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Usa: confronto acceso tra Web 2.0 e media tradizionali

«È più facile per i lettori trasformarsi in reporter che per i reporter diventare lettori». Così si esprime Dave Winer, tra i pionieri di quel che molti definiscono il Web 2.0, ampliando la battuta (poi divenuta famosa) con cui a fine 2004 Dan Gillmor rilanciava con forza l’open source journalism: «I miei lettori ne sanno più di me». Lo spunto torna utile per intervenire sulla partecipazione pubblica nell’informazione odierna e sul valore dei blog rispetto ai media tradizionali — un dibattito mai sopito, che nei giorni scorsi si è riacceso con vigore nella blogosfera a stelle e strisce.
Stavolta Winer parte dall’intricata attualità Usa per sottolineare come la scelta dei Big Media di focalizzare l’attenzione sulla notizia meno importante a livello politico, l’affaire Foley, stia a indicare per l’ennesima volta la scarsa considerazione dei lettori/spettatori, presumibilmente incapaci di seguire faccende ben più complesse come i dettagli degli scandali di Tom Delay o le implicazioni interne della guerra in Iraq. Il punto, chiarisce Winer, è se dovremmo preoccuparci o meno del fatto che «CNN o MSNBC o LA Times o NY Times siano nei guai, visto che l’unica notizia di cui si occupano è ‘chi sapeva cosa quando’». Va da sé che l’invito è a lasciarli perdere e guardare avanti, al futuro prossimo, quando, invece di poche fonti a dirci quale sono le news a cui prestare attenzione, «ce ne saranno migliaia, se non decine di migliaia».

Sarà davvero così? Nient’affatto, replicano i reporter più tradizionali. Già il titolo di un’editoriale di ZDNet, Journalism 2.0: News or chatter?, suggerisce che nel mondo online si fanno solo pettegolezzi, ribadendo piuttosto l’essenzialità dei principi della “vecchia scuola” del giornalismo”. Analogamente l’influente giornalista Haydn Shaughnessy si chiede: «I lettori sanno davvero scrivere? Alcuni sì, ma sappiamo bene che la partecipazione è comunque scarsa». Aggiungendo che, nonostante tutto, «i capo-redattori sono figure importanti». Ci va giù ancora più pesante il tecnologo inglese Conor O’Neill: «La blogosfera ha ancora molto da imparare per quanto concerne profondità d’analisi… Parecchi blog del web 2.0 sono degenerati in fan-magazine. Se ci fosse un redattore a dar loro un bel calcio nel sedere, farebbe un mondo di bene ai stessi pro-blogger».

Mentre altri commentatori tentano la strada della ragionevolezza («blogger e giornalisti hanno bisogno gli uni delgi altri»), Donna Bogatin chiude l’editoriale su ZDNet mettendo alla gogna vari nomi noti: «comunitari radicali come Craig Newmark (di Craigslist.com), comunisti della proprietà intellettuale quali il professore di legge a Stanford Larry Lessig, amanti della cornucopia economica tipo l’editor della rivista Wired Chris “Long Tail” Anderson, e mogul dei new media come Tim O’Reilly e John Batelle».

Parole poco tenere, a cui replica seppur indirettamente Jay Rosen nel pre-lancio di NewAssignment.Net, insistendo sui «costi irrisori di radunare gente con le stesse idee» e quindi sulla facilità di creare e gestire, tra le molte iniziative, un database nazionale d’informazione a cui i gruppi non-profit possano attingere per diffondere adeguatamente le proprie posizioni». Altrettanto diversificate le ulteriori annotazioni di Winer, intervenendo sul modo in cui riportano le notizie i professionisti dell’informazione: «Internet è il Grande Disintermediatore. Dovunque si vada, sta eliminando il middle man, l’intermediario… Posso andare direttamente sui blog di gente importante che i reporter sono soliti chiamare, per capire come la pensano e così ne ricavo ben più che la solita battuta sensazionale, partecipo a una discussione dettagliata, ragionata, motivata. In tal modo posso capire meglio cosa succede».

Il confronto — pardon, la conversazione — rimane accalorata. E aperta a tutti.

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