Dove, come, quando, e soprattutto, con chi

Dal 2009 al 2016 fra i lavori svolti dal nostro gruppo di ricerca e studio sul giornalismo,  spiccava in particolar modo la “ricerca annuale sulla professione giornalistica”. L’analisi sui numeri del comparto redatta dal nostro fondatore e presidente, fino a quell’anno, Pino Rea –  che come sapete è purtroppo venuto a mancare nel 2021 –  era l’unico studio nazionale che metteva insieme tutti i dati “ufficiali” esistenti sulla professione giornalistica e li comparava su base annua. Anno dopo anno il rapporto fra giornalisti dipendenti e giornalisti autonomi è divenuto sempre più sbilanciato, fino ad essere talmente a favore – si fa per dire – dei free lance. A questo proposito nell’ultimo numero della nostra ricerca si leggeva fra le altre cose: “Su 50.674 giornalisti attivi iscritti all’Inpgi i lavoratori autonomi ‘’puri’’ (quelli cioè iscritti solo all’Inpgi2) alla fine del 2015 erano 33.188 contro i 17.486 giornalisti dipendenti (il 34,5%)”.  

 

 

 

Ebbene, quasi dieci anni dopo, i numeri non sono cambiati, anzi sono peggiorati. Come spiega  il nostro associato Sergio Ferraris in  un  suo pezzo pubblicato sul sito “Senza filtro” che racconta e definisce lo stato attuale  del giornalismo:

 

 

69.000, 60.000, 14.000. Tre numeri che sintetizzano la realtà del lavoro giornalistico di oggi. Il primo è il reddito medio in euro dei giornalisti pensionati, il secondo è quello degli attivi assunti a tempo indeterminato nelle redazioni, e il terzo è quello dei freelance, che oggi creano il 65% dei contenuti. Tre numeri che sono la diagnosi senza appello del giornalismo italiano.

 

 

Se poi a queste – giuste – considerazioni volessimo aggiungere il fatto che dopo annosa e sanguinolenta battaglia degli ultimi anni; anche l’epopea dell’Inpgi si è conclusa con la divisione dell’ente in due tronconi: uno comprendente i lavoratori dipendenti che è confluito dentro l’Inps,  e un secondo rimasto di competenza totale dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani. All’Inpgi rimane la tutela e  la rappresentanza degli autonomi, detti anche free lance, o, per qualche fortunato e molto invidiabile soggetto,  definiti pure: “liberi professionisti”.

 

 

 

Eppure, come abbiamo detto e dimostrato più volte anche su queste colonne, mai come adesso il giornalismo può  e potrà fare la differenza per aiutare le persone a decodificare la sempre crescente e terribilmente ingombrante mole di dati,  che arrivano dal mondo. E che è impossibile e anche sbagliato definire notizie. Un posto sempre più globale, il mondo, aperto 24 ore su 24, e dove i fatti –  veri o presunti, o palesemente fasulli – sono oramai alla portata di chiunque,  e  in tempo reale.  Secondo Ferraris uno dei temi da esplorare e sottolineare per comprendere la crisi del giornalismo sta dentro al concetto che: le notizie sono diventate una commodity.

 

 

 

 

Alberto Puliafito, direttore di Slow News, durante l’appuntamento #digit16 organizzato da LSDI : “Le news sono diventate commodity, per come s’è evoluto l’ecosistema giornalistico”. E le commodity rispondono a logiche di mercato: se hai molta offerta e poca domanda i prezzi crollano. E i freelance producono news.

 

 

 

Eppure, molti anni prima e proprio su queste stesse colonne, il nostro fondatore e mentore Pino Rea, nel bel mezzo di un articolo intitolato “Quando le notizie non sono prodotti da vendere”  riportava la seguente annotazione, estratta da una serie di dichiarazioni del giornalista ed editore francese Fabrice Florin:

 

 

 

“Nel vecchio mondo dei grandi media tradizionali, le notizie sono dei prodotti venduti ai consumatori o alle aziende che cercano di raggiungere quei consumatori. Nel nuovo mondo dei media sociali e interattivi, queste stesse attualità diventano una materia bruta che gli utenti assemblano per formulare il loro punto di vista personale e ripubblicano per esprimere la loro prospettiva agli amici, familiari, colleghi e comunità virtuali. E’ dunque un materiale di riflessione col quale si costruisce la propria ‘concezione del mondo’, piuttosto che un prodotto finito che si consuma senza pensarci’’.

 

 

 

Una riflessione davvero utile, soprattutto pensando al fatto che arriva dall’oramai remoto 2007. Proviamo ad aggiungere agli spunti del presente e del passato, alcune altre considerazioni estratte da una intervista del 2020 concessa al sito Professione Reporter dal neo vice direttore di Oggi Marco Pratellesi –  uno dei giornalisti italiani che da sempre ha compreso e interpretato al meglio la cosiddetta transizione digitale – che aggiungono, a nostro avviso, molto “pepe” e anche parecchia sostanza,  alla questione giornalistica italiana. E relativa, annosa, crisi.

 

 

“L’agenzia Associated Press riusciva ad analizzare circa 300 bilanci trimestrali delle aziende americane. Ora, grazie alla AI, ne analizza 4000. Non ha sottratto lavoro ai giornalisti, è riuscita a coprire meglio un settore che con le risorse professionali non era in grado di soddisfare. Al tempo stesso utilizza quei giornalisti per fare analisi, per spiegare cosa cambia e perché in determinate aziende. Ap ha pubblicato nel 2019 quarantamila pezzi realizzati con l’intelligenza artificiale, dallo sport alla finanza. Secondo James Kennedy, vicepresidente alla Strategia e allo sviluppo dell’agenzia, ‘la maggior parte di questi articoli non hanno avuto bisogno di alcuna revisione umana”

“E’ un mondo che cambia velocemente, ma è anche un supporto fondamentale per riscrivere un modello di business sostenibile nell’informazione. Lasciamo i lavori ripetitivi all’intelligenza artificiale, e il valore aggiunto ai giornalisti: contatti con le fonti, collegamenti, comprensione, spiegazione, interviste esclusive, inchieste. Il giornalismo si evolve con le tecnologia, come è sempre stato, peraltro. Rifiutare tutto questo equivarrebbe a un lento suicidio. Se si vogliono far pagare i lettori per accedere ai contenuti online, si deve, prima di tutto, offrire qualità”.

 

 

 

 

 

Ed eccoci di nuovo al punto e alle conclusioni. Servono competenze, servono professionisti seri e preparati, serve personale qualificato. Non servono licenziamenti, prepensionamenti, alleggerimenti e giochetti al ribasso per contenere i costi e prolungare l’agonia di un lungo, lunghissimo crepuscolo. Un tramonto senza fine. Un vero e proprio calvario. Un Sunset Boulevard dell’informazione.  Senza gloria,  senza oscar,  senza la straordinaria bellezza del capolavoro di Billy Wilder. Come riassumono in modo eccellente sia Ferraris, sia Pratellesi,  nelle conclusioni degli articoli,  da cui abbiamo estratto i contributi che abbiamo inserito nel nostro resoconto.

 

 

 

Ferraris per ritemprare e rilanciare il settore pensa, fra le altre cose, ad un  passaggio “morbido e pilotato” di competenze fra generazioni “diverse” di giornalisti:

 

 

 

 

Nel mondo anglosassone per affrontarlo si creano degli “equipaggi” per le storie importanti, le long term stories, composti da un paio di giornalisti, senior e junior, un grafico, un operatore multimediale e un programmatore che lavorano su un progetto con un’osmosi di metodologie, esperienze, contenuti e tecnologie che aumenta l’efficienza editoriale, trasferendo un know-how ogni volta più innovativo. Non a caso, Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, che ora macina utili, tre anni fa scandalizzò l’ambiente giornalistico assumendo 75 giornalisti e 75 ingegneri informatici che furono inseriti in redazione con pari dignità.

Perché, si sia freelance, redazionali o editori, la partita si giocherà su competenze e tecnologie. E l’informazione italiana su questo fronte è in coma profondo.

 

 

 

Come conferma anche Pratellesi,  che,  alla domanda sul rapporto esistente fra editoria nostrana e nuove tecniche di lavoro risponde così:

 

 

 

 

“… non mi risulta che si stiano mettendo in piedi R&D lab, laboratori di ricerca e sviluppo nelle aziende editoriali, dove giornalisti, grafici, sviluppatori ed esperti di marketing studiano le strategie per migliorare il prodotto. Laboratori che esistono ormai nelle principali testate mondiali. Se fai solo tagli agli organici, avrai solo giornalisti con la lingua di fuori e prodotti che scadono di livello. E invece, mai come oggi c’è bisogno di reinventare il giornalismo. Il giornalista dovrebbe essere il guardiano dell’etica e della deontologia, il responsabile di quello che scrive e pubblica e può avvalersi di tutti gli strumenti. L’A.I. è un aiutante, che il giornalista deve saper gestire per potenziare il suo lavoro ”

 

 

 

Quando sarà chiaro a tutti che la differenza non è fra notizie commodity gratuite, e notizie a pagamento. Ma fra informazioni di ogni tipo, modo e maniera,  e funzione giornalistica, cioè garanzia professionale e deontologica di formarsi liberamente un’opinione avendo a disposizione tutte le notizie da tutte le possibili fonti. Quando prenderemo visione e coscienza che le notizie  “free” e a disposizione di tutti, non sono tutte le notizie a nostra disposizione. E non sono, soprattutto, le notizie che cerchiamo e scegliamo razionalmente di vedere, anche se ci piace molto aggrapparci a questa visione, purtroppo non del tutto corretta, in questa società digitale governata dagli algoritmi. Nel mondo delle piattaforme, quello che circola, è quello che loro, le OTT,  – senza dietrologie o complotti – ma solo in ossequio al proprio ferreo e profittevole modello di business, ci fanno vedere. Ci suggeriscono per il nostro bene. Per assecondare il nostro modello di fruizione.

 

 

La funzione giornalistica da preservare e garantire è in grado invece di superare questi schemi e di assicurare a tutti di trovare quello che si cerca – davvero – o meglio,  di avere a disposizione tutto quello che siamo in grado di trovare,  on e off line,  per poterci  formare,  liberamente,  una opinione.

 

 

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)