Bitcoin di Stato

La notizia dell’adozione pubblica, con comunicazione ufficiale, rullo di tamburi, squilli di tromba, e bacio in fronte del Presidente alla dea bendata con tanto di cornucopia, – o forse era solo una valletta/figurante assunta all’uopo – dei bitcoin come valuta di Stato in Salvador, ci ha lasciato a dir poco senza fiato. Eoni fa avevamo parlato di criptomonete/valute dentro ad un nostro appuntamento “live”: digit. Era il 2014, e avevamo avuto la grande gioia di poter mettere attorno ad un tavolo alcune persone competenti ed esperte sul tema, come ben poche ce n’erano all’epoca. In particolare a raccontarci del sistema delle valute digitali e di come era nato e stava cominciando ad espandersi online,  era stato uno dei primi giornalisti italiani ad aver scritto un libro sul tema “Affaire bitcoin: pagare col p2p e senza banche centrali”: Gabriele De Palma. Assieme a lui c’erano il nostro – non ancora nostro all’epoca ma solo ospite e relatore speciale  – Marco Dal Pozzo, e il grandissimo Robin Good che dell’edizione di digit di quell’anno non fu soltanto relatore e graditissimo super ospite,  ma anche – proprio di quel determinato panel – coordinatore e conduttore. In calce a questo post Vi proporremo una breve clip estratta da quell’incontro pubblico. Come vedrete il taglio che avevamo dato al panel metteva insieme la nuova economia digitale basata appunto sulle criptovalute con l’idea, che poi abbiamo continuato a studiare qui a bottega insieme a Marco Dal Pozzo, che il giornalismo fosse un bene comune inalienabile per la società umana, e potesse essere  finanziabile in modo diverso e slegato dalle logiche del mercato. E che magari queste due idee –  criptovalute e giornalismo etico e sostenibile –  potessero stare assieme in qualche modo.

Da quel lontano 2014 molta acqua è passata sotto i ponti, l’invenzione del bitcoin e la struttura della catena di blocchi che la tiene su – la blockchain – dal 2009 anno del loro debutto, hanno subito un’evoluzione impressionante e anche parecchio “ricca”. Nel senso che alcuni fortunati o lungimiranti – o entrambe le cose –  hanno messo insieme somme considerevoli trafficando con le criptovalute ma soprattutto, tali oggetti, sono stati notati e poi studiati e  in qualche modo sono anche entrati a far parte del sistema monetario globale, quello che si fonda sui depositi aurei, sulle economie degli Stati  e sull’emissione e sul conio di carta/moneta. La decisione assunta in Salvador e l’apertura di questo nuovo clamoroso percorso,   ci induce a fare nuove considerazioni.   Questo avvenimento rappresenta –  a nostro avviso – la sintesi perfetta della digitalizzazione del mondo. Un mondo – il nostro –  dove il passaggio fra analogico e digitale continua ad avvenire in modo non consapevole, ricordate l’awarness di cui abbiamo parlato qualche settimana fa? L’arrivo di soldi digitali dentro l’economia di uno Stato rappresenta l’ennesimo strappo, l’accelerazione improvvisa e inutile, verso una mondo sempre meno controllabile e gestibile. Un salto in avanti improvviso e senza motivo,  per garantire ai soliti e privilegiati componenti della stretta cerchia di super ricchi e potenti di poter accumulare tanti altri “dobloni”, digitali o aurei poco importa. Ma procediamo con ordine, facendoci aiutare, come sempre, da alcuni dei nostri autori preferiti, e iniziamo da un saggio “quasi serio” di un giallista “semi-serio” come Marco Malvaldi, che in questo caso rispolvera il suo lato scientifico e affiancato da un fisico “vero”,  Dino Leporini, scrive alcuni anni fa “Capra e calcoli”, un libro dedicato alla “società digitale”, da dove estraiamo un passaggio che spiega molto bene, a nostro avviso,  la natura  e la  tecnologia che sta dietro alle criptovalute:

 

 

 

nel 2008 un tal Satoshi Nakamoto – pseudonimo dietro al quale non si sa con certezza chi si nasconda: se un giapponese sessantenne, come ha rivelato uno scoop di “Newsweek” nel marzo 2014, o addirittura una comunità di hacker – inventò una moneta virtuale chiamata bitcoin. 

Un bitcoin può essere paragonato all’oro. Lo puoi comprare, ma ha quotazioni, come si usa dire, volatili: a gennaio 2013 un bitcoin valeva 13 dollari, per poi arrampicarsi a folle velocità fino a 1200 a novembre e infine crollare a 600 a febbraio 2014 a causa del veto della Cina ad utilizzarlo nelle transazioni finanziarie e delle vicissitudini di uno dei siti in cui è maggiormente scambiato. 

 

Non vuoi comprare bitcoin? Allora li puoi “estrarre” come una pepita da una miniera (il termine inglese è mining). 

Il metodo è semplice: periodicamente la rete bandisce un ammontare di bitcoin, diciamo 25, associato a un problema matematico, la cui soluzione non richiede intervento umano ma può essere affidata ad algoritmi disponibili gratuitamente in rete. Il primo (computer) che risolve il problema prende la somma. Dov’è la difficoltà? La soluzione dei problemi richiede una grossa potenza di calcolo, e quindi o possiedi un calcolatore sufficientemente potente o devi consorziarti con altri. Dov’è la novità? Bitcoin aggira banche e autorità monetarie tradizionali, annullando le spese per commissioni nelle transazioni, ma anche qualunque tipo di controllo e verifica, anche se tutto si svolge alla luce del sole. Motivo di entusiasmo per molti, oltre al fatto che tutto il software è gratuito (Open Source, come il famoso sistema operativo Linux) e che le transazioni avvengono tra pari (peer to peer, P2P).

 

 

 

 

 

Dunque dunque, o anche mumble mumble, come meglio delle parole suggeriscono i fumetti; siamo difronte ad una novità epocale, rivoluzionaria e anche piuttosto destabilizzante –  ammettiamolo – che si basa su una scoperta/creazione/invenzione di cui non si conosce neanche bene la genesi ne la paternità. Come dire che usiamo farmaci salvavita  la cui formula ci è stata fornita, forse, dagli scienziati di un laboratorio, però segreto, oppure il cui testo è stato  rinvenuto  in una capsula del tempo sepolta nel giardino della casa di una persona che però molto probabilmente non ha nulla a che vedere con la formula. La cura, in ogni caso funziona,  e quindi la usiamo, senza farci tante domande. Fa un po’ effetto non trovate?  Inutile sottolineare che questo atteggiamento da una parte sin troppo entusiasta, e dall’altra “ignorante” ma obbediente o peggio succube, verso la cosiddetta modernità o tecno-modernità, è un po’ alla base di tutta la nostra società odierna e sconcerta non poco per la sua superficialità. Proviamo a scavare un altro poco, rispetto al fenomeno bitcoin, e andiamo ad estrarre un passaggio davvero molto istruttivo sulla materia contenuto  nel libro di  James Bridle, del 2018, che si intitola: “Nuova era oscura”:

 

 

 

 

La criptovaluta Bitcoin, che mira a smantellare l’egemonia accentratrice dei sistemi finanziari, ha bisogno dell’energia di nove case americane per compiere una singola transazione; e se la sua crescita dovesse continuare, entro il 2019 avrebbe bisogno dell’intera produzione energetica statunitense per sostenersi.

Il bitcoin si basa prima di tutto su algoritmi di crittografia asimmetrica, che sono ormai di gran lunga i preferiti per tutte le applicazioni di sicurezza digitale. Questi algoritmi si basano su “funzioni unidirezionali”, calcoli facili da eseguire ma estremamente difficili da invertire per risalire ai termini iniziali. Un esempio molto noto (la base del diffusissimo algoritmo crittografico RSA) è il seguente: è facile moltiplicare due numeri primi grandi ottenendo un numero enorme, ma è molto piú difficile scomporre un numero enorme nei due numeri primi che ne sono i fattori

il bitcoin sarebbe semplicemente l’ennesimo metodo di pagamento che si affida a qualche autorità centrale per tracciare le chiavi pubbliche e difendersi da quello che viene chiamato il “problema della doppia spesa”, il rischio che il denaro appena ricevuto in pagamento possa essere stato speso anche altrove, l’analogo digitale di una sorta di contraffazione.

 

 

 

 

Mica male come inizio, non trovate? In effetti la questione della non sostenibilità “energetica” della blockchain ci è stata confermata da più parti, nel corso degli ultimi anni. In ultima analisi ce ne ha parlato in modo diffuso durante un appuntamento digit del 2019, il professor Mauro Lombardi dell’Università di Firenze. Molto utile anche la considerazione sul funzionamento della valuta criptata, una considerazione basilare, per comprendere il funzionamento  delle monete digitali, che come vedrete,  si lega in modo eccellente con alcune altre notazioni su bitcoin e blockchain contenute nel libro di Ed Finn, già recensito su questa bacheca,  – così come anche gli altri due testi citati in precedenza – che si intitola “Cosa vogliono gli algoritmi”:

 

 

 

 Il vero radicalismo del bitcoin deriva dal fatto che la blockchain fonda la sua autorità sull’elaborazione collettiva come forma intrinseca di valore.

 

Molte persone percepiscono che la forza dirompente del bitcoin derivi semplicemente dalla decentralizzazione. Sostituisce, infatti, la moneta legale dello stato con una nuova valuta formalizzata, non garantita da un sistema aureo, né da possibili rimborsi o da un’utilità intrinseca (bruciare bitcoin non tiene caldo, sebbene il loro mining tenda a far riscaldare molto i processori usati)

 

Invece di banconote del Tesoro o di lingotti immagazzinati, abbiamo la blockchain, la quale si basa su una norma computazionale premiando i minatori che apportano la maggior potenza computazionale al calcolo di ogni nuovo blocco. Il sistema si basa sulla soluzione di problemi di proof of work (dimostrazione di lavoro), essenzialmente privi di significato ma che servono come competizione pubblica, creando una forma di valore che dipende dalla spesa di cicli del computer al servizio della rete bitcoin.

Il sistema di Nakamoto dipende per la sua stabilità da una maggioranza democratica persistente. Come una classica piattaforma open source, la comunità attiva di sviluppatori di bitcoin migliora il codice ma sostiene il progetto anche attraverso una sorta di coinvolgimento collettivo da fan, un reciproco rafforzamento dell’ideologia del progetto attraverso l’elaborazione dedicata. L’aggiunta di ogni nuovo blocco alla catena è il fulcro intellettuale cruciale per l’intero sistema, e dipende dalla vittoria, nella competizione per una soluzione proof of work, di uno dei «buoni», un sistema che non cerchi di alterare fraudolentemente il registro ufficiale delle transazioni. Per far funzionare il tutto, la maggior parte dei minatori bitcoin mette insieme le risorse computazionali, dividendo il problema proof of work fra migliaia di macchine per aumentare la loro velocità di calcolo e migliorare cosí le chance di «vincere» un blocco. In realtà anche questo modello parlamentare di autenticazione finanziaria corre dei rischi: se qualcuno di questi collettivi minerari (mining) diventa troppo grande e comprende piú del 50 per cento del pool computazionale complessivo che affronta il problema della blockchain, allora diventa una fazione di maggioranza con il potere di alterare a piacimento i dati delle transazioni. Il bitcoin sopravvive solo attraverso un equilibrio federato di potenza computazionale.

 

il bitcoin, nonostante le sue aspirazioni democratiche, è in fondo un sistema tecnologicamente elitario che inserisce il valore computazionale nelle basi capitalistiche della moneta. Come una sostenitore (in questo caso non uno stato ma i maggiori collettivi minerari). Ma il valore fondamentale che definisce la forza è adesso una risorsa molto specifica: la potenza di calcolo, il silicio, l’elettricità. Per quanto il gioco sia aperto a tutti, gli unici giocatori che possono veramente influenzare il risultato sono quelli che si uniscono in sofisticati collettivi minerari (il che a sua volta richiede di fidarsi che il collettivo condivida equamente le ricompense). Gli utenti quotidiani di bitcoin non ne sanno molto su come vengono calcolate le transazioni o su come questo equilibrio di potere possa influenzare i loro investimenti e le loro transazioni.

 

 

 

Le considerazioni di Finn, ridotte all’osso, ovviamente, ci portano alla soluzione del problema, o meglio, all’enunciazione dei molteplici problemi – anche qui ce ne sono, ci dispiace molto –  insiti nel meccanismo delle catene di blocchi, nelle tecniche di mining, nel registro pubblico delle operazioni/transazioni, e in tutto “l’ambaradan”, inventato dall’ingegnere giapponese che sarebbe il genio dentro la lampada dei bitcoin. Il fantomatico Nakamoto –  che anche Finn nomina –  e di cui a distanza di 12 anni ancora non si sa nulla di certo. Noi proviamo a sospendere per il momento la nostra analisi, certi di aver sollevato alcuni punti su cui riflettere, ma, Vi promettiamo di ritornare ad esplorare molto presto questo tema, legato senza alcun dubbio a doppio o anche triplo filo a tutti gli altri argomenti che sostanziano la nostra società attuale –  fintamente digitale –  e invece, purtroppo, molto realisticamente lanciata  – in caduta libera –  verso un nuovo oscurantismo che ha ben poco a che vedere con il presunto progresso tecnologico,  così tanto e sempre presente nella narrazione comune. Alla prossima e grazie dell’attenzione ;)