Un giornalismo per il futuro

Quale futuro per il giornalismo? Quale strada imboccare? Cosa proporre per salvare una professione indispensabile per il buon funzionamento della democrazia?

E’ la domanda che la “Fondazione Murialdi” ha posto ad alcuni esperti e uomini di cultura, con l’intenzione di portare un contributo all’analisi in un momento delicato per la vita del paese e per lo sviluppo dell’informazione.

 

 

 

La Fondazione Murialdi ha avuto una serie di audizioni e confronti sul futuro della professione e in vista di un possibile diverso assetto normativo del giornalismo nel nostro Paese.

Il testo che pubblichiamo di seguito  è la trascrizione dell’intervento di Raffaele Fiengo al comitato scientifico della Fondazione Paolo Murialdi presieduta da Nicola Tranfaglia tenutasi il primo ottobre scorso.

 

 

 

“Parto da una idea consolidata: il nuovo assetto della comunicazione non permette al giornalismo o ai giornalismi di posizionarsi in modo significativo rispetto a quello che solitamente è stato nel secolo scorso.

 

 

Il giornalismo, nei paesi di democrazia liberale, ha svolto una funzione dialettica rispetto ai poteri. Quindi nei grandi fatti, e anche nei piccoli, nelle vicende nazionali e nei vari paesi, ha avuto un certo ruolo, non irrilevante nella formazione delle opinioni pubbliche.

 

 

Oggi la trasformazione avvenuta nella comunicazione non permette questo. Non lo permette su due versanti: il versante dei 12.000 giornalisti professionisti ufficiali (nell’impresa giornalistica ha un ruolo quasi sempre ancillare rispetto ad altri fattori: pubblicità, marketing, social network). Lo permette ancora meno sui 40.000 – 50.000, come ha conteggiato qualcuno, che operano con i diversi mezzi principalmente nella rete di internet, con i social, con i blog, con i siti. Costoro non hanno alcun riconoscimento, ne’ responsabilizzazione, ne’ tutela da parte della comunità.

 

 

Questi due fronti sono impossibilitati a essere se stessi. Il fronte più tradizionale perché l’impresa giornalistica non ha più come fattore primario il giornalismo superato da marketing, pubblicità e social network. Basta pensare ai mezzi di conteggio dell’opinione pubblica che operano con sistemi semiautomatici nella scelta delle notizie per capire che il primato giornalistico non c’è. E non c’è nemmeno dove è più attiva la capacità imprenditoriale, insomma ad esempio al Corriere della Sera, dove i prodotti nuovi sono anche di qualità e successo però non hanno il giornalismo in sé come primo fattore. Allora, sulla base di questo, l’assetto deve cambiare. E anche in fretta.

 

 

Già da un anno vado avanzando una proposta, il “giornalista per adesione”, e trovo ascolto (ma pochi passi reali perché è anche un procedere complesso). Vado proponendo questa figura nuova, supportato, per il piano giuridico, da autorevoli autori del passato. Piero Calamandrei intervenne in difesa di Danilo Dolci in un processo legittimando, anche sul piano costituzionale, l’attività di 150 edili non riconosciuti che, all’alba del 2 febbraio 1956, con pale e picconi, a Partinico, risistemavano la strada (“la vecchia trazzera”) non più percorribile per raggiungere la frazione Trappeto. Danilo Dolci fu arrestato e restò in prigione per quattro mesi. Il testo-arringa di Calamandrei, supportato poi da Norberto Bobbio e Carlo Levi dimostra che anche un lavoro senza contratto (in quell’occasione uno “sciopero bianco”), se legato a una necessità della comunità deve essere riconosciuto. ( Un “diritto” ma anche un “dovere” secondo l’articolo 4 della Costituzione).

Vado, insomma, proponendo l’urgenza di salvaguardare in qualche modo il ruolo naturale del giornalista nell’impresa giornalistica e, insieme, una operazione di riconoscimento pubblico, quindi anche dell’Ordine del Giornalismo (mi piace il cambio di nome proposto da Carlo Verna che sembra condividere questo ragionare).

Andrebbero dunque delineate a queste figure dando loro un’assunzione di responsabilità (se lo desiderano, ovviamente impegnandosi sui noti punti deontologici) inserendoli in un elenco speciale, non dei professionisti, che possa dare anche accesso all’Inpgi e alla tutele anche economiche per una conseguente valorizzazione.

 

Tra l’altro vedo, anche nel pragmatico mondo americano, che si stanno muovendo in questa stessa direzione.

In numerose ricerche recenti hanno individuato le difficoltà del giornalismo (nella comunicazione allargata) di svolgere il proprio ruolo su tutto il campo. Il 16 settembre 2018 il NiemanLab di Harvard ha pubblicato la relazione di Heather Chaplin, direttrice del programma journalism+design alla New University di New York, al meeting “2.0 enemies of the people” ha delineato la nuova forma del “giornalismo della resilienza fonte degli anticorpi rispetto all’autoritarismo”crescente nel mondo. “Dobbiamo pensare al giornalismo non più come un albero forte e rigoglioso (i grandi media), ma come un rizoma” (un fusto che corre sottoterra e fa emergere piante qua e là’: se recidi un fiore qui, ne nasce un altro laggiù). La Chaplin suggerisce di coltivare i network informali che si moltiplicano e di collegarli con quelli formali (fino ai grandi giornali).

“Dobbiamo vedere dove nel sistema più largo (della comunicazione) la funzione giornalistica possa essere svolta. Occorre un sistema meno centralizzato”. Sul piano pratico, negli Stati Uniti di conseguenza si vede già c’è una maggiore attenzione alle forme che ci sono ma che non hanno visto mai riconoscimenti economici significativi. ( “Vice” nel gennaio 2017 ha discusso dell’apporto dei freelance scoprendo il loro apporto sulla qualità e ha aumentato le loro retribuzioni ).

Mi sono convinto che la presenza personale di soggetti responsabili nel comportamento deontologico proprio della funzione storica del giornalismo sul terreno largo sia indispensabile e urgente. Perché il terreno è diventato largo di fatto. Sull’intero campo della società  l’informazione muove senza differenze temporali e anche fortemente automatico nelle fonti e condizionato dai big data, dalle profilazioni, dal microtargeting, dagli algoritmi e da quanto sappiamo di tematiche integrate e interdipendenti, qui sommariamente richiamate, tali aspetti sono molto più preoccupanti di quanto appaiano separatamente.

 

 

INPGI GESTIONE SEPARATA LAVORO AUTONOMO

L’unica strada, accanto a quella che viene cercata sul piano delle regole, anche legislative, è quella di avere su tutto il terreno della comunicazione persone responsabilizzate, meglio pagate, meglio titolate. Persone in carne e ossa. Queste persone attualmente vivono fortemente condizionate dalla prima fonte economica vicina, dal politico, dal danaro, da interessi diversi dall’informare in autonomia, dalla commistione con le forze in campo.

Andrebbe semplicemente data loro la possibilità di aderire alle carte maturate negli anni dalla professione giornalistica. Anche sottoscrivendole in forma semplice: sapere che c’è un discorso per le fonti, un discorso per la tutela dei minori, un discorso per tenere separata la pubblicità. Anche se di questi 40/50 mila si riuscisse ad accettarne 10/15 mila ci si muoverebbe in una direzione assai utile, una delle poche percorribili per attivare un allargamento dell’informazione di qualità.

In verità noi in Italia stiamo meglio e peggio di altri paesi al mondo. Siamo migliori nella capacità e potenzialità degli individui che sono nel giornalismo (dentro le mura e anche fuori). Però stiamo peggio perché gli assetti formali, le imprese editoriali appaiono non interessati. L’equilibrio economico si cerca quasi esclusivamente con “ l’economia dell’attenzione ”. I giornalisti italiani sono paradossalmente tenuti lontano dalla loro mission naturale. Sembrano estranei a questi discorsi.

(Nessuna testata cerca un milione di copie o di abbonamenti online fino all’ultima periferia della società). Da qui la opportunità di aumentare il numero delle persone che lontane dal mainstream assumano la responsabilità di tipo giornalistico sia pure in un comparto separato.

 

 

 

Per concludere la cosa che farei subito è una ricognizione, perché nemmeno i dati ci sono. L’AGCOM ha fatto una indagine sul giornalismo on line, ma non ci ha detto neanche quali sono i giornali on line. Facciamo una cosa del genere e cerchiamo di capire chi è disponibile e cominciamo a sapere quali sono questi siti giornalistici. Il calcolo dei 40/50 mila potrebbe essere anche un calcolo per difetto. Mi sono limitato nel mio intervento a una cosa molto parziale. La commistione su molti campi della comunicazione è un dato della realtà. La domanda che invece ci dobbiamo porre e se dentro questa commistione sia possibile far sopravvivere la funzione giornalistica. Ad esempio nella Università a Padova è stata fatto una ricerca per cui quelli che hanno studiato giornalismo e comunicazione, quando entrano nel mercato, trovano lavoro, ma fanno i giornalisti al 5° posto, al primo ci sono le imprese. E’ un dato reale che nelle imprese si fa giornalismo, contenuti. Ci sono agenzie che preparano giornalisti per le imprese ma non per fare i comunicati stampa, per fare contenuti. (Per avere una idea basta cercare su Google “CocaCola happiness NewYorker”).

 

 

 

Domanda: è possibile fare giornalismo e farlo vivere nelle nuove forme che ha assunto? Bisogna capire bene come fare per farlo sopravvivere.

 

 

 

Seconda domanda: nelle società democratiche, con democrazia liberale, serve ancora questo giornalismo?

 

Penso di sì, storicamente è servito.

 

 

Riesce a sopravvivere nel nuovo assetto che si è creato nella comunicazione? Non lo so, però i dati stanno dimostrando che lo scivolamento della democrazia liberale è dovuto proprio a questa mancanza.

E’ dovuto al fatto che la comunicazione è manipolata, quindi mancano intermediazioni.

Su tutto il campo non arriva un’informazione credibile e affidabile. Questo vale anche per la stessa cultura.

 

 

 

Dentro queste forme che sono la realtà c’è giornalismo? Può ancora esserci? Io dico di si.

 

 

La domanda che noi dobbiamo porci è: quella propensione alla verità che nel secolo scorso portava anche i giornalisti dentro i sistemi occidentali normali di democrazia (e ha funzionato, seppure in parte) nel cambiamento avvenuto richiede che quella funzione debba esserci ancora?

 

 

Certamente si’. E se deve esserci deve raggiungere non più il bacino che raggiungeva, ma deve arrivare dappertutto. Come possiamo fare? Dobbiamo responsabilizzare o no anche quelli che sono fuori dallo schema così rigido che avevamo prima. Perché in mancanza di questo noi non riusciamo a compiere la funzione propria del giornalismo. Di questo sono certo. La funzione giornalistica propria è la ricerca della verità possibile, responsabile rispetto alla comunità.

 

 

Il dato internazionale sta dimostrando che il giornalismo, così come è l’assetto oggi, non arriva dappertutto. In tutto il mondo si sta ragionando su questo. Per cui il dato di partenza è questo. Le forme le possiamo trovare”.

 

 

Permetteteci in chiusura e ricollocando le belle e alte parole di Raffaele Fiengo, che come sapete è anche uno dei nostri fondatori, in un ambito (ahimè) molto concreto e forse un tantino più “basso”, che è quello dei “conti” del nostro comparto e in particolare dei conti del nostro istituto di previdenza l’Inpgi si potrebbero attuare alcune iniziative.  Ad esempio far entrare di diritto altre categorie di “giornalisti” dentro alla nostra categoria,  come dice molto bene il collega del Corriere della Sera Fabio Savelli in un articolo pubblicato qualche giorno fa intitolato:  

 

 

Informazione un polo per la previdenza sotto l’Inpgi

 

 

“Un emendamento alla legge di Bilancio, che trova consensi nella maggioranza giallo-verde (il dossier è nelle mani del sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon) propone la confluenza della categoria dei comunicatori (pubblici e privati) nell’istituto di previdenza dei giornalisti, ora guidato da Marina Macelloni. Per chi svolge l’attività come lavoratore autonomo l’iscrizione sarebbe prevista alla gestione separata dell’Inpgi, ora destinata a raccogliere i giornalisti non contrattualizzati come i freelance. Si creerebbe un polo pensionistico autonomo di settore. La proposta normativa potrebbe trovare spazio nella manovra durante i lavori dei prossimi giorni. Al momento si starebbe valutando l’impatto economico. Per i conti pubblici ci sarebbe solo uno spostamento di risorse: l’uscita di 130 milioni di contributi ora versati all’Inps, quindi al settore pubblico, che affluirebbero all’Inpgi stabilizzandone i conti. Di contro il passaggio del settore giornalistico a quello pubblico, semmai fosse ipotizzato in futuro, peserebbe sui costi dell’erario e dell’Inps quattro-cinque volte di più: circa 600-700 milioni. La cassa dei giornalisti archivierà il 2018 con uno sbilancio di circa 175 milioni di euro”.

 

 

 

Conti alla mano sarebbe davvero un bel modo per rilanciare una volta per tutte il nostro settore professionale. Un rilancio in tre punti:  partendo dall’idea di Fiengo,  proseguendo con l’ipotesi di  risanamento dei conti del nostro ente previdenziale, e forse –  aggiungiamo noi – aggiungendo la possibilità pratica di mettere sotto contratto tutta questa imponente massa di nuovi e vecchi giornalisti accomunati dall’uso professionale del digitale. In che modo?  Utilizzando il nuovo contratto “leggero” della nostra categoria: il contratto Uspi, sottoscritto e garantito dall’Fnsi che prevede espressamente al suo interno alcune nuove figure professionali del giornalismo odierno.