Modelli

L’articolo, o post a dir si voglia, che Vi accingete a leggere, è stato redatto mettendo insieme materiale d’archivio di precedenti post già editi su questo stesso blog. L’esperimento che abbiamo tentato di realizzare e che, forse, siamo riusciti a portare a fondo con successo, vorrebbe dimostrare “scientificamente”, lo stato di parziale, talvolta totale, immobilità in cui versa da anni, talvolta decenni, il mondo dell’editoria giornalistica in Italia, e nel mondo. In particolare dai resoconti che produrremo “hic et nunc” si evince in modo chiaro che su argomenti come il “fantomatico” nuovo modello di business per il giornalismo,  ben poco sia stato fatto,  e altrettanto poco sia stato prodotto. In calce al post troverete i link dei pezzi da cui abbiamo estratto i contributi utilizzati per comporre l’articolo. Buona lettura e grazie dell’attenzione ,)

 

 

Partiamo da una definizione di giornalismo e del conseguente modello produttivo legato al giornalismo. Una definizione perfettamente calzante per gli Stati Uniti,  paese dove è stata prodotta, ma molto vicina e assimilabile alle industrie dell’informazione di molti altri paesi del mondo,  fra cui anche l’Italia di ieri e di oggi:

 

Il giornalismo è quella rara attività economica in cui il prodotto – le notizie – hanno una funzione di servizio pubblico, ma diversamente dagli altri servizi pubblici, come la scuola o la ricerca scientifica, essa non è protetta dalle forze del mercato dal sostegno del governo. Allo stesso modo, però, non è un caso che la stampa sia l’unica attività economica esplicitamente protetta dalla Costituzione.     (1)

 

 

Aggiungiamo un pochino di pepe a questa “saggezza” di base. Inserendo a margine della definizione da manuale, una riflessione tipica del giornalismo ai tempi di internet, che, come vedremo, prende spunto da un dibattito già presente nella “società civile”, da epoca non sospetta,  e che, sebbene molti lo attribuiscano  alla rivoluzione digitale e a  internet, è precedente, di parecchio, a queste “novità”:

 

 

Internet sta per far risorgere un vecchio conflitto che, nella prima metà del ventesimo secolo, aveva visto affrontarsi due concetti dell’ informazione e dell’ opinione pubblica.

Walter Lippman, grande giornalista, militava per una sorta di “dispotismo illuminato” del giornalismo. Una élite che rivelava, a una massa di lettori considerati come passivi di fronte all’ attualità (e quindi facilmente manipolabile da parte del potere), i legami e i meccanismi degli avvenimenti.

All’ opposto, il filosofo John Dewey, se non credeva affatto nella saggezza popolare innata, credeva però nelle virtù del dibattito e della conversazione.     (2)

 

 

E poi, una volta ritornati,  nel manuale Cencelli del giornalismo, stabilissimo che il modello economico del giornalismo industriale precedentemente alla rivoluzione digitale e al web era basato sostanzialmente su tre punti cardine:

 

• Pubblicizzare. O più esplicitamente: vendere lettori agli inserzionisti
• Vendere contenuti ai lettori e, collegato a questo:
• Vendere la piattaforma per la distribuzione dei contenuti (per esempio, il giornale)     (1)

 

 

Fatto 100 alle riflessioni di partenza, poi, come la mettiamo con la questione che segue? Una problematica tutt’altro che marginale e che anzi sta diventando sempre più centrale fra le mille che stritolano il mondo dell’informazione professionale. Una querelle che attiene in realtà, sempre più da vicino,  alla conservazione della democrazia, non solo della libertà di informazione,  in molta parte della nostra intera società:

 

 

internet duplica prevalentemente l’informazione prodotta dai media tradizionali, e la commenta.  In altre parole, la produzione di informazione di base da parte dei media online (professionali o prodotti dai cittadini) è relativamente marginale.

 

…in un ambiente precario, chi produce l’informazione di base? Quella che gli altri media riprendono, quella che internet duplica e commenta?     (2)

 

 

 

Prima di spaventarci del tutto,  e scappare a gambe levate, lasciando ai posteri la soluzione a questi problemi, proviamo a proseguire nella riflessione a caldo – forse meglio dire a tiepido –  sulla rivoluzione avvenuta nel mondo dell’informazione ( e non solo ovviamente ) con l’avvento del digitale e del web, aggiungendo altre informazioni sul piatto:

 

 

Non solo il mercato è stato rivoluzionato, ma anche l’accesso alle informazioni: da una parte il lettore può raggiungere facilmente alcune fonti consultate dal giornalista, ma dall’altra le possibilità di una testata si moltiplicano in maniera impressionante: le testate online variano dall’immensamente grande (internazionali) all’immensamente piccole (ultra-locali), l’informazione può essere impacchetata in mille modi diversi, con database, mappe, multimedialità e personalizzazione del contenuto.     (1)

 

 

Un presupposto, quello appena letto, eccellente se si volesse comprendere il cambiamento per davvero e ragionare in modo concreto e produttivo su modelli “totalmente diversi”, “avulsi ai precedenti”, “realmente innovativi”.

E a questo proposito, sebbene l’esempio non sia del tutto calzante, proviamo ad indicare la strada, concludendo le nostre osservazioni introducendo  una proposta.  Una specifica idea messa a punto e realizzata in uno dei tanti laboratori che la rete e il mondo digitale dal loro avvento hanno concorso a rendere realizzabile, in questo caso il riferimento specifico da cui traiamo spunto è l’Huffington Post, il modello originale creato da Arianna Huffington:

 

 

Il principio cardine dell’ Huffington Post: aggregazione e conversazione. Aperto ai commenti, il sito ospita il meglio che di quello che si dice nei media e basa la sua forza editoriale sul dibattito,    (2)

 

 

 le notizie non sono più qualcosa deciso dall’alto ma “un’opera comune tra produttore e consumatore”

Un giornale di comunità, ma aggiornato ai tempi di Internet, verrebbe da dire.

Ci sono dei “ma”. Durante la crisi seguita all’uragano Katrina, un attivista scrisse sul sito che alcuni abitanti di New Orleans si stavano nutrendo di cadaveri per sopravvivere. La stessa Arianna Huffington, fondatrice del sito, chiamò l’autore per chiedere conferma, scoprendo che non era vero. La correzione arrivò immediatamente, ma ormai la voce si era diffusa ancora più rapidamente. Così avviene, ai tempi di Internet.     (1)

 

 

 

Mentre  cerchiamo, più o meno scientemente, decisi o annoiati, con preparazione e mezzi, o soltanto incerti, insicuri e sull’orlo di una terribile “crisi di nervi”: risorse e modelli per uscire da questa impasse che si chiama “passaggio dall’analogico al digitale” oppure anche “società dell’informazione”;  prendiamo nota di questo passaggio nodale che ci arriva sempre dal passato e dagli archivi di questo stesso blog/giornale/laboratorio di ricerca. Un contributo ,vecchio, addirittura antico secondo i canoni digitali, eppure ancora  quanto mai adeguato e in linea con quello che quotidianamente accade e continua ad accadere nei/sui/dentro i mezzi di informazione (quali che essi siano?) e anche – o forse sarebbe meglio dire purtroppo – in seno alla società odierna:

 

 

La comunicazione attraverso l’immagine, l’apparenza e lo spettacolo, ha eroso il nostro sistema di valori e di percezione della realtà, sostituendola con un surrogato la cui superficie è perfettamente liscia, e su di essa scivolano così tante informazioni, così tanti avvenimenti che in realtà sembra che non accada più nulla.
È proprio questo il grande “miracolo” della comunicazione moderna: l’ingegnerizzazione di un flusso costante di notizie in assenza di messaggio.    (3)

 

 

 

  1. https://www.lsdi.it/2008/giornali-quale-business-model-per-il-futuro/
  2. https://www.lsdi.it/2008/ancora-sulla-morte-dei-giornali-cartacei-e-dei-loro-modelli-economici/
  3. https://www.lsdi.it/2008/una-iper-realta-gonfia-di-notizie-ma-priva-di-messaggi/

 

 

 

Se poi qualche “nostalgico” – magari anche addetto ai lavori, qualcuno  del settore, meglio se alto dirigente di un’impresa editoriale – volesse andare in un attimo, indietro nel tempo, e rivedere in pochi istanti,  tutti i fallimenti – molteplici e devastanti –  che l’industria editoriale è riuscita a compiere negli ultimi 15 anni. Legga per intero e senza nemmeno riprendere fiato, le riflessioni/consigli/strategie di un consulente dell’epoca. Uno dei più avveduti e dei più preparati –  non a caso arrivava da oltreoceano – e che profetizzava con precisione tutto – ma proprio tutto – quello che è poi avvenuto. Peccato, davvero peccato, che fra tutte le previsioni azzeccate, il nostro esperto lasciasse fuori l’unica previsione – e che forse previsione non era – , ma più indicazione – utile – per il futuro. Una robetta tipo:  se vogliamo cambiare e trasformarci  da analogici  a digitali, dobbiamo/dovremo  – sigh – produrre studi, ricerche, e poi modelli e prodotti: digitali. Nati dentro la rivoluzione e non adattati alla stessa. Nessun prodotto di trasformazione, nessuna scaltrezza o furbizia, nessuna inutile scorciatoia. A nulla serve/ è servito/ e servirà, giocare a rimpiattino con vecchi strumenti e obsolete strategie. Se non a prolungare all’infinito la crisi  e l’agonia in atto nel sistema. Rimandando ancora e ancora la fine inevitabile, ma lasciando posto, potere e controllo a soggetti diversi e che nel frattempo stanno diventando – o forse sono già diventanti – i veri ed unici padroni del vapore. Di tutto il vapore. non solo di quello prodotto dalle notizie. Perché i modelli nuovi servono per ogni cosa,  e non sono, solo,  quelli proposti da Google, Amazon o Facebook, per non far nomi.

 

 

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