IL NYT FA’ ANCORA AMMENDA E NOMINA UN NUOVO PUBLIC EDITOR


E’ Clark Hoyt, ex Knight Ridder, tra i pochi a mettere in discussione la tesi delle armi di distruzione di massa in Iraq – E’ il terzo ombudsman del giornale – In passato ha espresso preoccupazione sul futuro dell’industria delle notizie, spiegando che le debolezze finanziarie, l’atmosfera partigiana e i comportamenti accomodanti con funzionari del governo mettono in serio rischio l’integrità e il coraggio che dovrebbero accompagnare ogni giornalista

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di Matteo Bosco Bortolaso

New York – Continua il mea culpa del New York Times per aver dato credito all’amministrazione Bush sulle armi di distruzione di massa. In diverse occasioni il giornale della Grande Mela ha pubblicamente ammesso di non aver vagliato con attenzione le tesi sostenute dagli uomini del presidente George W. Bush sui presunti arsenali iracheni. Informazioni che, anche se rivelatesi successivamente infondate, hanno portato l’opinione pubblica ad avallare la decisione della Casa Bianca di mandare i soldati statunitensi nel teatro mediorientale.

L’ultima mossa per scusarsi con i lettori è la nomina di un nuovo “public editor”, il mediatore tra chi scrive e chi legge il giornale. Dal 14 maggio scorso, a ricoprire l’incarico è Clark Hoyt, giornalista che era ai vertici della catena di quotidiani Knight Ridder, tra i pochi a mettere in discussione la tesi delle armi di distruzione di massa in Iraq.

Hoyt ricorda che tra il 2002 e il 2003 ha dovuto affrontare molte critiche “da lettori arrabbiati che pensavano che noi non fossimo abbastanza patriottici o da funzionari del governo che sostenevano che ciò che facevamo era sbagliato”. I quotidiani non si erano uniti al coro che dava ragione all’amministrazione di Bush Jr., che sosteneva che l’Iraq minacciava la comunità internazionale perché il regime di Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa. Una tesi che si è sregotalata alla prova dei fatti, ma che ha dato il via libera ad un’operazione militare che assume sempre più gli angoscianti tratti della guerra in Vietnam.

Nel commentare la nomina del nuovo public editor, il direttore del New York Times Bil Keller ha spiegato che “la Knight Ridder ha dato un contributo molto prezioso e non semplice da realizzare”, anche perché “è sempre difficile andare contro il sentire comune”. Questo “esercizio di giornalismo aggressivo e coraggioso mostra quella dose di autorevolezza che aiuta a cominciare un lavoro del genere” continua Keller, che aveva inzialmente considerato di chiamare come public editor un giornalista del Times, possibilmente che venisse dal settore online.

Alla fine però la scelta è caduto su un esterno con una forte caratterizzazione politica. Il New York Times nomina così il suo terzo public editor, un giornalista che prende le difese dei lettori e può avviare indagini interne alla redazione. Spesso la carica viene indicata anche con la parola “ombudsman”, che solitamente indica un funzionario nominato da un governo per investigare e scrivere relazioni sulle lamentele dei cittadini contro le autorità pubbliche.

Qual è il piano editoriale del nuovo ombudsman del New York Times? L’interessato non si sbilancia e dice che “gli argomenti saranno decisi in base agli interessi e alle lamentele dei lettori”, ma in passato ha espresso preoccupazione sul futuro dell’industria delle notizie, spiegando che le debolezze finanziarie, l’atmosfera partigiana e i comportamenti accomodanti con funzionari del governo mettono in serio rischio l’integrità e il coraggio che dovrebbero accompagnare ogni giornalista. Mentre era alla Knight Ridder, Hoyt ha condotto una battagia affinché i reporter potessero entrare più facilmente nelle unità militari di combattimento, per raccontare meglio le guerre, e ha chiesto più volte una revisione del Freedom of Information Act (Foia).

Il primo ombudsman degli Stati Uniti venne nominato a Louisville: Norman Isaacs, editore del The Courier Journal chiamò John Herchenroeder, ex redattore di cronaca cittadina che rispondeva alle lamentele dei lettori e codificava le procedure interne della redazione. Scrisse anche articoli occasionali criticando o spiegando le azioni del giornale.

L’idea fu copiata, ma non diffusamente. Dopo aver toccato il record di trentacinque ombudsman negli anni Ottanta, il numero è poi diminuito stabilizzandosi attorno a trenta. Il Washington Post fu tra i primi a crearlo. Inizialmente il concorrente di New York non fece altrettanto, ma fu costretto a nominare il primo public editor, Daniel Okrent, dopo lo scandalo di Jayson Blair, giornalista che aveva scritto articoli completamente inventati o con dettagli non rispondenti al vero. E’ stato appurato che Blair ha falsificato almeno 36 storie diventate poi articoli della prestigiosa testata.

Un articolo fondamentale scritto dal predecessore di Hoyt si intitola proprio Weapons of Mass Destruction? Or Mass Distraction? (apparso il 30 maggio 2004), in cui si discute, appunto, delle famigerate armi di distruzione di massa che hanno spinto l’America all’intervento contro Saddam ma che non sono mai state trovate.

Parallelamente all’intervento di Okrent, il Times, qualche giorno prima, aveva pubblicato il primo mea culpa ufficiale: una lista degli articoli “incriminati” sulle armi di distruzione di massa (la lista è consultabile su http://nytimes.com/critique). Okrent, dopo aver esaminato gli articoli apparsi sul quotidiano, non esita a bacchettare redattori e reporter. Si parla di “ansia dello scoop”: “C’era un tempo non molto lontano in cui si diceva  ‘Don’t get it first, get it right’ (Non predere la notizia per primo, ma prendila giusta). Adesso si dice ‘Get it first and get it right’ (Prendila per primo e prendila giusta)”.

Il public editor aveva denunciato inoltre la “sindrome da prima pagina”: “Ci sono poche cose più malviste in newsroom della storia ‘da un lato è così, dall’altro invece’, con il suo equilibro squisitamente delicato e spesso soporifero. Ci sono poche cose desiderate più della prima pagina. Puoi scrivere in prima se abbellisci la tua storia con il suono delle trombe.” Okrent discuteva poi delle fonti anonime: “Non c’è niente di più tossico, per un giornalismo responsabile, di una fonte anonima. Spesso, però, non c’è nulla di più necessario: storie cruciali potrebbero non vedere mai la pubblicazione, se dovessero avere un nome accanto ad ogni informazione”.

Anche il “difensore dei lettori” del Washingont Post, Geneva Overholser, era intervenuta spesso sulle presunti armi del regime di Saddam Hussein. La Overholser aveva detto che prima della guerra il giornale della capitale ha svolto “avidamente” il ruolo di “portavoce dell’amministrazione”, dimenticando che lo scetticismo è “responsabilità patriottica dei giornalisti”.

Un altro importante intervento del predecessore di Hoyt è apparso sull’inserto domenicale Week in Review il 24 luglio 2004 con il titolo Is The New York Times a Liberal Newspaper? (“Il New York Times è un giornale liberale?”). “Of course it is” (“Naturalmente lo è”) sono le parole con cui esordisce Okrent, che espone una meticolosa disamina di tutti quei contenuti che hanno offeso determinate categorie di persone: dai titoli sui matrimoni delle coppie di omosessuali alle foto “dominatrix chic” delle ultime sfilate di moda, dalle pagine degli editoriali a quelle di Science Times, che non ospiterebbe mai un creazionista antidarwiniano. Una “passeggiata” attraverso il quotidiano che l’ombudsman utilizzava per riflettere sull’orientamento della testata. Secondo Okrent, il modo migliore per rapportarsi con i propri lettori è dichiarare la propria posizione, senza infingimenti. Dopo Okrent è seguito Byron Calame. E ora è il turno di Hoyt, che probabilmente manterrà e rafforzerà la linea di chi lo ha preceduto.

In Italia, la figura del public editor non ha avuto successo. Nel 1986 Vittorio Emiliani, direttore del Messaggero, nominò come “difensore civico” Giuseppe Branca, ex presidente della Corte Costituzionale e collaboratore del giornale romano. Questa esperienza terminò dopo un anno. Repubblica, invece, per un certo periodo ha fatto ricoprire il ruolo di “garante dei lettori” a Piero Ottone, già direttore del Corriere della Sera e attualmente nel consiglio di amministrazione del giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ma gli interventi di Ottone, dopo qualche tempo, sono spariti dalle pagine del quotidiano.

Hoyt ha 64 anni e si è laureato alla Columbia University di New York. Ha lavorato come reporter a The Ledger a Lakeland, in Florida, quindi a due giornali della catena Knight Ridder, The Detroit Free Press e The Miami Herald. È sposato con Linda Kauss, vice direttore di Usa Today. Nel 1974 ha vinto il premio Pulitzer per aver portato alla luce i problemi mentali del senatore Thomas Eagleton, candidato alla vicepresidenza degli Usa per il partito democratico che aveva subito una terapia basata sull’elettroshock. Hoyt ha avuto cariche di rilievo a The Free Press e a The Wichita Eagle-Beacon ed è stato agli uffici della Knight Ridder di Washington dal 1999 fino a quando l’azienda è stata venduta, l’anno scorso, alla McClatchy, società di cui era diventato consulente. Prima di questo incarico è stato responsabile dell’ufficio della capitale e vice presidente della divisione news dell’azienda, con la responsabilità, in sostanza, di decidere i direttori di quotidiani come Miami Hearld, The Philadelphia Inquirer, The San José Mercury-News, e The Detroit Free Press.

L’azienda gli aveva poi dato diverse deleghe: controllare l’ufficio della capitale e tutti quelli all’estero, oltre che il flusso di notizie che la catena gestisce assieme all’azienda editoriale Tribune. “Quando tutti fanno zig, lui pensa allo zag” commenta James Naughton, amico di Hoyt e presidente emerito del gruppo di ricerca Poynter Institute.