Narrazioni e fatti

Avete fatto caso che in questa nostra società sempre più piena zeppa di dati, dove le informazioni ci sommergono letteralmente, dove per riuscire a gestire questa sempre più imponente mole di elementi è divenuto necessario farsi aiutare e supportare direttamente dalle macchine: i fatti non esistono più o quasi e le notizie sono state risucchiate dalla spirale delle “narrazioni”? Non ha più importanza cosa è successo. Conta solo come viene raccontato e da chi.  Quando diciamo – anche qui – che serve ancora e sempre di più il giornalismo, ci riferiamo in parte anche a questo fenomeno. Una evidenza, che, in questi giorni,  con lo scatenarsi di una guerra dietro e dentro “casa nostra: Europa”;  si sta rivelando in modo lampante.

 

Nella cosiddetta, società dell’informazione,  i fatti paiono scomparire via, via, lasciando spazio –  uno spazio sempre più grande – alle narrazioni. I racconti, non importa quanto corretti e circostanziati, stanno letteralmente sostituendo gli avvenimenti. Lo dice bene, anzi benissimo, il nostro collega e amico Nicola Zamperini in uno dei suoi ultimi articoli pubblicato sul suo canale Telegram “disobbedienze”. Il pezzo si intitola: “Lasciate perdere Instagam, Twitter, Facebook e anche Telegram”.  In esso,  lo scrittore romano ci invita –  non senza una buona dose di ironia – a smettere di informarsi sui social e sulle chat online, persino su Telegram; il canale l’articolo di Zamperini,  si trova proprio su questo servizio di messaggistica istantanea, buffo no?

 

 

 

 

 

“Ogni contenuto in un social è un atomo slegato dall’atomo precedente e dall’atomo successivo. Come durante la pandemia siamo immersi in un flusso, in una produzione virtualmente infinita e molecolare di contenuti. Questa cosa da un lato nutre i social del loro necessario carburante, le emozioni, dall’altro ci trasforma in vittime di un infinito doomscrolling che sfinisce e angoscia, ma non aggiunge molto alla comprensione.

 

…dobbiamo tornare al contesto, pretendere da noi stessi il contesto se vogliamo capirci qualcosa. Capire cosa accade giorno dopo giorno. Serve allora un oggetto, fisoco o digitale, che risponda a questi bisogni e che soddisfi l’esigenza di tornare al contesto. L’unica soluzione allora è quella di leggere i giornali. I giornali come oggetti. Come manufatti chiusi e non aperti. Quindi non i siti internet dei giornali. Serve l’oggetto chiuso, ripeto, e non quell’opera aperta che è il sito internet di un giornale e nemmeno i canali social di un giornale. Abbiamo insomma la necessità di una cosa che arresti il flusso e lo disponga secondo un ordine. Che imponga ai fatti, ai contenuti che stanno dentro ai fatti,  una gerarchia e delle categorie interpretative.

 

…Ecco, l’unico oggetto che svolge la funzione di recuperare le connessioni e affidargli un’interpretazione è un giornale o un’edizione di un telegiornale. La modernità non ha scovato altre soluzioni.

 

 

 

 

 

Mirabile non trovate? Ma noi andiamo oltre e affermiamo con forza che:  sono i fatti ad essere andati lontano, sempre più lontano. Sono gli eventi, gli accadimenti, a sfuggirci di mano,  a perdere di consistenza ad appiattirsi sullo sfondo delle interminabili “interpretazioni” degli stessi, che circolano sui milioni di canali del web. I racconti dalle molteplici dinamiche  provenienti dalle innumerevoli e tentacolari fonti,  in cui siamo sempre  immersi.  I fiumi di narrazioni che imperversano e riempiono le miriadi di canali, di account, di bacheche dentro ai social media in cui trascorriamo buona parte del nostro tempo. Nell’ecosistema informativo in cui stiamo “perennemente a mollo” non contano più i fatti,  non occorre più stabilire un’ordine, attribuire una causa, scoprire un effetto. Conta solo cibarsi di racconti, senza soluzione di continuità, in una perenne abulia di dati, sempre più pesante, sempre più copiosa, estenuante, immensa.  Perdiamo di vista quello che sta davvero accadendo. L’orizzonte degli eventi, per scomodare niente ” popo’ “ di meno – si scherza – che la “teoria della relatività” :

 

 

In una accezione molto più generale, se per “evento” si intende un fenomeno (particolare stato della realtà fisica osservabile), identificato dalle quattro coordinate spazio-temporali, un “orizzonte degli eventi” può essere definito come una regione dello spazio-tempo oltre la quale cessa di essere possibile osservare il fenomeno.

 

 

 

 

Insomma, ci abbuffiamo, senza sosta, di contenuti di ogni tipo. E ancora non abbiamo raggiunto quei “paradisi” di realtà aumentata e di full immersion “a tre d” che ci promettono  i meta universi digitali su cui stanno investendo miliardi di dollari gli allegri compagni di merende della Silicon Valley.   Immaginate un poco a cosa stiamo andando incontro, se oggi le cose vanno già così male. Altrochè web 4.0, metaversi, realtà aumentate e altre amenità. Se qualunque “abbellimento e arricchimento” ipertecnologico servirà soltanto a raccontare una versione totalmente edulcorata per non dire fasulla di quello che realmente accade e accadrà: “cui prodest”, per dirla con i saggi.

 

Proviamo a spiegarci meglio, cambiamo versante, scrittore e  contributo. Affidiamoci ad una definizione che estraiamo da uno dei migliori saggi sul digitale mai scritti, a nostro avviso. Si tratta del libro di Eric Sadin del 2018  che si intitola:  “La siliconizzazione del mondo”. In particolare ci riferiamo al passaggio in cui il filosofo francese definisce il concetto di “tempo reale” nella nostra moderna società digitale:

 

 

 

 

Oggi coesistono due tempi reali, che si esercitano secondo modalità distinte. Prima quello “vissuto” dai sistemi che elaborano i dati trasmessi dai sensori e, in funzione dei risultati degli algoritmi da cui sono strutturati, reagiscono in maniera autonoma.

In secondo luogo c’è il tempo reale sfruttabile in modo diretto. Innanzitutto all’interno di certi enti. È il caso per esempio degli aerei di linea che a ogni secondo esprimono le condizioni dei loro molteplici componenti, come l’Airbus A380, dotato di trecentomila sensori che trasmettono informazioni a server a terra, permettendo ai servizi di manutenzione delle compagnie aeree di programmare in anticipo le riparazioni necessarie ed evitare costose interruzioni di servizio. 

Il tempo reale non indica solo una struttura tecnologica improvvisamente evoluta e affrancata dall’ambiente del computer per esercitarsi in diversi ambiti dell’esistenza. Rimanda anche a una condizione antropologica emergente, il cui intento è controllare tutto senza lasciare niente all’incertezza o al caso, ed esprime la volontà di istituire un dominio assoluto non piú sulla natura, come si diceva un tempo della scienza, bensí sul corso delle cose. Questa tendenza recente non assume forme impressionanti però si estende rapidamente, su scala mondiale, normalizzandosi quasi insensibilmente. Quando miriadi di entità e miliardi di individui si trovano all’improvviso dotati di un tale surplus di potere, si può immaginare che si formi una società fondata sull’aggiustamento continuo del reale a ogni nostra esigenza. Si tratta di un fenomeno agli inizi, di cui le nostre vite sono destinate a impregnarsi sempre piú. Non inganniamoci. Non ci troviamo piú nella «società del controllo» dominata dagli Stati e da qualche istituzione privata molto potente. Quello stato di cose è giunto forse al suo apice nel 2013, al momento delle rivelazioni di Edward Snowden sulla raccolta dati personali portata avanti su grande scala e a livello globale dalla Nsa. D’ora in poi tutti avranno la capacità di seguire l’evolversi degli eventi nel momento stesso in cui avvengono, istituendo cosí una sorta di “democratizzazione del controllo”. Ma è un controllo di altro tipo, piú pregnante, che ormai non si nutre solo di archivi – antichi o recenti – bensí dello stato della realtà nell’attimo in cui si forma, liberandosi a poco a poco di ogni opacità fin qui strutturalmente costitutiva dell’esperienza. Si potrebbe chiamare “trasparenza continua dell’esistenza nel presente”.

Probabilmente tanto improvviso potere sul corso delle cose scatenerà un ritorno del rimosso sotto forma di scorie impreviste, disinganno o manifestazioni di violenza in caso di esperienze ostacolanti.

La vita, si sa, è fatta di esperimenti, di peregrinazioni incerte, di “navigazioni a vista” costellate di appagamento e disappunto, di fallimenti e successi, di gioie e dolori. L’interfacciarsi continuo dell’esperienza con sistemi che inseriscono ognuno di noi in un circolo di controllo incessantemente informato dello stato di cose induce un subitaneo indebolimento della nostra capacità di venire a patti con la realtà, insieme a un brusco calo dell’esercizio delle nostre facoltà sensoriali. Una cosa del genere non è priva di conseguenze sull’equilibrio psicofisico generale, come aveva colto già Nicola Cusano: “Quando l’uomo abbandona il sensibile, la sua anima diviene come demente”.

 

 

 

…si può immaginare che si formi una società fondata sull’aggiustamento continuo del reale a ogni nostra esigenza… Aggiustare la realtà dice Sadin. Narrare storie e non attenersi scrupolosamente ai fatti. Decodificare i dati o peggio farli decodificare dalle macchine, spesso senza nemmeno avere la capacità di comprenderli. Aggiungiamo noi.

 

Come ci suggerisce spesso nei suoi scritti il nostro associato Piero Dominici – sociologo e filosofo della complessità – Alla fine il problema è quello di educare e formare,  i meri esecutori di funzioni e di regole,  che non sanno neanche interrogarsi sul perché eseguono quelle funzioni e quelle regole. Pensate invece a come l’errore,  l’imprevedibilità nell’assunzione di responsabilità,  di fatto ci caratterizzino.  Non soltanto rispetto al nostro essere umani,  ma anche e soprattutto  nel nostro essere umani liberi.

Dovremmo dunque  ripensare l’educazione e la formazione anche dei manager,  dei tecnici.  Non nella direzione di un’educazione al controllo,  e  nemmeno nella convinzione che tutto possa essere osservato, misurato e gestito.  Dovremmo educare e formare all’imprevedibilità.  La complessità non si può gestire”.

 

 

Educare e formare. Questo manca. E continua a mancare. Anche adesso. Soprattutto adesso,  e nonostante concetti come “transizione digitale” siano divenuti, nel frattempo,  molto ma molto di più: il nostro “pane e salame quotidiano”. E allora, affidiamoci ad un detto divenuto celeberrimo dopo essere stato inventato da un creativo  e inserito nello slogan di una vecchia campagna pubblicitaria: “meditiamo, gente, meditiamo”.

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)