo numero di informazioni personali sulle loro vite finiscano online”.


L’ avatar di Jeff Elder, 44 anni, editorialista al harlotte (N.C.) Observer

Una identità digitale, dice Lasica, è qualcosa di più dei profili che riempi nei siti di social networking: è tutto quello che tu fai online. Così, può essere semplice coltivare una identità digitale ma molto più difficile controllarla.

Per rendersi conto di cosa venga detto su di loro online, molti giornalisti stanno scegliendo di impegnarsi attivamente nello sviluppo della loro presenza online. Sul suo blog, Lasica elenca più di una dozzina di social networks di cui fa parte come una strada per incoraggiare i lettori a conversare con lui su qualcuno di quei siti – anche se la “conversazione” dovesse essere solo qualche commento lasciato online. Lasica in particolare fa parte di network come Flickr, SpinXpress, LinkedIn, Digg, Facebook, Ourmedia, MySpace oppure Second Life e Facebook.

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Siti interessanti da considerare

La discussione su Facebook a proposito di giornalisti e indentità digitali

“Elementi di un Personal Brand,” di Chris Brogan

“Managing Your Digital Professional Identity,” di Laura Fries (giornalista e blogger)

“Is Facebook safe for journalists?” Da “Ask the Recruiter” di Joe Grimm

Coinvolto, ma non senza limiti


J. Gibbson

James Gibbons, caporedattore della sezione opinioni all’ Houston Chronicle, dice di non aver assolutamente il tempo, o la voglia, di svuluppare la sua identità digitale. Qalche anno fa Gibbons scrisse un articolo sulla sua avversione per il blogging. Molti blogger lo criticarono per i suoi punti di vista, ma Gibbons spiegò che non riteneva che la sua identità digitale venisse intaccata da queste critiche.

“Sono felice di dare e fare” disse. “Sono molto più concentrato sul prodotto a stampa. Tra far uscire un giornale tutti i giorni e migliorare il nostro sito web ho già una giornata bella piena. Non ho ancora capito l’ utilità o i benefici che possono venire dal blogging o da tutta quest’ altra roba digitale”.


Il profilo di Howard Finberg, 58 anni, direttore della sezione Interactive Learning a Poynter.org

Recentemente Gibbons è entrato a Facebook dopo aver ricevuto un invito dap arte di un amico, ma dice che non vuol aderire a nessun altro social network. Facebook è stato meno rigido a proposito delle questioni della privacy negli anni recenti, e il mese scorso ha annunciato un piano per consentire ai non iscritti di cercare le pagine dei profili dei propri membri. Gli utenti di Facebook che vogliono restare non raggiungibili, possono specificarlo nella parte privacy dei loro account.

Per aggiornarsi su dove il loro nome compare online, qualche giornalista sottoscrive i Google alerts a proprio nome, cos’, ogni volta che quel nome compare su qualche sito web, riceverà una mail di notifica con il link al sito su cui esso è comparso.


Jennifer B. Lee

“E’ sempre un brutto segnale quando non avendo scritto niente nei giorni precedenti ricevo un avviso di Google’’, racconta Jennifer 8. Lee, una cronista cittadina al New York Times. “Significa che sei stato menzionato da qualcun altro, e questo può essere anche spiacevole”.

Sebbene abbia scritto tantissimi articoli per il Times, la prima citazione che appare se fai una ricerca su Google col nome Lee, non è uno dei suoi ‘’pezzi’’, ma un link alla sua pagina su Wikipedia, che non è stato certo lei a creare. “Jennifer 8. Lee” per i suoi amici, occasionalmente pubblica foto dei titoli dei suoi articoli, spesso viene definite semplicemente “Jenny Lee,” un nome che scompare nelle paludi delk Web. E su Facebook, è semplicemente “Jennifer Lee”, una delle centinaia se non delle migliaia con quel nome.


L’ avatar di Jon Healey

Il selvaggio, universale Web apre le sue porte a una molteplicità di identità, alcune autentiche, altre costruite a tavolino. Con pochi click, per esempio, la gente può creare dei propri avatars, dei personaggi online, sul mondo virtuale a 3 dimensioni Second Life. Possono creare la propria identità e il proprio fisico, cambiando i propri capelli da scuri a biondi, facendo diventare caramellata la propria pelle bianca e trasformando la forma del proprio corpo da pera a bastoncino. Come giornalisti e amanti della trasparenza e della verità, creare queste persone può sembrare antitetico a quello che facciamo. Potrebbe avere un senso, allora, se, sviluppando la nostra identità digitale noi valorizziamo proprio i valori della verità e ci identifichiamo attraverso dei tratti che riflettono fedelmente chi noi siamo.

Lee segue un semplice motto quando sviluppa la sua identità digitale scrivendo sul suo blog: Non scrivere niente che tu non ritieni soddisfacente avere fra i sottotitoli. E sostiene che ogni informazione che rende disponibile online non è solo una riflessione personale, ma del Times. Lee è anche molto attenta quando pubblica sue foto sul profilo suo o di altri su Facebook. Foto e relative didascalie possono portare ad associazioni non vere, che Lee dice di non voler contribuire a creare.


Julie Mason

Come i giornalisti della Tv, facilmente riconoscibili dai propri spettatori, qualche giornalista della carta stampata non è ancora abituato ad estendere la propria attività oltre il proprio lavoro redazionale. Pubblicando online sue fotografie – anche testine – come fa ad esempio Julie Mason, corrispondente dalla Casa Bianca per l’ Houston Chronicle, è guardinga. “Produce un interesse troppo elevato, nel bene e nel male. Facendo da molto tempo la cronista, mi sono abituata al fatto che la gente non conosca chi sono e come appaia’’, ha aggiunto. “Ti procura un sacco di commenti il tuo look e non puoi controllare quello che c’ è fuori su di te. E’ veramente fastidioso’’.

La transizione ai blog è stata difficile per Mason, che ha cominciato a fare blogging a tempo pieno per il Chronicle nel gennaio 2007, oltre a scrivere un articolo settimanale e qualce servizio occasionale per l’ edizione stampata del giornale. Giornalista da 18 anni, Mason racconta che si era abituata ad essere riconosciuta dai titoli in pagina, ma ora viene conosciuta anche per il suo blog “Beltway Confidential,” e per la foto che lo accompagna. Sviluppare una identità digitale tramite un blog, dice Mason, può essere una sfida, in particolare per donne giornaliste.

“Una donna schietta può a volte attirare una mutevole dose di attenzione. La mia esperienza è che una donna schietta può essere minacciata sui blog col favour della aninimità di internet’’, dice Mason, riferendosi alla quantità di gente che pubblica commenti senza rivelare la propria identità. ‘’Come giornalista che si è sempre sentita protetta da un certo grado di anonimità, diventare un prodotto di internet può intimorire. Le redazioni devono comunque riflettere sui modi con cui i propri giornalisti possano diventare più visibili e riconoscibili’’.

Guardando al futuro

Il cameraman della NBC Jim Long pubblica sue foto e suoi video online qualche volta alla settimana sul suo blog, Verge New Media. Sviluppare la propria identità digitale, dice Long, non è solo un hobby, ma è un passo necessario per assicurarsi il proprio futuro nel campo del giornalismo.

“A causa della frammentazione dei media, io ho bisogno di costruire il mio marchio personale. Non so quanto durerà il sindacato dei cameramen dell’ informazione’’, aggiunge Long.

Nel mondo del blogging , un “brand” – che è spesso visualizzato come una sintesi o uno slogan – è una breve descrizione professionale di quello che sei o il messaggio che vorresti che il tuo blog trasmettesse. Lo slogan – la tagline – di Long è ‘’L’ intersezione di vecchi e nuovi media’’. Ora, aggiunge, quando qualcuno visita il blog, può identificarlo attraverso questo titolo, oppure tramite il suo soprannome sugli altri siti, come Twitter and Flickr, di cui ha i link sul suo blog.


L’ avatar di Bruce Owen

Qualche giornalista compra anche un dominio web a suo nome per avere un maggiore controllo sulla sua identità digitale. Per esempio, io ho comprato , anche per prevenire che qualcun altro potesse creare un sito web a mio nome e pubblicasse informazioni falsificate sul mio conto su quel sito.

Insieme a questo blog, gestito per circa sei mesi, Long ha anche una pagina Twitter , che in media aggiorna diverse volte all’ ora, scrivendo dei post o rspondendo ai post di altri sul network Twitter e inserendo dei link su Utterz audio bites.

Long dice che non esita a ingaggiare una conversazione online, specialmnente se qualcuno ha interpretato male quello che lui dice. Sono tutte parti della costruzione della sua identità online, che non lascia a dormire sotto il controllo di altri.


L’ avatar di JimWilkes

“La storia non finisce con la pubblicazione di un post sul blog. Io penso che sia importante esserci e incoraggiare la conversazione. Farsi coinvolgere nei discorsi e lasciare che le persone sappiano che quello che stanno dicendo ti interessa’’, aggiunge Long. ‘’Puoi non essere d’ accordo con loro, ma per loro il discorso è importante e tu devi saperlo’’.

Nel punto di vista di Long, più un giornalista riesce a impegnarsi in questo discorso e a sviluppare la propria identità digitale, meglio sarà per loro stessi e le loro redazioni. ‘’Complessivamente, io penso che in questo universo di media frammentati, è obbligatorio per le redazioni dei grandi media – quelli di primi piano in particolare – studiare come impegnare i lettori o gli spettatori in un livello più cosciente di utilizzo dei social media’’, dice Long. ‘’Abbiamo bisogno di infiltrare dei volti umani all’ interno di strutture redazionali pesantemente monolitiche’’**.

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