Il giornalismo non può attendere

Speriamo di non annoiarvi proponendoVi spesso questo giochetto di parole nel titolo dei nostri pezzi. L’idea è che se il titolo Vi suggerisce qualcosa o qualcuno, magari di noto o apprezzato o semplicemente di remoto ma simpatico, il Vostro approccio al nostro pezzo sarà più benevolo. Sciocchezze, probabilmente, chi può dirlo se non Voi direttamente. Parafrasando un paradiso a cui tutti aspiriamo ma dove non vorremmo andare tanto presto, il nostro indagato principale, il centro del nostro operato da sempre, il succo di tutte le nostre analisi da molti anni: il giornalismo; si scopre in questo momento così delicato per la storia del mondo e dell’Umanità, ancora più debole e prossimo al collasso definitivo, nonostante il rinnovato interesse di tutti, in questa stretta decisiva dell’attualità, in cui le notizie, quelle vere e dimostrabili, suffragate da fatti  e dati riscontrabili ogni oltre ragionevole dubbio, sono tornate di gran moda. Molte sono le attività, talune anche davvero bizzarre, nate a supporto del “vero giornalismo”, come se esistesse, o sia mai esistito, un giornalismo falso. Pulitzer avrebbe apprezzato molto queste bislacche iniziative e forse si sarebbe schierato a favore di esse – tanto per intorbidire ulteriormente le acque – già di per sè alquanto agitate e opache. Naturalmente ci riferiamo al Pulitzer degli scandali, del giornalismo di facciata, il Pulitzer cinico e baro, che badava solo al fatturato e non alla verità dei fatti. Le due macro iniziative “a sostegno”, forse si può definirle anche in questo modo, del giornalismo italiano, almeno quelle che ci sono balzate agli occhi prepotentemente in questi giorni, sono: una campagna pubblicitaria con tanto di spot promozionale in onda sulle reti Mediaset e che sostiene apertamente e senza giri di parole il cosiddetto: giornalismo di qualità. Uno spottone in cui si vedono, non si nominano, testate mainstream di ogni tipo e padrone: dal Corriere a Repubblica, dalla Rai ai privati; responsabili, meglio, “numi tutelari della veridicità delle notizie”, secondo lo spot, e apertamente schierate contro ogni tipo di strumentalizzazione della notizia; meglio conosciute come “fake news” . Silenzio in sala please. Ogni commento potrebbe essere superfluo oltre che dannatamente caustico. La seconda e ancora più paludata iniziativa nasce in casa Rai. Trattasi di osservatorio, o meglio di una task force – così è stata definita dagli stessi ideatori del servizio – contro le fake news in epoca di Corona virus. “Uno strumento che servirà ad unire il Paese e a dare segnali positivi”, ha commentato il capo di questa nuova struttura, Antonio Di Bella direttore di RaiNews24.

Anche in questo caso, ci guardiamo bene dall’esprimere qualsiasi tipo di giudizio o parere di sorta, non è questo il nostro compito, ci limitiamo a riportare la notizia e a ricordare a tutti, che le fake news non esistono, almeno è quello che qui a bottega pensiamo da tempo, e che da tempo abbiamo scientificamente provato a dimostrare.

Mentre rombano i motori del dissenso,  e del sostegno palese al giornalismo di qualità –  ci piacerebbe sapere chi decide cosa – ma rimandiamo la domanda a chi è più addentro al tema; vorremmo  aggiungere a queste due iniziative, alcune dichiarazioni sul giornalismo, rilasciate qualche giorno fa, da uno dei giornalisti più noti del Paese, direttore di un tg televisivo di proprietà di uno dei  gruppi editoriali più potenti e noti del BelPaese. Enrico Mentana sul giornalismo ha detto fra le altre cose, queste parole:

 

 

  1. Non esiste un under 30 che legga i giornali 
  2.  Nella società digitale non ha senso la cadenza quotidiana 
  3. E’ impensabile uno spostamento fisico per andare a comprare un giornale con le notizie del giorno prima 
  4. Tv prima e web poi hanno raso al suolo l’idea che le notizie si debbano pagare 
  5. La crisi economica ha fatto il resto, chiudendo giornalisti invecchiati dentro redazioni da cui escono solo col la pensione o il prepensionamento, perché non c’è più mercato. 
  6. Loro (noi), i giornalisti, come categoria e come punte, hanno maturato grandi colpe: un riflesso da un lato egoistico (meglio conservare i privilegi che rischiare) e dall’altro realistico (faccio un prodotto novecentesco, i lettori miei coetanei questo vogliono, invece di cercare un mercato nuovo per il quale non sono attrezzato resto qui, e so a chi parlo – è quella che chiamo la sindrome dell’antiquario). L’unica grande paura dei giornalisti oggi è la crisi dell’Inpgi, e ho detto tutto.. 
  7. E poi ci sono gli editori, che sognano un falò del CNLG (il contratto), perché nei loro bilanci gravano redazioni inscalfibili che ai loro occhi lavorano come una decina di giovani del web, ma in compenso costano un centinaio di volte in più

 

Le dichiarazioni di Mentana sono inserite fra i commenti ad un pezzo pubblicato da Marco Bardazzi, ex giornalista di punta della Stampa  – uno dei pochi veri esperti di digitale del Paese – passato qualche anno fa a dirigere la comunicazione di Eni. Bardazzi in questo delicato momento ha pensato bene di mettere nero su bianco sul proprio account sul social del “lavoro”, linkedln, una articolata e densa riflessione sul giornalismo e sul futuro del medesimo,  da cui di seguito estraiamo prima alcuni passaggi a nostro avviso particolarmente salienti,  e poi grazie alla collaborazione del “nostro”, Marco Dal Pozzo, esaminiamo alcuni dei commenti apparsi in calce al pezzo di Bardazzi – anche questi, particolarmente interessanti a nostro avviso – e sui quali proviamo a nostra volta a formulare qualche ulteriore riflessione. Buona lettura e grazie dell’attenzione. ;)

 

 

Dice nel suo pezzo, fra le altre cose Marco Bardazzi:

 

 

Il giornalismo è ancora concepito per l’era industriale, dalla quale nel frattempo il mondo è uscito per entrare in una nuova information age basata su presupposti diversi. Il prodotto di base del giornalismo, la notizia, è diventata una commodity che non ha più il valore sufficiente per sostenere l’organizzazione del lavoro di aziende editoriali ancora strutturate come all’inizio del XX secolo. Il sistema ha tenuto fino a quando, a metà degli anni Zero del XXI secolo, non ha cominciato ad essere dissanguato dei propri ricavi pubblicitari, che si sono in gran parte spostati verso colossi del web come Google e Facebook.

 

 

Il digitale è stato la fonte principale di crescita dei ricavi, ma nonostante questo incremento la carta continua a produrre a livello globale il 90% dei ricavi degli editori giornalistici. E questa adesso si rivela una grande vulnerabilità.

 

 

Siamo in una fase di ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, con la televisione ancora forte protagonista ma con modalità di fruizione e attori nuovi (pensiamo al boom di Netflix o Amazon Prime).

 

 

In questi giorni le redazioni dei giornali e il loro sistema di distribuzione stanno facendo un lavoro – lo ripeto – eroico per cercare di portare ogni giorno un prodotto di 30-60 pagine di carta nelle case dove gli italiani vivono blindati.

 

 

Fin qui gli estratti dal pezzo di Bardazzi, ora andiamo con Marco Dal Pozzo a dare un’occhiata ai commenti all’articolo, quelli che a nostro avviso, aggiungono sostanza e notizie, alla già densa  narrazione:

 

 

Osservazioni  di Marco Dal Pozzo al  commento di Enrico Mentana:

 

 

Io sono il primo a dire che il giornalista deve essere il “sacerdote della notizia” (l’avevo coniata a digit15, nel panel con la sociologa dell’Università di Perugia Rita Marchetti); d’altra parte, nel senso della cultura, se non altro quella italiana (partita dal bar e finita su Facebook), non si può trascurare il pubblico.

Perché alla fine tutte queste considerazioni, oltre a non mettere bene a fuoco la “funzione d’uso” del giornalismo, che noi sosteniamo appassionatamente con i nostri studi,  non mettono nemmeno a fuoco il motivo per cui il giornalismo esiste.

 

Il sociologo della complessità Piero Dominici, parlava recentemente di debolezza del concetto di Capitale Sociale. Continuo a credere, però, che il Capitale Sociale sia un buon misuratore della qualità del lavoro del giornalista. Soprattutto se si è d’accordo sul fatto che il lavoro giornalistico è tanto più efficace quanto più richiama attivamente il pubblico, in quel processo di attribuzione di senso alle notizie (e, se penso ai tempi che viviamo oggi, quasi persi nei grafici dei contagi di questo maledetto virus, ai dati) che crea relazioni. Che è un po’ il pensiero che sta dietro al mio lavoro di ricerca che ha portato alla scrittura del libro 1news2cents.

 

 

Alle considerazioni di Marco Dal Pozzo ci piacerebbe aggiungere alcuni estratti da una “lettera aperta indirizzata proprio al direttore del tg di La7, da un giornalista che da sempre ispira e ha ispirato noi tutti, nello studio del cambiamento rivoluzionario in atto nel giornalismo e nell’approfondimento culturale che la transizione al digitale sta provocando: Mario Tedeschini Lalli.

Dal testo del settembre del 2018, estraiamo solo alcuni passaggi, a nostro avviso davvero in linea, sebbene siano passati altri due anni quasi, con le cose che proviamo a dire, tutti insieme qui e ora, a partire dal pezzo di Marco Bardazzi:

 

 

Si tratta di accettare proprio una nuova cultura, perché il digitale non è solo un modo diverso, magari più veloce ed efficiente, di fare le cose che abbiamo sempre fatto, non è un insieme di strumenti da imparare, ma una logica diversa. Tanto più che nessuno di noi ha in tasca LA soluzione della crisi strutturale del giornalismo, chiunque affermi di sapere o di saper immaginare quale forma il giornalismo professionale assumerà nei prossimi dieci anni è destinato ad essere smentito. L’universo digitale è ancora in radicale trasformazione e occorre quindi distinguere le tendenze e le caratteristiche generali dei fenomeni dalle soluzioni contingenti. Ne segue un secondo consiglio di carattere generale: non progettare un giornale “online”, progetta un giornale digitale aperto a ogni canale disponibile, anche se ora pensi di necessità al web (v. oltre).

Le aziende editoriali e le redazioni giornalistiche sono spesso vittime di un equivoco di prospettiva: pensano se stesse come produttrici e venditrici di “contenuti”. In realtà da sempre le aziende editoriali d’informazione hanno fatto anche molte altre cose (ad esempio “vendere lettori” agli inserzionisti). Più in generale, ciò che abbiamo finora venduto è stata l’opportunità di creare “relazioni”: la possibilità per un candidato sindaco di farsi conoscere, la possibilità per una vecchietta di denunciare al sindaco una buca davanti a casa, la possibilità di un ammalato di trovare la farmacia aperta il sabato notte, la possibilità per le aziende di segnalare ai possibili acquirenti i loro prodotti, ecc. ecc. I contenuti (redazionali, di servizio o pubblicitari) erano e sono i mezzi che abilitano le relazioni. Il modello di affari e l’organizzazione del lavoro dovranno rispettare questa consapevolezza

Essere culturalmente “digitali” vuol dire comprendere e fare i conti fino in fondo con la rivoluzione che il digitale ha operato: la fine della rendita di posizione tecnologica, creata dalla relativa scarsità delle piattaforme di comunicazione nel mondo analogico: se il cittadino per entrare in contatto col sindaco non ha più necessariamente bisogno di noi, se il candidato per farsi conoscere non ha più necessariamente bisogno di noi, se un ammalato per scoprire la farmacia di turno non ha più bisogno di noi, se l’azienda per far conoscere il proprio prodotto non ha necessariamente bisogno di noi, dobbiamo dar loro una ragione per usarci, dobbiamo diventare per loro “essenziali” anche se non siamo più “inevitabili”.

Ciò implica, fra l’altro, passare da una mentalità e da una prassi di comunicazione da uno a molti (“broadcast”), a una di “condivisione/collaborazione”, da giornalisti che parlano alle comunità, a giornalisti che parlano nelle comunità. Le comunità, i singoli cittadini dovranno avvertire che hanno un interesse alla esistenza e alla sopravvivenza della testata, un interesse contingente — perché viene incontro a bisogni specifici — e un interesse di lungo periodo.Questo interesse è il valore della testata, sia in termini giornalistici (influenza sociale) che in termini di affari (acquisto, membership).

Un giornale “digitale dentro” non è un giornale che esce sul web, è un giornale che fa i conti fino in fondo con la sua marginalità strutturale nel sistema delle relazioni umane nell’era digitale e offre ai cittadini motivi sufficienti per utilizzarlo e per sostenerlo, per ciò che propone (contenuti) e per il modo con il quale lavora (metodo).

 

 

“Massima trasparenza possibile” non vuol dire, naturalmente, che non possano esistere fonti riservate, ma che in via normale il giornalista rivela al cittadino come è venuto a sapere ciò che è venuto a sapere, come ha verificato l’informazione che ha ricevuto, non riferisce informazioni delle quali non è certo e se non conosce una informazione dichiara la sua ignoranza. Fornisce cioè tutti gli elementi possibili perché il cittadino interessato possa “risalire l’albero delle informazioni”.

 Massima trasparenza possibile vuol dire offrire al cittadino i materiali di base utilizzati per il servizio/inchiesta: basi di dati, documenti e interviste integrali, ecc., dai quali ha tratto le citazioni e gli esempi contenuti nel pezzo.

 Massima trasparenza possibile vuol dire fornire sempre le ragioni delle proprie scelte.

 Massima trasparenza possibile vuol dire correggere apertamente gli errori di fatto, inserendo per esempio una nota redazionale nella stessa pagina che indichi l’errore precedentemente commesso.

 Massima trasparenza possibile vuol dire stabilire alcune linee guida e criteri sull’uso delle fonti, sulla loro citazione, sui virgolettati, sulle interviste, sulle correzioni, sui rapporti tra redazione e cittadini, sui doveri dei giornalisti, ecc. (No, le “carte deontologiche” non bastano).

 Massima trasparenza possibile vuol dire rendere pubbliche queste linee guida e metterle a fondamento di un patto di co-interessenza con i cittadini/utenti.

Suggerimento pratico: cominciate ad applicare tutto questo nei servizi di Cronaca. Non sarà facile, ma se riuscite in quel campo sarà più agevole applicarlo anche in settori più “passionali” come la Sport e la Politica. 

 

 

In calce all’articolo di Marco Bardazzi ci sono parecchi commenti, alcuni dei quali a nostro avviso, segnalano cose, e ci danno la possibilità di ribadire alcuni concetti. Ne estraiamo dunque alcuni, a  cui Marco Dal Pozzo prova a rispondere per sottolineare i concetti espressi,  o ribadire le  nostre convinzioni sui temi esposti:

 

 

Eduardo Tessler

 

 

“La vitima piu carina del corona per noi, giornalisti, è senz’altro il giornale di carta. Pero qui vorrei pensare un pó piu lontano…”

 

 

Ma siamo sicuri di questo? Non è che adesso scopriremo che i giornali di carta hanno venduto di più durante tutta questa crisi? Che poi ci sarebbe comunque da capire in che condizione hanno lavorato, durante la crisi.

 

 

Alfredo Faieta

 

 

“Un giornalismo di qualità non adeguata. Ecco, per me il problema è che siamo entrati nell’era del giornalismo inadeguato a leggere, elaborare e fornire  informazioni,  che siano utili alla società. Solo il decisore politico può trovare il modo di risolvere il problema, che è diventato di economia pubblica e non più di mercato. Se, ovviamente, l’informazione è un bene pubblico al pari della rete telefonica o di quella dov’è scorre il gas.”

 

 

In questi giorni di reclusione quello che più circola nella bacheche, almeno quelle della mia bolla su Facebook, sono grafici e numeri. A me viene in mente che quella dei numeri potrebbe essere la forma adeguata di narrazione al momento che stiamo vivendo. Numeri, dati, quindi…con una opportuna forma comunicativa e il necessario contributo di senso (perché, si sa, i dati non parlano mai da soli).

 

 

Arnoldo Ferrario Lanciano

 

 

“Speriamo solo che con i vari Corsera, Repubblica, La Stampa e altre blasonate testate, non ci si debba trovare come con Alitalia: miliardi di euro dei cittadini dati in pasto a strutture elefantiache utili solo a se stesse e alla tutela di anacronistici privilegi, come magistralmente descritte dal Direttore Mentana.”

 

 

Io, più che aver paura del finanziamento pubblico, lo auspicherei! Il finanziamento pubblico è la garanzia del pluralismo e del totale disinteresse commerciale che si deve alla causa comune.

 

 

Marisa Ingrosso

 

 

“Fino a ieri, nell’era pre-Covid, sempre più italiani pensavano non servisse pagare contenuti:  “perché tanto, trovo tutto su Facebook”. Oggi forse hanno capito. Chissà, forse il museo può attendere. Un altro po’.”

 

 

Questa è una osservazione interessante secondo me. Che ricollego ad una mia considerazione precedente sul giornalismo dei dati e sulla necessità di una o più  interpretazione degli stessi.

 

 

Carlo Monguzzi

 

 

“I lettori di giornali stanno diminuendo. La carta in tutti i settori è destinata a ridursi. Le informazioni ci arrivano da ben altre fonti, immediate e soprattutto che dilettano i sensi più “semplici” e più facili da raggiungere, la vista e l’udito. Leggere è in qualche modo una sorta di studio, per poi comprendere e infine approfondire. Costa fatica e tempo. “

 

 

Tanti anni fa Pier Luca Santoro parlava della Gamification dell’Informazione. Devo dire che predicava nel deserto, ma forse qualcosa si sarebbe dovuto fare. Io credo anche ad un giornalismo di teatro, di canto e di arte. A noi il professor Mario Rasetti ce l’ha detto un anno e mezzo fa durante un digit: i sacerdoti delle notizie sono anche gli artisti. Immaginiamo una rappresentazione artistica dei dati, in un quadro, con un audio, con una performance teatrale…ecco. Credo si debba e possa arrivare anche a questo nel giornalismo.

 

 

Francesco Gavatorta

 

 

“Mi concentro sul tema della transmedialità, che apre a delle questioni concettuali: quanto i giornali, e soprattutto i giornalisti, sono pronti a diventare operatori di piattaforme mediali complesse dove vengono impiegati linguaggi diversi? Perché ad esempio narrazione transmediale non significa solo distribuire i propri contenuti su canali diversi, ma significa costruire mondi narrativi a volte con anime distinte al proprio interno. Se volessimo parlare di giornalismo transmediale dovremmo forse ispirarci a quelle medesime tecniche ed esperienze.”

 

 

Antonio Barone

 

 

Dovrebbe far riflettere anche i media televisivi che fra 5 anni rischiano di trovarsi nella stessa condizione in cui sono oggi i giornali se non evolvono adattandosi alla velocità delle connessioni delle nuove tecnologie 5g su tutti.

 

 

Il passaggio epocale alla tecnologia di trasmissione dei dati di quinta generazione (detto 5g), indubbiamente ci mette di fronte all’ennesimo strappo. All’ennesima accelerazione massiccia – non dovuta alle tecniche di trasmissione – ma al massiccio ingresso nell’agone della comunicazione dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico da parte delle macchine stesse. Nell’internet delle cose, dove gli oggetti parlano fra loro, e autoapprendono dai nostri comportamenti e dai comportamenti degli altri oggetti “intelligenti”, la supremazia umana, rischia molto,  se non saremo adeguatamente parati alla bisogna. In tutto questo il ruolo della funzione giornalistica è ancora una volta centrale.

 

 

Alberto Magnani

 

 

“Ergo, i vari modelli di business innovativi devono comunque tenere conto di un bacino già ristretto e ora, in alcuni ambiti, incalzati dalla concorrenza della stessa stampa internazionale: ci sono lettori italiani che preferiscono documentarsi sui media internazionali per tutta una serie di filoni e, dovendo scegliere, indirizzano lì il proprio investimento per abbonamenti etc. “

 

 

Mah, che dire. Credo che il metro non debba essere quello della quantità, ma quello della qualità. Come si paga? Con un giusto mix di finanziamento pubblico e di quote pagate dai singoli utenti!

 

 

Rosaria Talarico

 

 

“L’esempio del New York times che ha fatto una scelta 15 anni fa e non l’altro ieri, purtroppo in Italia è molto citato e poco applicato. Invece di assumere nuove leve del giornalismo ne è stata fatta strage. Hanno tagliato qualsiasi risorsa destinata al giornalismo investigativo indipendente, ignorato la potenza di dati e altre professioni complementari a quella del giornalista: i giornali sono fatti da vecchi, per vecchi. Mi dispiace che in mezzo a questi ci siano menti e professionisti di grande acutezza ed esperienza che però non raggiungono più un grande pubblico. A ciò si aggiunga un indebolimento sul fronte deontologico che è il vero argine rispetto a influencer e spacciatori vari di pubblicità mascherata da informazione. Ma la qualità non puoi pagarla 5 euro a pezzo.”

 

 

Francesco Caremani

 

 

“in questo Paese se io creo una srl con altri soci per editare un giornale online decidendo di prendere gli utili, se e quando ci saranno, sono costretto a pagare un fisso annuale all’Inps (circa 4.000 euro), anche in assenza di utili. Mi domando, ma quando qualcuno ha messo una cosa del genere nero su bianco l’Inpgi dov’era?”

 

 

Stefano Ponari

 

 

“Perché non fare in modo di poter acquistare il singolo elemento che in quel preciso momento l’utente percepisce come di valore? E cioè il singolo articolo? Perché se voglio leggere quel singolo articolo non posso comprarlo se non sottoscrivendo abbonamenti a contenuti che non mi interessano e di cui non usufruirò mai?”

 

 

Risposta Marco Bardazzi

 

 

“Comprare un singolo articolo richiede meccanismi simili a quelli sviluppati per la musica, tipo iTunes. Il problema è che un articolo lo consumi in un attimo e non lo leggi più, mentre “Yesterday” la scarichi una volta e ti fa compagnia per sempre. Mi convince di più, anche per i giornali, un modello buffet, “all you can eat” a 10 euro al mese (o meno), stile Spotify o Netflix. Ma prima serve un grande sforzo anche educativo, specie con i giovani, per convincere che l’informazione ha un valore. E un costo”

 

“Un buon punto di partenza per una svolta vera, secondo me, sarebbe cominciare a concentrarci davvero sui contenuti e non sui contenitori. Per quello che ho visto negli ultimi 10 anni, è stata la difesa dei contenitori a fregarci. Mentre invece sui contenuti, come italiani, potremmo dare lezioni al mondo”

 

 

Massimo Barsotti

 

 

Convivenza carta e digitale: la carta può essere la naturale sede di approfondimento del digitale.

 

 

Risposta Marco Bardazzi

 

 

Il problema che vedo è che le strategie per far sopravvivere la carta in un ecosistema nuovo, basato sul digitale, andavano fatte nel 2010, nel 2012, al massimo nel 2015. Temo che nel 2020, con l’asteroide-coronavirus che ci è caduto in testa, sia ormai troppo tardi: i prossimi mesi saranno devastanti e faranno venire tutti i nodi al pettine.

 

 

Giovanni Mancini

 

 

“Caro Marco, col Coronavirus e la scelta di tenere aperte le edicole, le vendite di quotidiani, settimanali e di conseguenza altre pubblicazioni sullo scaffale delle edicole sono salite, cresciute a Marzo. Queste informazioni arrivano direttamente da un distributore nazionale: Sodip “

 

 

Per le edicole, quindi, vale il ragionamento che abbiamo fatto due pezzi fa a proposito dei negozi al dettaglio che rientrano nell’elenco delle categorie ATECO che rimangono aperte durante questo lock down.

 

 

Inutile dire che ogni tipo di ragionamento sul giornalismo e sul futuro del giornalismo, ci vede e ci vedrà sempre convinti partecipanti. Dall’inizio della nostra storia, qui a bottega,  proviamo a tracciare scenari plausibili mentre studiamo “ventre a terra”, il susseguirsi, talvolta sin troppo rapido, di cambiamenti e novità nell’ambito della filiera industriale dell’informazione. Non ci piace ripeterci ma non possiamo fare a meno di sottolineare quante cose, e molto importanti, sul tema, siano emerse nel corso dei recenti  Stati Generali dell’Informazione, convocati dal Governo Giallo/Verde e gestiti dall’allora sotto segretario Crimi assieme al capo del dipartimento per l’editoria Sepe. Su tutte le voci, e fra tutti i temi, emersi durante quelle lunghe consultazioni pubbliche, i punti centrali a nostro avviso da sottolineare e sui quali concentrarsi, anche alla luce dell’articolo di Marco Bardazzi e dei relativi commenti, sono: il sistema dei contributi Pubblici ( e la conseguente gestione delle incentivazioni pubbliche verso l’utenza per riportare pubblico pagante dentro la filiera industriale della produzione di informazione professionale ). E l’economia delle piattaforme. Come fare dentro a questo modello economico – unico e insostituibile al momento – di cui siamo succubi e che viene totalmente controllato da aziende terze – e non editoriali almeno sulla carta – le OTT;  a inserire dignitosamente sia in termini di controllo dei contenuti prodotti, sia in termini di gestione degli introiti che la produzione e la distribuzione di tali contenuti genera –  o meglio dovrebbe generare –  la filiera industriale che li produce. Tutto questo ragionamento non ha ragione d’essere però se non si comprende che il giornalismo serve e servirà – l’industria dell’informazione molto meno se non ne diviene conscia paladina – solo se continuerà a difendere il diritto di ciascuno ad informarsi in modo libero e completo. Dobbiamo comprendere che quella che va difesa è la funzione giornalistica, non i giornalisti e le imprese editoriali.  Quando sarà chiaro a tutti che la differenza non è fra notizie commodity, perlopiù gratuite, e notizie a pagamento. Ma fra informazioni di ogni tipo, modo e maniera,  e funzione giornalistica, cioè garanzia professionale e deontologica di formarsi liberamente un’opinione avendo a disposizione tutte le notizie da tutte le possibili fonti. Le notizie gratis e a disposizione di tutti, non sono tutte le notizie a nostra disposizione, non sono soprattutto le notizie che cerchiamo e scegliamo di vedere, anche se ci piacerebbe molto aggrapparci a questa visione, purtroppo parecchio miope. Nella società delle piattaforme, quello che circola, è quello che loro, le OTT,  – senza dietrologie o complotti – ma solo in ossequio al proprio ferreo e profittevole modello di business, ci fanno vedere. La funzione giornalistica da preservare e garantire è in grado invece di superare questi schemi e di assicurare a tutti di trovare quello che si cerca, o meglio di avere a disposizione tutto quello che siamo in grado di trovare per formarci liberamente un’opinione. E poi non dimentichiamoci la bellissima lezione di giornalismo che sta circolando da alcuni mesi on e off line: bisogna andare dove sono le persone. Pensiamo alla biblioteca di New York, pensiamo al gioco dei giochi Fortnite e ai giornalisti di prestigiose testate che fanno i corrispondenti da dentro il gioco; pensiamo alla biblioteca contro ogni tipo di censura messa in piedi da Reporter Sans Frontieres – e consultatissima –  dentro un altro dei giochi più graditi dalle persone: Minecraft.