Tornare ma dove

Messaggio ai naviganti, in questo articolo parleremo di tesi post Covid 19. Tesi illuminanti e di grande intelligenza,  sostenute in epoca non sospetta,  da un economista gesuita che si chiama Gael Giraud, in un suo articolo pubblicato su Civiltà Cattolica all’inizio di aprile. Le dietrologie, i complotti, le teorie “divergenti” che abbondano ovunque sul ruolo dei gesuiti nella storia del mondo, non fanno parte del nostro bagaglio culturale. E a scanso di equivoci depenniamo a priori qualunque dubbio sul tema,  usando, una “bustina di Minerva” –  o meglio alcuni brevi estratti da un articolo sul tema – che  Umberto Eco scrisse nella sua rubrica sull’Espresso,  qualche anno fa, era il 2008,  con chiaro intento satirico:

 

 

Dunque i gesuiti sono sempre stati intesi a costituire un governo mondiale, controllando sia il papa che i vari monarchi europei, attraverso i famigerati Illuminati di Baviera (che i gesuiti stessi avevano creato denunciandoli poi come comunisti) hanno cercato di far cadere quei monarchi che avevano messo al bando la compagnia di Gesù, sono stati i gesuiti a far affondare il Titanic perché da quell’incidente gli è stato possibile fondare la Federal Reserve Bank attraverso la mediazione dei cavalieri di Malta che essi controllano – e non a caso nel naufragio del Titanic sono morti i tre ebrei più ricchi del mondo, Astor, Guggenheim e Strauss, che alla fondazione di quella banca si opponevano. Lavorando con la Federal Reserve Bank i gesuiti hanno poi finanziato le due guerre mondiali che hanno chiaramente prodotto solo vantaggi per il Vaticano. Quanto all’assassinio di Kennedy (e Oliver Stone è chiaramente manipolato dai gesuiti), se non dimentichiamo che anche la CIA nasce come programma gesuitico ispirato agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che gesuiti la controllavano attraverso la KGB sovietica, si capisce che Kennedy è stato ucciso dagli stessi che avevano mandato a fondo il Titanic.

Devo sorvolare su tanti altri complotti. Ma adesso non chiedetevi più perché la gente legge Dan Brown. Forse ci sono dietro i gesuiti.

 

 

Chiarita la nostra posizione,  grazie all’arguzia non comune del grande semiologo piemontese, vorremmo sottoporre alla Vs. attenzione alcuni brevi estratti dall’articolo dell’economista francese che abbiamo segnalato in apertura,  e che – ovviamente –  Vi invitiamo a leggere per intero. Per semplificare  l’approccio,  divideremo la nostra osservazione in tre macro temi: Il virus, l’economia, la democrazia. Accanto, prima, dopo, nel mezzo,  a questi  estratti, aggiungeremo a completamento,  alcune nostre brevi riflessioni, sugli argomenti trattati. Buona lettura e grazie dell’attenzione.

 

 

Il virus

 

 

Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici.

 

…sarebbe stato relativamente facile frenare la pandemia praticando lo screening sistematico delle persone infette sin dall’inizio dei primi casi; monitorando i loro movimenti; ponendo in quarantena mirata le persone coinvolte; distribuendo in modo massiccio mascherine all’intera popolazione a rischio di contaminazione, per rallentare ulteriormente la diffusione. Trasformare un sistema sanitario pubblico degno di questo nome in un’industria medica in fase di privatizzazione si rivela un problema grave.

 

la Corea del Sud e Taiwan hanno predisposto un sistema di prevenzione estremamente efficace: lo screening sistematico e il tracciamento

 

Nessun confinamento. Il danno economico risulta trascurabile.

 

Invece dello screening sistematico, noi occidentali abbiamo adottato una strategia antica, quella del confinamento

 

il difetto nel nostro sistema economico ora rivelato dalla pandemia è purtroppo semplice: se una persona infetta è in grado di infettarne molte altre in pochi giorni e se la malattia ha una mortalità significativa, come nel caso di Covid-19, nessun sistema economico può sopravvivere senza una sanità pubblica forte e adeguata.

 

Le tre T della salute sono, per come la vediamo noi: Temperatura, Tracciamento e Tamponi. Maiuscole per capirci meglio, non per manie di grandezza. Ebbene, usare prima queste contromisure  – come sottolinea Giraud – sarebbe stata la cosa migliore, in termini di impatto sanitario, sociale ed economico. L’esempio di quei paesi che hanno adottato da subito e in modo rigoroso queste tecniche, sta lì a dimostrare in modo incontrovertibile, la correttezza delle strategie e dei comportamenti che ne sono conseguiti.

Qui da noi, dove si sono fatte scelte differenti, l’uso massiccio e sistematico di questi strumenti viene invocato da tempo dagli scienziati. E sembra che in alcune regioni e in modi differenti – ma certamente da nessuna parte in modo davvero capillare –  ora che siamo transitati nella fase due per giungere poi alla fase tre; si sia cominciato ad usarli. Staremo a vedere.  Dal canto nostro vorremmo provare a comunicare nel miglior modo possibile, cosa significherebbe, mettere in atto questa strategia. Ad esempio per il turismo. Fondamentale entrata per le esauste casse del nostro Paese, così duramente provato fino a questo momento dalla diffusione del contagio.

 

 

Prendiamo ad esempio una decina di posti “emblematici” per l’immagine turistica del BelPaese nel mondo. Non diciamoceli. Immaginiamoli.  Ognuno scelga i suoi senza limitazioni. 10 luoghi  in cui attivare un monitoraggio capillare ma nello stesso tempo non invasivo delle persone in arrivo e transito. Posti da mettere in sicurezza e poi riaprire al pubblico e al turismo con grande clamore mediatico. Non come sta accadendo. Non come stiamo facendo. Non affidandosi al caso o al più confidando nel “senso di responsabilità” dei singoli. Servono strategie chiare di breve e lungo periodo.

 

Pensate a che tipo di impatto potrebbe avere sul buon nome del nostro Paese e sul rilancio del turismo, se questi celeberrimi luoghi fossero improvvisamente e inopinatamente di nuovo:  “in sicurezza anche ai tempi dell’epidemia”.  Realizzare un esperimento di questo tipo, sarebbe una sorta di cartina al tornasole di come potrà essere possibile tornare a praticare visite e viaggi sostenibili, nonostante le misure di distanziamento sociale, e tutte le altre pratiche,  con cui dovremmo imparare a convivere,  per lungo tempo. E come fare ad aprire, anche prestissimo, piazza San Marco, il Colosseo, Piazza San Pietro,  nonostante le ristrettezze attuali? Beh, potrebbe non essere così difficile.   Se mettessimo  in pratica la regola delle tre T della salute. Pensateci. Se fossimo in grado di misurare in modo massiccio ma nello stesso tempo puntuale e accurato,  la temperatura di tutte le persone che entrano e sostano sulla piazza,  e se dopo aver effettuato tale monitoraggio,  fossimo poi in grado di segnalare alle persone con temperatura superiore alla norma il loro stato,  e dialogare con i singoli,  decidendo assieme a ciascuno,  come procedere, e,  ad esempio,  indirizzarle verso alcuni punti dei luoghi turistici,  attrezzati alla bisogna,  per eseguire i tamponi su ciascuno dei febbricitanti?  In modo discreto ma efficiente.  Per eseguire un protocollo condiviso e trasparente, in cui lo Stato, si fa carico della salute di ciascuno dei “non regolari” e intraprende assieme a loro un percorso di diagnosi per  comprendere il motivo reale dell’alterazione,  garantendo a ciascuno il benessere  per sé e per gli altri.

 

 

Strategie e protocolli di intervento chiari, trasparenti, non invasivi ma efficienti ed efficaci. Fantascienza insomma.

 

 

 

L’economia

 

 

La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima. 

 

A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche.

 

I «beni comuni», come li ha definiti in particolare l’economista americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra il mercato e lo Stato, tra il privato e il pubblico. Possono guidarci in un mondo più resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia.

 

Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.

 

Questa pandemia ci introduce, dunque, in un tipo di crisi nuovo e senza precedenti, in cui si uniscono il calo della domanda e quello dell’offerta. In tale contesto, l’iniezione di liquidità è tanto necessaria quanto insufficiente.

 

Solo lo Stato, perciò, può creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire la massa di dipendenti che, quando usciranno finalmente di casa, scopriranno di aver perso il lavoro. 

 

È quindi legittimo e indispensabile che gli Stati occidentali, oggi come ieri, utilizzino una spesa in deficit per finanziare lo sforzo di ricostruzione del sistema produttivo che sarà necessario alla fine di questo lungo parto; e lo dovranno fare in modo acuto e selettivo, favorendo questo o quel settore. Ovviamente, il loro debito pubblico aumenterà. Ricordiamo che, durante la Seconda guerra mondiale, il deficit pubblico degli Stati Uniti raggiunse il 20% del Pil per diversi anni consecutivi. Ma il deficit sarebbe molto più grande in assenza di ingenti spese da parte dello Stato per salvare l’economia.

In altre parole, l’austerità uccide – lo vediamo bene coi nostri occhi in questo momento, nei nostri reparti di rianimazione –, ma non risolve alcun problema macroeconomico.

 

 

Gli ultimi dati diffusi dall’Istat proprio in questi giorni dimostrano in modo preciso alcune delle tesi enunciate dall’economista francese. Anche dentro la crisi epocale, in cui già ci trovavamo –  è bene sottolinearlo –  anche prima della pandemia, e che ovviamente è divenuta ancora più profonda con il lock down, fino a trasformarsi in qualcosa di ancora più grave e soprattutto di mai affrontato prima; alcuni avvenimenti si sono ripetuti e non tutti i comparti economici hanno perso. Ci sono stati settori produttivi e del commercio che non si sono mai fermati anche durante l’epidemia,  e che – sebbene in crisi anch’essi in precedenza –  hanno trovato dentro a questo nuovo schema dettato dai decreti “impositivi” elaborati dai governi, nuova linfa, nuove occasioni, nuovo lavoro. Il commercio online è stato certamente il primo beneficiario di questo ultimo e inusuale stato di crisi. Ma anche il piccolo e medio dettaglio iperlocale –  settore quasi allo stremo prima dell’epidemia –  ha tratto giovamento, e ancora ne sta traendo – anche dentro la fase due e la fase tre della crisi –  dalle conseguenze delle misure intraprese per contrastare la pandemia.

 

 

Ad un primo sommario controllo, il concorrente primario dei dettaglianti di quartiere è la grande distribuzione. Questione oramai antica nelle sue dinamiche. E tutt’altro che superata. Anzi se a questa prima “cannonata” ci aggiungiamo il prepotente e oramai quasi totale  monopolio assunto nelle pratiche d’acquisto delle persone con l’e-commerce,  rimane davvero difficile pensare a come possano sopravvivere i piccoli negozi. Sono le piattaforme dell’immensa distribuzione – perdonate la battutaccia –  ad essere diventate i capo fila di tutto. Padroni incontrastati del commercio di ogni tipo e forma, e ora dentro a questa imprevista e gravissima emergenza, ancora più potenti e monopolisti. Ma questo tipo di visione e di interpretazione dei fatti non ci può vedere soddisfatti. Si tratta di una interpretazione molto superficiale,  dettata dalla semplice lettura della copertina del libro del commercio. Se proviamo ad andare leggermente più in profondità,  ci accorgiamo che alcuni tentativi per rimediare alla disfatta del commercio al dettaglio sono stati fatti nel Paese. In Toscana va citato quello della creazione dei centri commerciali naturali. Una sorta di piccoli consorzi di botteghe artigiane e di commercianti di vie, piazze o piccole aree di zone limitate, che si mettono insieme,  e organizzano momenti di rilancio delle proprie attività. In buona sostanza giornate promozionali, sotto forma di mercatini rionali, feste a tema, aperture notturne o festive programmate. Un bel tentativo, certamente, ma che non tiene conto, per l’ennesima volta, del passaggio epocale avvenuto nel mondo in questi ultimi decenni. La svolta digitale. I commercianti, gli artigiani, i piccoli dettaglianti, non potranno mai competere né con la grande distribuzione, tanto meno con i colossi delle piattaforme digitali se non si adegueranno culturalmente al momento storico in cui stiamo vivendo. Per accrescere le proprie potenzialità,  devono comprendere per davvero,  l’avvenuto passaggio al digitale. In prima battuta usufruendo essi stessi della possibilità di espandere i propri territori di commercio e vendita di prodotti online attraverso le tecniche dell’ e-commerce. E poi, valorizzando il proprio know-how in chiave digitale. Un artigiano, un commerciante, ha un patrimonio di conoscenze, di competenze, di originalità, che hanno un immenso valore e che nessuno può conoscere e utilizzare se non interloquendo direttamente con i singoli possessori di queste  informazioni. Ma come ben sappiamo tutti, oramai, attraverso il digitale e le tecniche di comunicazione del web, questa conoscenza può essere salvata, e condivisa. Aggiungendo eccellenza e affidabilità e quindi rinomanza ai singoli possessori di queste specifiche competenze. Tutte pratiche che concorrono a valorizzare i singoli e a renderli di nuovo competitivi sul mercato.

Quindi,  anche e sopratutto dentro a questa nuova e più profonda crisi, se vogliamo davvero ridare speranza e dignità, a tutti. Ripensando al mondo del lavoro a  partire – ad esempio – dai piccoli artigiani e commercianti locali:  dobbiamo –  soprattutto da parte delle amministrazioni locali, ma anche,  ovviamente, dal governo nazionale –  fornire loro tutti gli strumenti e la cultura necessaria,  per garantire l’accesso ai mezzi,  e alla conoscenza,  del mondo digitale.

 

 

La democrazia

 

 

Un possibile errore sarebbe quello di apprezzare l’efficacia dell’autoritarismo come soluzione.

 

In termini di evoluzione biologica, per un virus è molto più «efficace» infettare gli esseri umani che la renna artica, già in pericolo a causa del riscaldamento globale.

 

È soprattutto la distruzione della biodiversità, in cui siamo da tempo impegnati, a favorire la diffusione dei virus

 

La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare le trasformazioni che, anche ieri, sembravano inconcepibili a coloro che continuano a guardare al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria. Abbiamo bisogno di una re-industrializzazione verde, accompagnata da una re-localizzazione di tutte le nostre attività umane.

 

 

Le misure che stanno limitando la nostra libertà personale, in tanti casi intervenendo inutilmente nelle abitudini di persone che stavano comunque seguendo le raccomandazioni del cosiddetto “distanziamento sociale”. Sono misure che trovano favore perché cercano di confinare un problema sanitario entro limiti non distruttivi per le fisiche capacità del Sistema Nazionale.

Attenzione però a non farcele piacere troppo: oggi ci stanno salvando la vita, ma domani potrebbero avere l’effetto opposto. 

Il problema, come ci diciamo sempre, è culturale. Passato questo momento, in cui è stato accolto con favore un regime restrittivo, ricordiamoci che è da lì che bisognerà ripartire. Bisognerà lavorare non tanto per farsi trovare pronti per la prossima emergenza, ma perché non si rischi che le misure di emergenza diventino permanenti.

Il nuovo modello di mondo che vogliamo non è quello del controllo; su questo non dobbiamo abbassare la guardia.

 

 

Questo particolare momento di crisi potrebbe far nascere non solo decreti e principi di sussistenza, ma anche eccellenti spunti per avviare davvero e una volta per tutte, la riflessione generale e complessiva per arrivare a porre basi serie per il passaggio strutturale al digitale di cui questo Paese ha un dannato bisogno. Certo non si potrà fare subito, e nemmeno solo sulla scorta delle riflessioni di uno sparuto gruppo di osservatori indipendenti come è il nostro, ma forse vale la pena di tenerne conto, invece di scatenare come al solito la caccia ad un nuovo nemico.

 

 

Il senso di quello che dovremo affrontare sta proprio nei comportamenti comuni. Nell’essere popolo, comunità, umanità. Qualcuno si perderà è inevitabile,  ma il gruppo coeso prevarrà. Non è il momento di perdersi dietro alle rivendicazioni dei singoli, degli imprenditori, dei sindacati, delle associazioni, dei gruppi di potere; tutte giuste, intendiamoci. Ma ora inutili e deleterie. Dobbiamo dire ad ogni gruppo di potere di aiutare chi comanda a sbrogliare la matassa, ben lungi dall’essere dipanata. Adesso più che mai.  I soldi persi. I lavori persi. Le merci gettate. Troveranno un indennizzo, una compensazione. Magari solo parziale ma ci sarà. Tutto avrà senso solo se ci sarà qualcuno a riscuotere alla fine del processo. Abbiamo strumenti potenti per andare avanti. Per trasformare l’emergenza in un presente di lotta, lavoro e godimento. Smettiamo di sentirci orfani e vessati e comportiamoci da solidali. Persone che perseguono lo stesso obiettivo.