Il Paese è fermo

Ma tutto si muove, tutto continua a spostarsi, sotto la superficiale apparenza di un blocco quasi totale, dovuto alle contromisure messe in campo per contrastare il diffondersi dell’epidemia, tutto scorre per dirla con gli antichi: “Panta rei”. Siamo dentro un colossale ingorgo, un serpentone infinito di persone, e auto, e paesi, e città e regioni e ancora Stati interi, bloccati, dentro una casa, non un auto forse, ma di sicuro dentro un mega-ingorgo. Un ingorgo descritto in modo formidabile dai grandi Dalla e Roversi in un brano che si intitola proprio così. E che Vi proponiamo di seguito da leggere e da ascoltare:

 

 

 

 

Mettere in marcia il motore, avanzare tre metri, staccare, fermarsi a guardare e a parlare, alla fine spegnere il motore

Tre suore giovani nella 2 cavalli, un ragazzotto dentro la Dauphine, c’è un uomo bianco nella Caravelle,  altro uomo e donna in una Peugeot

Dietro alla 2 cavalli c’è una Volkswagen con dentro una ragazza e un soldato certamente sposati da poco, hanno le spalle bruciate dal fuoco

Centomila auto imbottigliate nella corsia nord e sud verso Parigi da dodici ore nessuno si muove

Passa il giorno e arriva la sera passa la notte e il giorno fa ritorno alle nove arriva uno straniero e chiede pane alla gente intorno

Allez! Tutti in auto e avanti cento metri, a mezzogiorno si briciola un biscotto, l’ingegnere dorme nella Taunus, un muso di cane contro il vetro rotto

La terza notte è lunga come il mare la notte terza è proprio un fiume in piena una donna passeggia per il campo parla da sola, piange, si dimena

Parigi è laggiù bella e lontana, sembra un pavone con le piume aperte, ha un giallo acceso per divertimento; qua c’è un rumore e strisciare di vento

Al quarto giorno avanzano un chilometro, molti hanno lasciato l’automobile e girano per i prati e le foreste cercando il pane e l’acqua come bestie

Dividono sul bordo della strada l’ultimo creck, l’ultima bottiglia; la cocacola è razionata a gocce: due gocce solo per le labbra rotte

Verso sera qualcosa si muove con uno strappo la fila si snoda come un gatto che si morde la coda le macchine procedono in pariglia

Le stelle o le nuvole o la vita Forse un soldato poteva ritornare Un adattarsi meccanico a pensare Dalla Simca fanno un gesto d’amore

Assurdo sentimento di speranza, cavalli cavalli cavalli corrono sui prati, foglie bianche si aprono cadendo, il laser del sole le taglia ridendo,

Luci rosse rosse sempre accese danno il via a una pazza rincorsa; centomila bisonti scatenati verso Parigi stretta in una morsa

 

 

 

 

 

Siamo soli eppure tutti insieme, più di sempre insieme, più di sempre bisognosi di cambiare il nostro modo di essere, il nostro registro di vita. Questa prova ci trasforma in digitali nostro malgrado. Siamo obbligati a non usare la nostra presenza, le nostre azioni di persona, i nostri atti fisici. Dobbiamo rimanere a casa per evitare il contagio, quasi tutti i lavori sono stati bloccati, le scuole sono state chiuse. L’obbligo, la necessità, ci rende tutti “all digital”. Ed ecco che improvvisamente il divario digitale, la mancanza di un’appropriata cultura di base per approcciare in modo sistemico e complesso (per dirla con il nostro Piero Domenici) il mondo digitale e tutti i suoi strumenti, ci rende improvvisamente molto poveri, molto più poveri.

 

 

 

Lo dice molto bene Carola Frediani nell’ultimo numero della sua newsletter “guerre di rete”.

 

 

 

Oggi torno di nuovo sul tema, – della didattica a distanza – per misurare la distanza tra il dire e il fare, la teoria e la pratica, il “tool” figo con duecento funzionalità che ti fa sentire un cyberguru e il computer che ti si inchioda subito dopo averlo scaricato. Un insegnante del Sud, prossimo alla pensione ma esperto di digitale e che preferisce non essere nominato, mi scrive ad esempio della difficoltà a usare G Suite, uno degli strumenti individuati dalla scuola italiana per la didattica a distanza, perché avrebbe la “sua trafila di firme (con la biro, non digitali) e di domandine su moduli fotocopiati, che con la segreteria in smart working è una sfida considerevole. Beninteso, non per Google, ma per la burocrazia della scuola”. E quindi: “mi sa che mi accontento di Jitsi”.

Ma anche con Jitsi, strumento che consente di fare videochiamate di gruppo, quindi videolezioni in diretta, non va proprio liscia. Funziona per venti minuti, mi scrive l’insegnante, ma poi inizia a buttare fuori il titolare dalla chat, costringendo tutti e 16 gli studenti a ricollegarsi. “Tipico esempio di risorse limitate in banda, e approssimative nella gestione delle anomalie”, mi scrive. “Erano le 11 quando abbiamo deciso (su Whatsapp, in parallelo costante) di lasciare perdere. Siamo passati su una chat audio (non è solo audio, ma può bastare) suggerita dagli alunni. Si chiama Discord/Noway, usata dai ragazzi come canale di servizio mentre giocano a Fortnite”.

 

Carola Frediani

L’articolo completo è sulla newsletter Guerre di rete e su Valigia Blu

 

 

 

Non servono guru, tanto meno para guru, serve tanto, tanto studio, apprendimento, formazione. Serve dare inizio ora, e per davvero, alla tanto sventolata “transizione” che evidentemente – e lo constatiamo oggi senza tema di smentita – nei fatti non è mai avvenuta. La funzione pubblica, per citare un altro esempio eclatante, è un altro dei comparti in cui in teoria il passaggio al digitale è in una fase molto avanzata – a parole –  provate a chiedere lumi, oggi o domani, ai lavoratori degli enti pubblici che non possono rimanere a casa e rischiano più di molti altri di essere colpiti dalla malattia. Chiedetelo ai lavoratori dell’informazione, senza dubbio “il riesame digitale” del caso, vale in prima battuta, proprio per il nostro comparto. Quali siano le contromisure digitali messe in campo per riuscire a coprire l’emergenza?

 

E come fare a coprire in sicurezza e con i mezzi sufficienti, la sete di notizie improvvisamente cresciuta in modo esponenziale e tutta a vantaggio degli organi di informazione professionale. Improvvisamente le fake news non esistono più o meglio, ci si accorge che mai sono esistite, solo che facevano tanto comodo, prima. Erano un modo utile e profittevole per smontare un sistema. Un sistema  che improvvisamente  ha molto senso e ragione di esistere,  un sistema che, evidentemente, non è morto. Il comparto dell’informazione professionale lungi dall’essere defunto, senza dubbio, è sempre più importante; solo che deve essere rimodulato – questo si e da tanto, troppo tempo – in chiave digitale. Realmente digitale.

 

Colmare la distanza, ora non è più un fantomatico obiettivo per pochi addetti, ma una necessità assoluta per tutti. Lo dice molto bene il sociologo Giovanni Boccia Artieri:

 

 

 

In queste giornate stiamo rivedendo il valore da dare al nostro essere tecnologicamente connessi. Nel confinamento cui siamo costretti ci siamo ritrovati a dover reinterpretare come la rete ci permette di osservare il mondo, a usare il web per lavorare e studiare, a dare valore diverso a quei contatti che senza Internet non potremmo avere.

Siamo circondati da molti progetti di condivisione: artisti in streaming, social reading, audiobook e fumetti gratuiti…

In questo momento di difficoltà rendere centrale il valore d’uso della merce-cultura significa riaffermare il valore simbolico della condivisione.

Farlo dentro piattaforme proprietarie fa parte invece di quelle contraddizioni che in questi giorni saltano più all’occhio.

Il nostro dipendere da chi ha progettato a fini di mercato i modi di interagire attraverso il digitale – rendendoli adatti alla datificazione – racconta di come abbiamo delegato all’impresa un modo di stare in pubblico, di stare assieme, di fare comunità. Quando tutto sarà passato mi piacerebbe ci ricordassimo di come questo bisogno ci appartenga e immaginassimo modi diversi di essere proprietari dei modi di stare assieme.

Giovanni Boccia Artieri

L’articolo completo sul sito Doppiozero. 

 

 

 

Ogni riflessione, ogni approfondimento, ogni studio sull’automazione, sull’intelligenza artificiale e sul futuro del nostro lavoro e delle nostro vite, assume ora: in stato di necessità; un significato molto diverso. Forse il significato più corretto? Rileggere un passaggio dell’ottimo:  La gabbia di vetro di Nicholas Carr, ci da sensazioni differenti oggi, e forse, contemporaneamente,  ci indica la giusta direzione:

 

 

La maggior parte di noi tende generalmente a dare per scontato che l’automazione sia positiva, come hanno sostenuto negli anni svariati pensatori, che ci dia la possibilità di dedicarci a occupazioni più elevate, ma che per il resto non alteri il modo in cui pensiamo e ci comportiamo. È una convinzione erronea. È un’espressione di ciò che gli studiosi di automazione chiamano “il mito della sostituzione”. Uno strumento che allevia la fatica non si limita a fornire un sostituto per una singola componente di un lavoro. Esso altera le caratteristiche di quell’attività nel suo complesso, compresi i ruoli, gli atteggiamenti e le competenze delle persone che se ne occupano. Come ha spiegato Raja Parasuraman in un articolo del 2000: “L’automazione non si limita a rimpiazzare l’attività umana, ma la cambia, e spesso in modi non voluti e non previsti dai progettisti”. L’automazione altera sia il lavoro sia il lavoratore.

 

 

 

Ora che ci siamo dentro, al punto da esserne dipendenti, completamente, forse varrebbe la pena di avviare una volta per tutte e su ciascuno di noi, non importa quanto vecchio o quanto giovane; il lento, inevitabile e utilissimo processo di alfabetizzazione alla vita digitale.

 

 

Il senso di quello che dovremo affrontare sta proprio nei comportamenti comuni. Nell’essere popolo, comunità, umanità. Qualcuno si perderà è inevitabile,  ma il gruppo coeso prevarrà. Non è il momento di perdersi dietro alle rivendicazioni dei singoli, degli imprenditori, dei sindacati, delle associazioni, dei gruppi di potere; tutte giuste, intendiamoci. Ma ora inutili e deleterie. Dobbiamo dire ad ogni gruppo di potere di aiutare il Potere costituito a sbrogliare la matassa, ben lungi dall’essere dipanata. I soldi persi. I lavori persi. Le merci gettate. Troveranno un indennizzo, una compensazione. Magari solo parziale ma ci sarà. Tutto avrà senso solo se ci sarà qualcuno a riscuotere alla fine del processo. Abbiamo strumenti potenti per andare avanti. Per trasformare l’emergenza in un presente di lotta, lavoro e godimento. Smettiamo di sentirci orfani e vessati e comportiamoci da solidali. Persone che perseguono lo stesso obiettivo.