Appendice 15

Chavez l'allegria su una polveriera

di Walden Bello
direttore esecutivo di Focus on the Global South, un programma dell'Istituto di scienze sociali dell'università di Chulalongkorn. Recentemente si è recato a Caracas per partecipare al lancio della sezione venezuelana del World Social Forum.
Traduzione di Marina Impallomeni

 

http://www.alpcub.com/chavez.html

Il Cile nel '73, il Venezuela di oggi: elite e classe media sono ormai corpo a corpo con il presidente «bolivariano» Hugo Chavez. Un altro colpo di stato? Costerà migliaia di vittime, ma gli Stati uniti non possono permettersi un Fidel petrolifero nella regione

La realtà politica del Venezuela mi colpisce appena arrivo, come una folata d'aria dei Caraibi a mezzogiorno. Una domanda amichevole al giovane professionista venuto a prendermi all'aeroporto scatena un torrente di accuse contro Chavez che termina solo quando mi deposita all'Hilton. «Eravamo un paese tollerante» sostiene. «Adesso Chavez ha messo la classe più bassa contro la classe media, i neri contro i bianchi. Certo, ci sono alcuni che sono ricchi abusivamente, ma non è solo loro che Chavez ha preso di mira. È gente come me. Sa, persone della classe media, con un appartamento, due auto, magari una vacanza all'estero una volta all'anno. Stia in guardia - mi avverte prima di andarsene - lei lo incontrerà domani sera, e lui sa essere veramente seducente».

Un secondo Bolivar? Effettivamente sa esserlo. La sera dopo, a un ricevimento per i partecipanti a una conferenza internazionale, Hugo Chavez, presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, è in gran forma, disarmante. Quando mi viene presentato mi prende per mano, come per guidarmi nella danza filippina del bambù "tinikling" che racconta di aver imparato in una visita di stato nelle Filippine durante la presidenza Estrada. E più tardi, nel corso della serata, affronta diffusamente gli argomenti più diversi: dal fatto di essere stato salvato dai poveri e reinsediato nel palazzo presidenziale di Miraflores durante il fallito colpo di stato dell'11-13 aprile, al suo sogno di integrare le industrie petrolifere del Venezuela, del Brasile e di altri paesi produttori di petrolio dell'America Latina.

Il buon umore di Chavez è notevole, dato che il Venezuela è sull'orlo della guerra civile. In questo egli ricorda il suo eroe, Simon Bolivar, il grande venezuelano che guidò la liberazione dell'America latina all'inizio del XIX secolo, il quale si dice abbia conservato l'entusiasmo anche nel mezzo di una difficilissima crisi politica e personale (...). Si dice che tra gli "anti-chavisti" - di cui fanno parte l'élite, la classe media, la gerarchia della Chiesa cattolica, i media e parte dell'esercito - stia covando un secondo colpo di stato. Caracas è piena di voci, le date si rincorrono. Gilberto Jimenez, un giovane sostenitore di Chavez, le liquida come il prodotto della classe media che «spaventa se stessa». «È come quando si parla dei `circoli bolivariani' che si starebbero armando» osserva, riferendosi alle istituzioni di base che il popolo di Chavez ha istituito nei barrios o quartieri popolari. «Non c'è niente di vero, ma se lo scrivono l'un l'altro in messaggi e-mail, e subito la classe media parla di armarsi essa stessa».

Il fallito colpo di stato Le divisioni di classe in questo paese si sono mostrate al mondo come una brutta ferita durante gli eventi dei giorni 11-13 aprile (i fatti sono noti: una misteriosa sparatoria durante una manifestazione anti-chavista, 18 morti, l'arresto di Chavez da parte di militari ribelli, una giunta-lampo capeggiata dall'industriale Pedro Carmona, poi militari fedeli a Chavez e migliaia di poveri delle baraccopoli circondano Caracas e disperdono i golpisti). Ricordando gli eventi, Chavez ci racconta durante la cena: «Il governo era debole, noi eravamo deboli, ma nel momento del bisogno la gente è scesa in strada a salvarci». L'evento, dice il sociologo peruviano Anibal Quijano, ha un significato che va oltre il Venezuela, essendo «la prima vittoria delle masse, nelle Americhe e nel mondo, da molto, molto tempo».

Dopo quarantott'ore Chavez è di nuovo al potere. (...) Ma il danno è fatto. Molti governi europei e dell'America latina criticano gli Usa per aver tollerato la defenestrazione di un governo eletto democraticamente. Per la verità molti sospettano che gli Usa abbiano avuto un ruolo nel golpe. Due ufficiali della marina Usa sarebbero stati visti con i leader del colpo di stato a Fort Tiuna, la notte tra l'11 e il 12 aprile. Ma che gli Usa abbiano o non abbiano avuto un ruolo in quei fatti, un qualche tipo di confronto sociale era inevitabile.

Due nazioni, un paese Il Venezuela è uno dei paesi latino-americani con maggiori divisioni di classe. Si calcola che l'80% delle persone vivano in povertà, e secondo stime della Banca mondiale la quota di reddito nazionale che va al 20% della popolazione più povera è solo del 3,7%, mentre quella che va al 10% della popolazione più ricca è del 37%. I grandi differenziali nella ricchezza erano in una certa misura mitigati durante gli anni ruggenti dell'Opec, all'inizio degli anni `80, quando un po' dei soldi del petrolio riuscivano ad arrivare anche in basso, in un paese che all'epoca era conosciuto come «l'Arabia saudita dell'America latina». Ma con il crollo dei prezzi del petrolio e l'avvio di un devastante programma di aggiustamento strutturale, dalla metà degli anni `80 il Venezuela è entrato in una costante crisi economica. «È stato incredibile» dice Neils Liberani, un piccolo uomo d'affari. «Il reddito pro capite è sceso da quasi 2000 dollari negli anni `80 ai 110 dollari odierni».

Il «Caracazo» del 1989, quando la gente dei barrios scese e ci furono degli scontri nel centro e nei quartieri ricchi di Caracas per protestare contro gli aumenti del prezzo del combustibile richiesti dal Fondo monetario internazionale, si dice sia stato un evento determinante nell'evoluzione politica di Chavez. Tre anni dopo, nel febbraio 1992, il giovane colonnello idealista guidò in nome delle masse povere un fallito colpo di stato che aveva assunto la forma di "sollevazione militare bolivariana".

Il golpe fallì, ma catapultò Chavez nel centro della politica venezuelana. E quando si presentò alle presidenziali nel 1998 con una piattaforma che consisteva nel mettere fine alla corruzione e alla subordinazione ai poteri stranieri e cominciare una rivoluzione sociale, Chavez vinse comodamente, con circa il 56% dei voti, con l'appoggio anche da settori della classe media che ora sono suoi fieri oppositori.

Gli ultimi tre anni sono stati davvero rivoluzionari. Chavez ha fatto passare una nuova costituzione che è stata approvata in un referendum popolare. Ha formato una coalizione politica che ha ottenuto il controllo sull'Assemblea nazionale. L'Assemblea ha approvato il famoso pacchetto di 49 provvedimenti legislativi tra cui una legge di riforma agraria, una legge per proteggere i piccoli pescatori, e una legge che limita il ruolo del settore privato nello sfruttamento delle vaste risorse petrolifere del Venezuela. «Inizialmente nei media molte persone lo hanno criticato - dice Jimenez - accusandolo di essere solo un demagogo con le sue promesse. Ma quando lui ha cominciato a creare norme rivoluzionarie ed ad attuarle, quelle stesse persone hanno cominciato a combatterlo».

In politica estera, le mosse di Chavez sono state altrettanto coraggiose. Ha espresso ammirazione nei confronti di Fidel Castro. Ha rotto l'embargo contro le visite di stato a Saddam Hussein. E ha giocato un ruolo chiave nell'unire l'Opec per gestire la produzione di petrolio allo scopo di stabilizzarne il prezzo. Queste scelte non lo hanno fatto benvolere dagli Stati uniti. Per la verità, la politica estera di Chavez è incredibilmente bolivariana. Non solo sogna un'industria petrolifera integrata a livello regionale, ma parla anche di un'organizzazione per un trattato sud-atlantico (South Atlantic Treaty Organization) che conterebbe tra i suoi membri solo paesi dell'America latina e africani, e che dovrebbe servire a proteggere la sicurezza comune dei paesi del Sud. Non ha nascosto il suo scetticismo sulla proposta dell'amministrazione Bush dell'area di libero commercio delle Americhe. I suoi collaboratori dicono che l'Alca in Venezuela non otterrebbe la vittoria in un referendum.

Eppure Chavez ha i suoi critici anche a sinistra. Alcuni dicono che è troppo aggressivo nello stile personale e troppo rapido nel bollare chi lo critica legittimamente come "nemico del popolo". Altri dicono che egli è troppo dipendente dal sostegno dei gruppi lealisti all'interno dell'esercito, e questo sarà difficile da mantenere date le origini di gran parte dei suoi ufficiali nella classe media. «Queste persone devono vivere tutti i giorni in mezzo a gente della classe media che odia Chavez» dice un suo sostenitore che ha chiesto l'anonimato. Altri ancora dicono che lui non è andato oltre il populismo carismatico, per avere un programma ben articolato di cambiamento. Come spiega Anibal Quijano, «il `chavismo' ha bisogno di essere convertito rapidamente in un processo genuinamente democratico e liberato dalla relazione mistica delle masse disperse e disorganizzate con un caudillo dallo stile peculiare di Chavez». Alcuni dicono che, sebbene Chavez e i suoi alleati abbiano cominciato a depersonalizzare e istituzionalizzare la rivoluzione mediante la formazione dei circoli bolivariani, questo risulta piuttosto tardivo.

Rivoluzione e Controrivoluzione Tardivo o no, il governo si sta muovendo per organizzare il potere popolare. I circoli bolivariani sono visti come istituzioni di auto-governo, a cui è conferita un'eccezionale autonomia nella determinazione di progetti e priorità. «La gente deve smettere di aspettare che il governo faccia le cose per loro. Devono cominciare a fare da soli, con l'amministrazione locale in un ruolo di supporto» dice Freddie Bernal, il sindaco del grande distretto a basso reddito Libertador e uno dei collaboratori più fidati di Chavez.

La rivoluzione è reale, ma anche la controrivoluzione lo è. L'atmosfera di alta tensione a Caracas ricorda quella di Santiago nel 1973, quando l'élite e la classe media dimostravano nelle strade chiedendo la rimozione del governo «dittatoriale» di Salvador Allende accusato di avere introdotto «la politica dell'odio» in un paese un tempo pacifico. La retorica democratica è la stessa ma allora come oggi, nel Cile del 1973 e nel Venezuela del 2002, il problema della destra è che il leader rivoluzionario è stato eletto con un voto popolare. Inoltre la costituzione rivoluzionaria è stata approvata democraticamente. E le leggi che affrontano le ineguaglianze sociali sono state approvate da un parlamento democratico.

Allora come oggi, la destra attua uno sciopero economico, tenendo fermi centinaia di milioni di dollari di investimenti o portandoli off-shore, peggiorando così la crisi economica che Chavez ha ereditato dalle precedenti amministrazioni. Il dilemma della destra è che, se vuole riprendere il controllo sul Venezuela, dovrà farlo passando sui cadaveri di migliaia di persone povere. E sul cadavere di Chavez che, come vuole il suo ruolo, sta giocando non solo per il presente ma per la storia. «L'errore che hanno commesso l'11 aprile» pare abbia detto, «è di non avermi ucciso. Non lo faranno di nuovo. E io sono pronto a morire piuttosto che tradire i nostri princìpi bolivariani».

E gli Usa? Il dilemma degli oltranzisti che governano a Washington è che, benché non ci sia un modo facile e "pulito" di liberarsi di un presidente eletto democraticamente, essi non possono permettersi di avere un altro Fidel Castro nella regione, specialmente un Fidel che regna in un paese che è il secondo maggiore fornitore di petrolio agli Stati uniti.

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Dossier FNSI a cura di Pino Rea | Impaginazione e grafica Filippo Cioni