Fermare la guerra

Torniamo ad occuparci della guerra in corso. Lo facciamo a modo nostro. Cercando di portare alla luce aspetti che possano in qualche modo accrescere la conoscenza di tutti, mentre auspichiamo con forza la cessazione di ogni ostilità subito e per sempre. Uno degli aspetti che caratterizzano questo conflitto è in parte di nostra competenza e attiene alla “rivoluzione digitale”, definizione oramai del tutto obsoleta e quasi completamente sostituita nell’immaginario collettivo da “transizione digitale”. Altro modo di dire sin troppo abusato, e, permetteteci, nemmeno del tutto corretto, visto lo stato dell’arte. Chissà se ci sarà o è già in corso anche una certa “transumanza digitale”?  Quella sì che ci sembra perfettamente adeguata come definizione, visto come si stanno evolvendo le cose sul fronte digitale. Un passo avanti, tre indietro, e sopratutto, cicli  di fatti e operazioni, che si ripetono stagione dopo stagione. Come fanno i pastori sui sentieri di montagna. Ma loro hanno mille ragioni per fare così, mentre noi? Battute a parte, gli aspetti che riguardano questo conflitto russo-ucraino in linea con i nostri studi, riguardano l’uso proprio o improprio, non sta a noi stabilirlo, della rete, e della comunicazione online, per lo spionaggio e la propaganda di ambo le parti e anche per l’organizzazione e la gestione della resistenza ucraina. Per non parlare dell’uso specifico, e molto efficace,   che il premier ucraino fa del suo account social per gestire in modo semplice, diretto e incisivo le proprie dichiarazioni sin dal primo giorno di guerra. Al di là dell’analisi di ciò che è accaduto online in questi quasi due mesi di conflitto, vorremmo però, in questa sede,  occuparci di quello che molto tempo prima già stava accadendo, soprattutto in rete e in forma digitale fra Russia e Ucraina e per farlo useremo una serie di contributi che andremmo ad estrarre da un prezioso testo del 2020 “Questa non è propaganda”  del giornalista Peter Pomerantsev.  Seguendo  l’idea dell’autore del saggio secondo cui: “la pluralità di voci che oggi si leva dai social media sembra il frutto maturo della vera democrazia. La stessa esistenza di questa pluralità  cancella l’idea di una realtà univoca e valida per tutti. “Censura tramite rumore” la chiama Pomerantsev, una vera tattica comunicativa: si inondano i social di fake news per confondere e orientare in modo distorto”.  Proveremo a sbrogliare un poco  questa intricata matassa. Un guazzabuglio ardito e ben architettato – divenuto in questi giorni di particolare attualità –  in cui  il giornalista russo racconta,  a nostro avviso,  – come la “macchina del fango” –  per dirla con un grande giornalista italiano – aggiornata agli stilemi del “secolo digitale”, concorra in modo sempre più potente, non solo all’elezione di un Presidente o all’uscita di un Paese dall’Unione Europea, ma anche – purtroppo –  all’entrata in guerra di una o più  Nazioni.  Poveri noi.

 

 

 

“L’architetto della disinformazione,” conclude Ong, “nega qualunque responsabilità o vincolo nei confronti del grande pubblico, raccontando al suo posto un progetto personale di conquista di autonomia e potere.”

Sotto gli architetti c’erano gli “influencer”, comici online che, tra un post e l’altro delle ultime barzellette, satireggiavano gli avversari politici dietro compenso.

Giù negli slum dell’architettura della disinformazione c’erano quelli che Ong chiamava gli “operatori di account falsi a livello della comunità”: call center operativi ventiquattro ore su ventiquattro, pieni di persone pagate a ore che gestivano dozzine di alter ego sui social media. Era gente che aveva bisogno di racimolare qualche extra (per esempio studenti o infermiere) o membri dello staff per la campagna.

 

 

 

Parole davvero forti, ma che dovremmo imparare a comprendere e mandare quasi a memoria, per farci una corretta idea di quello che significa, già oggi e aldilà di ogni “transizione digitale” di non meglio precisata forgia e organizzazione;  fabbricare contenuti digitali ad hoc e con intenti strategici e per nulla legati alla corretta informazione delle persone.  Attività prospere e scrupolosamente organizzate per distorcere a piacimento  e su commissione, la percezione – già di per sè assai difficoltoso e filtrata algoritmicamente (quindi poco trasparente) –  che ognuno di noi, utenti dell’ecosistema, ha delle notizie che circolano dentro al siffatto sistema.

 

 

 

La fabbrica di troll aveva la propria gerarchia. I meno rispettati erano i “commentatori”, e gli infimi tra loro erano quelli che postavano nella sezione dei quotidiani online riservata ai commenti. Un gradino sopra di loro c’erano quelli che lasciavano commenti sui social media. I redattori di grado più elevato istruivano i commentatori sulle figure dell’opposizione russa da attaccare, e loro passavano la giornata ad accusarli di essere fantocci della CIA, traditori, imbonitori. Alcuni commentatori non erano molto istruiti e il loro russo scritto poteva essere imperfetto, così veniva un insegnante di russo a dare loro lezioni di grammatica.

 

 

 

La questione non era più se i troll sponsorizzati dallo Stato avessero “libertà di parola”, ma se ne abusassero per violare i diritti umani delle vittime. Questa era una forma di censura tramite il caos. “Riscontriamo lo spostamento tattico degli stati da un’ideologia di scarsità d’informazione a una di eccesso d’informazione,” scrive il docente di diritto Tim Wu, “che considera la parola stessa come un’arma della censura.

 

 

 

Il sistema malato e corrotto che alcuni anni fa era bruscamente salito agli onori delle cronache scombussolando le già scarse e deboli certezze sul mondo digitale di ciascuno di noi e facendoci precipitare nell’incubo con lo scandalo:  “Cambridge analityca”; lo ritroviamo ora, nel saggio di Pomerantsev, riprodotto, adattato e realizzato su vasta scala, così come fosse una vera e propria attività “industriale”. Un modello avanzato e riproducibile su grande scala  per “addomesticare” la realtà a discapito di tutti. Se poi volessimo concentrarci nella desolante realtà del conflitto in corso, i passaggi seguenti che abbiamo estratto dal saggio del giornalista russo, ci forniranno altri utili elementi. Se poi, come è accaduto anche a noi, Vi sentirete smarriti e impauriti, soprattutto alla luce di quello che lo stesso autore del libro ignorava potesse essere la reale e ancora più drammatica escalation dei fatti narrati, fino, purtroppo, allo scoppio del devastante conflitto, avete tutta la nostra comprensione e anche parecchio affetto. Le parole del giornalista russo sono davvero profetiche e smentiscono – ahimè – molti  esperti che ingombrano da settimane le tribune mediatiche di mezzo mondo.

 

 

 

Quando ebbe inizio il progetto del Cremlino di insinuarsi nei movimenti democratici digitali per sovvertirli? Dopo la scoperta delle attività della fabbrica di troll negli Stati Uniti, il dottor Marcos Bastos,  professore di Londra che aveva raccolto venti milioni di tweet di “cosmopoliti sedentari” riguardanti manifestazioni svoltesi nell’arco di diversi anni, fu incuriosito da una questione: cosa avevano fatto in precedenza tutti quei profili in rete?

Bastos tornò al suo database. Riprese a studiare le proteste avvenute in Brasile, Venezuela, Spagna fin dal 2012. E scoprì che i profili fasulli del Cremlino c’erano sempre stati, fin dall’apice della “terza ondata di democratizzazione”. Quando le prime proteste si erano diffuse in Brasile, Venezuela e Spagna, il Cremlino stava già compiendo esperimenti sulla possibilità di infiltrarsi in esse e manipolarle dall’interno. Nel 2012 gli account marionetta del Cremlino non fecero nulla di spettacolare, limitandosi a radicarsi, costruendo rapporti capillari, penetrando nelle reti digitali dei rivoluzionari impersonando identità fasulle.

 

 

Ignorare semplicemente le operazioni del Cremlino sull’informazione sarebbe tuttavia una sciocchezza. La paralisi dell’Estonia con una combinazione di campagne mediatiche e di hackeraggio nel 2007 era stata un assaggio della potenza dei loro effetti. In Ucraina avevano accompagnato una vera e propria invasione.

 

Se la narrazione del Cremlino aveva un fine, era questo: mostrare che il desiderio di “libertà”, quel retaggio della logica della Guerra fredda, non conduceva alla pace e al benessere ma alla guerra e alla devastazione (un messaggio rivolto soprattutto al proprio popolo, in modo che non si entusiasmasse troppo per quell’idea). Affinché tale narrazione diventasse vera, bisognava fare in modo che l’Ucraina non potesse mai raggiungere la pace. Quella nazione doveva continuare a soffrire.

Quando l’esercito ucraino attaccava le roccaforti dei separatisti, il Cremlino mandava i carri armati a respingerlo, per poi ritirarsi e sostenere di non aver mai sconfinato. Negli anni seguenti – e anche nel momento in cui scrivo queste pagine – gli scontri proseguirono qua e là: non c’era una vera e propria guerra, ma neppure la pace. Nel Donbas le città vengono conquistate e poi perse di nuovo. Le artiglierie sparano da entrambi gli schieramenti. L’esercito russo compie esercitazioni di massa al confine con l’Ucraina, e il panico di massa si diffonde nel paese. Le violenze hanno avuto anche conseguenze non previste. Nel luglio del 2014, quando una contraerea high-tech russa abbatté un aereo di linea della Malaysia Airlines pieno di turisti olandesi che stava sorvolando il territorio controllato dagli alleati del Cremlino, uccidendo 298 persone, cominciò un’attività frenetica di diffusione di notizie assurde all’interno della campagna di disinformazione

 

 

 

Nessuna scorciatoia, ma neanche, nessuna tesi fantasiosa o altro. Solo i fatti suffragati da altri fatti. Del resto questo dovrebbe ancora essere il giornalismo o meglio,  e in estrema sintesi, questa dovrebbe essere la sua “funzione d’uso”Se poi a questi fatti ci volessimo aggiungere un pensierino finale sulla scalata di un non meglio precisato miliardario alla conquista di un social di cui evitiamo di fare il nome per pudore. Un arrembaggio all’arma bianca in borsa, a dir poco “non elegante”,  e con un intento – come definirlo – “singolare”, secondo  le  stesse dichiarazioni del succitato e non meglio precisato tycoon. Non sapremmo come altro concludere questa nostra riflessione finale, che un bel “boh”, forse scritto anche con le maiuscole, ma sempre poco adeguato e per nulla esplicativo.  Del resto  oppressi dai sensi di colpa e dalla nostra inadeguatezza, meglio, proprio, non riusciamo a fare. Sarà forse  perchè non siamo tycoon e nemmeno miliardari? O forse perchè, mentre le persone muoiono senza motivo nell’ennesima inutile guerra, le azioni di un miliardario che è tanto ricco da potersi permettere di ridisegnare un pezzo di mondo secondo la sua personale e insindacabile volontà, ci spaventano e sgomentano ancora più del sanguinoso conflitto, lasciandoci letteralmente senza parole.

 

grazie dell’attenzione e alla prossima ;)