Giornalismo dei blog – una rilettura dal 2006

Per la serie anche qui cerchiamo di riposarci un pochino d’estate, ecco a Voi: tre articoli tre, ripescati dal nostro archivio e riproposti. Non si tratta solo di una doverosa sosta per  permetterci di ricaricare le pile, ma anche di tre vere chicche rispolverate dai nostri scaffali elettronici, e ancora parecchio attuali per non dire, quasi “moderne”.  A partire da oggi e per le prossime settimane,  ri-pubblicheremo, dunque, tre “nostri” vecchi articoli, dedicati ad argomenti ancora molto presenti nelle cronache del quotidiano.  Iniziamo con un pezzo del 2006. Un’analisi, all’epoca d’avanguardia, su un fenomeno che aveva letteralmente invaso il mondo del giornalismo – proprio in quei momenti – e che si stava espandendo a macchia d’olio con una forza e una potenza davvero impressionante. I blog. Il fenomeno dei diari online – weblog, come erano stati definiti alla loro prima apparizione – in pochissimo tempo si era affacciato sul panorama dell’informazione mondiale,  e già quindici anni fa, come leggeremo di seguito, aveva letteralmente rivoluzionato il rapporto fra giornalismo e lettori. In particolare,  i blog d’opinione, molto potenti sul fronte della politica, arrivavano o stavano arrivando in America,  e poi nel resto del mondo,  grazie all’attività di Arianna Huffington – citata nell’articolo  che segue, a più riprese – e la sua “invenzione” editoriale, una creatura potente che rispondeva al nome di Huffington Post, che poi avrebbe spopolato – come ben sappiamo – in mezzo mondo, Italia compresa. Ma questa è un’altra storia. A proposito di blog, oggi sappiamo che molto altro stava per succedere nel mondo dell’informazione, e nel mondo in generale,  grazie all’avvento delle moderne tecnologie di comunicazione e alla cosiddetta “rivoluzione digitale”. Ma rileggere quell’articolo potrebbe essere utile per rimettere un minimo di ordine – si fa per dire – fra le cose che sono davvero avvenute dopo l’avvento del digitale, e farci pensare un momento, con calma, al futuro, e a come vorremmo davvero relazionarci con esso. Intanto buona lettura e buon riposo ;)

 

 

 

 

Un articolo fuori del coro di una analista del Washigton Post. – ‘’C’’è un innegabile romanticismo nel tema del potere-al-popolo che i blogger adorano, ma qualcosa se la dimenticano: il popolo. Che, – piccolo particolare, – ai blog non ci crede.’’ – ”I blog sono infatti considerati l’’ultima delle fonti di notizie quanto ad affidabilità, secondo i dati raccolti da Consumer Reports e pubblicati sull’’ultimo studio sui media condotto da Project for Excellence in journalism” – Uno studio di Jay Rosen e dei suoi studenti alla New York University rivela però che sono oltre 100 i giornali Usa che hanno dei blog. – Solo il WP ne ha una ventina.

(da postwritersgroup.com, 16 marzo 2006)

di Marie Cocco (Washington Post)

 

 

 

Forse sorprenderò tutti quelli che hanno proclamato l’’anno scorso o due anni fa che i ‘’vecchi’’ media (la ‘’schiuma dei vecchi media’’, nel gergo di qualche blogger dell’’estrema destra) sarebbero come dinosauri deperiti in via di estinzione e di superamento da parte di più moderne, veloci e più libere fonti di informazione, più democratiche e in qualche modo meno orientate della stampa tradizionale.
Il feticismo dei blog potrebbe aver raggiunto il suo massino durante il Rathergate, l’’imbroglio diffuso via etere nel settembre 2004 in quel servizio su ‘’60 minutes  in cui si sosteneva che il Presidente Bush aveva avuto un trattamento favorevole quando era sotto le armi in Texas durante la guerra del Vietnam. La spazzatura dell’’ultrafamoso anchorman della CBS Dan Rather e il suo istantaneo ritiro dalle scene erano apparse come l’’ultimo trionfo di quei bloggers, prevalentemente di destra, che trionfalmente avevano proclamato che i documenti di ‘’60 minutes ’’ relativi a un trattamento speciale del presidente erano contraffatti.

In verità, un’ analisi approfondita condotta dall’’ex Procuratore generale Dick Tornburgh, un repubblicano, e dall’’ex presidente dell’’Associated press, Lou Boccardi, ha accertato che non si può dire con certezza se quei documenti erano autentici o meno.

Ma era ormai inutile. Il potere dei blog era stato confermato: un fatto che aveva stupito la grande stampa e impressionato la sinistra politica – che ovviamente aveva deciso che anch’’essa doveva utilizzare i blog per non essere rovinata da loro. La ‘’blogosfera’’- aveva scritto la decana liberal Arianna Huffington sul giornale inglese Guardian – ‘’è ora la più vitale fonte di notizie in America’’.

 

Ma davvero?

 

C’ è un innegabile romanticismo nel tema del potere-al-popolo che i blogger promuovono, ma qualcosa dimenticano: il popolo. Che – piccolo particolare – ai blog non ci crede.

 

I blog sono infatti considerati l’’ultima delle fonti di notizie quanto ad affidabilità, secondo i dati raccolti da Consumer Reports e pubblicati sull’’ultimo studio sui media condotto da Project for Excellence in journalism. Solo il 12 per cento delle persone interpellate sulla fiducia accordata ai vari media sostengono di credere a quello che leggono nei blog contro il 56 per cento che dice di ritenere credibile le notizie dei giornali o della televisione.

 

Come tutti noi di questo mestiere, il Project sta cercando di capire perché l’’industria dei giornali è in declino, e perché nessuno sembra preoccuparsi per niente della differenza fra il giornalismo e il semplice rimaneggiamento – con una appassionata spinta partigiana – che passa sui blog e spesso anche sulle tv via cavo. Sembra che come la gente di solito sia più avanti dei politici, allo stesso modo i fruitori di notizie siano ben al di là rispetto a questa classe di giornalisti dediti alla chiacchiera e ossessionati da questo nuovo desiderio di scendere nell’’arena del blog , dove spesso i fatti possono essere non verificati.

 

Certo, la gente legge sempre di più le notizie su internet. Cliccare sui servizi giornalistici, spesso mentre si è al lavoro, ha più appeal che cercare di andare avanti nelle varie sezioni di un giornale mentre si stanno portando i figli a scuola o si sta affrontando la battaglia del traffico nell’’ora di punta. ‘’Ma col tempo la fiducia nel medium non sta crescendo, si sta contraendo’’.

 

La logica di questa sfiducia – che è tutto l’’opposto della illogicità trionfante dei blogger – è evidente. E nessuno, in realtà, la ha espresso meglio della Huffington: ‘’I blog per natura sono strettamente personali – una intima, spesso feroce espressione della passione individuale del blogger’’, scrive nel Guardian.
Sono proprio così: e il pubblico lo capisce.

 

I blogger, almeno negli Stati Uniti, dove la stampa non ha legacci governativi, non sono giornalisti. Sono dei pamflettisti politici contemporanei. Come gli agitatori politici, hanno storicamente la loro legittimazione nel tentare di convincere il maggior numero di persone nel realizzare iniziative contro quelle istituzioni che essi ritengono non siano per bene al loro servizio – come i poteri governativi, la grande stampa o le grandi aziende. Un politico che ignora i blog lo fa quindi a suo rischio.

 

Ma pochi blogger in pigiama sono stati visti procedere con difficoltà nell’’acqua alta fino ai fianchi a New Orleans per ‘’coprire’’ gli effetti dell’’uragano Katrina come hanno invece fatto i cronisti della stampa o le troupe televisive. Come certo, in generale, non sono tanto impazienti di accamparsi a Baghdad.

 

I grandi media possono aver forse perduto qualcosa in credibilità rispetto al passato. Ma imitare chi gode di ancor meno fiducia non potrà certo aiutarli a riconquistare tale credibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

MA ALLA NEW YORK UNIVERSITY NASCE UN CORSO DI ‘’ISTITUZIONI DI BLOGGING’’

 

 

Intanto però, come segnala Mario Tedeschini Lalli su  Giornalismo d’ altri, praticamente tutti i giornali Usa hanno i loro blog. E alcuni, come il Washington Post ne hanno anche una ventina (la relativa directory è qui ).

 

Il fenomeno è ormai arrivato a uno stadio di piena maturazione diventando materia di analisi accademica, con dei corsi intitolati ‘’Istituzioni di blogging’’. Jay Rosen – uno dei maggiori esperti del settore – e i suoi studenti della New York University gli hanno dedicato ora un grosso lavoro di ricerca, i cui risultati sono pubblicati su Blue Plate – uno speciale che ha preso in esame i 100 quotidiani di maggior circolazione e li ha analizzati.

 

Un interessante quadro sinottico, e le relative considerazioni di Jay Rosen, con un esame della situazione nelle altre aree del mondo.

 

 

 

Per dare ulteriore spessore a questa nostra riflessione attinta dal passato, vorremmo solo aggiungere un passaggio di “senso” che abbiamo scoperto in un bel libro:  “Un futuro perfetto”,  del giornalista, scrittore e grande esperto di “mondi digitali” Steven Berlin Johnson. Lo copia incolliamo qui di seguito e, ringraziandoVi per essere arrivati fino a qui, Vi diamo appuntamento alla prossima settimana ;)

 

 

Quando le parole sono libere di scorrere e ricombinarsi si creano nuove forme di valore, e la produttività generale del sistema risulta maggiore.
Le nuove specie emergenti nell’ecosistema capiscono intuitivamente come funzionano questi processi, e secondo modalità sconosciute alle vecchie forme di vita. ProPublica, l’organizzazione giornalistica non-profit che per le sue inchieste ha vinto il premio Pulitzer nel 2010, sul suo sito web riporta una frase che, nello stile di Abbie Hoffman, invita i lettori a “rubare le nostre storie”. Può sembrare un’affermazione ironica e provocatoria, ma ProPublica dice sul serio. I suoi contenuti sono pubblicati con licenza Creative Commons per consentire a chiunque di utilizzarli, a condizione che ProPublica sia citata e linkata come fonte e che tutti i collegamenti della storia originale siano mantenuti. Invece di mettere il giornalismo sotto vetro, l’organizzazione sta di fatto dicendo alle informazioni che produce: “Andate e moltiplicatevi!”. ProPublica è esplicitamente progettata secondo i principi delle reti di pari, e vuole assicurarsi che le sue informazioni viaggino attraverso una rete che sia la più ampia possibile.
Una delle ragioni per cui ProPublica può permettersi di operare in questo modo, ovviamente, è che si tratta di un’organizzazione non-profit, la cui missione non è fare soldi ma essere influente. Questa è un’area di sviluppo scarsamente considerata nella vasta e disordinata discussione sul futuro del giornalismo. Alcuni hanno parlato del ruolo del non-profit nel riempire il vuoto creatosi dopo il declino dei giornali stampati, ma hanno sottovalutato la produttività delle organizzazioni che sono incentivate a connettere, non a proteggere, le loro informazioni. Un’informazione pensata per diffondersi nell’ecosistema di notizie è destinata a creare più valore di una chiusa ermeticamente in una campana di vetro. Si possono anche fare profitti costruendo mura di leggi sul copyright intorno alle proprie notizie – esiste un interessante dibattito al riguardo –, ma erigendo queste barricate si limita anche l’influenza delle proprie idee. Naturalmente, ProPublica è solo la punta di un iceberg. Esistono migliaia di organizzazioni – alcune attente al giornalismo, altre all’amministrazione pubblica e altre ancora nate spontaneamente sul web – che creano informazioni liberamente utilizzabili sia nei blog di quartiere sia nel giornalismo d’inchiesta da premio Pulitzer.
Steven Berlin Johnson