Essere o non essere, digitali, oggi

C’è questa indagine molto interessante della McKingsey commentata da Vincenzo Cosenza sul suo blog che riguarda gli usi e i costumi delle persone durante la quarantena in casa,   per arginare il diffondersi dell’epidemia. L’analisi riguarda proprio le attività svolte online dagli italiani durante questo periodo di cattività. In qualche modo, e fra le altre cose, il documento rileva,  secondo noi, anche il nostro essere stati catapultati “volenti o nolenti” dentro un universo quasi esclusivamente digitale, nel quale, molti di noi, hanno dovuto – per ovvi motivi – inventarsi un lavoro, o meglio, un modo per proseguire ad essere efficienti, “agili”, per dirla con i termini giusti, rispetto alla propria normale attività professionale. Gli studenti, quei nativi digitali,  erroneamente considerati esperti di questo mondo virtuale, hanno dovuto imparare – quasi tutti da zero e insieme ai propri insegnanti –  un modo “smart”, di fare scuola a distanza, per non parlare di tutti gli altri mondi e modi di “fare ed essere”, che abbiamo dovuto re-imparare a gestire dentro le nostre casette, e attraverso i nostri device: telefoni, tablet o computer; rigorosamente da remoto. L’essere connessi, quello che ci piaceva fare e che ci assorbiva tanto, forse,  troppo tempo prima dell’epidemia –  al punto da mettere in allarme i neurologi –  causando stati di dissociazione dal mondo reale  e intossicazione da mondi virtuali; è diventata la nostra unica forma di vita plausibile e realizzabile, e improvvisamente,   ci siamo trovati a fare i conti con la nostra effettiva capacità di “essere solo e soltanto digitali”. E abbiamo anche tristemente dovuto fare i conti con il livello,  quasi sempre non adeguato,  di risposta del mondo – ogni cosa del mondo –  a questo nostro stato forzato. Un mondo che non ci assiste digitalmente, che non ci fornisce servizi accettabili, che non comprendiamo per davvero, per il quale non abbiamo le necessarie competenze, che non ci soddisfa quasi mai del tutto,  e al quale forse – e nonostante l’obbligo attuale –  non abbiamo davvero accesso Secondo i risultati dell’indagine realizzata dall’agenzia di marketing internazionale e che riguarda in tutto 28  nazioni diverse, gli italiani costretti a stare a casa,  hanno svolto principalmente quattro diverse attività in ordine di apparizione: hanno fatto lezioni/corsi/seminari, hanno lavorato “agilmente”, hanno svolto attività fisica,  e hanno ordinato e si sono fatti consegnare cibo a casa. Al di là dell’analisi puntuale e “orientata” svolta dagli esperti dell’agenzia di marketing e dal nostro amico e relatore di una delle passate edizioni di digit: Vincenzo Cosenza; noi vorremmo soffermarci a considerare il livello di “digitalizzazione” nostro e del mondo che ci circonda, divenuto improvvisamente a senso unico.

 

 

Estraiamo a questo punto con l’involontaria complicità di un nostro amico e compagno di social, che poi citeremo in modo esteso più avanti,  un articolo di giornale che qualche giorno, forse mese, anzi anno fa, raccontava l’evoluzione del mondo in chiave telematica:

 

 

“Telematica: presto avremo in casa uno o più oggetti che le conoscenze e la tecnologia di oggi ci consentono appena di immaginare. La componente base sarà un video a colori sul quale riceveremo dati, notizie, immagini televisive, disegni; per trasmettere le nostre comunicazioni avremo una tastiera, appena più complicata di quella di una macchina per scrivere, o qualcosa che somiglia a un cruscotto di automobile o, addirittura, niente.

Useremo la voce, e il computer, nascosto dietro il video, invierà quello che desideriamo, a chi vogliamo.

Perché la telematica? Dopotutto abbiamo già il televisore per vedere quello che succede nel mondo (anche sulla Luna o su Marte); il servizio postale per comunicare con tutti: il telefono per parlare con chi vogliamo, in qualunque parte del mondo ci sia un altro telefono (le statistiche ci insegnano che ne sono installati più di cinquecento milioni).

Il terminale telematico non solo ci darà qualche brivido tecnologico in più ma offrirà prestazioni e qualità di servizio migliori. Soprattutto, ci permetterà di stare in linea con il progresso della tecnologia creando e rispondendo — contemporaneamente — alla domanda di nuove applicazioni. Settant’anni fa la diffusione dei telefoni a disco combinatore che permettevano di chiamare direttamente l’altro utente, ha cancellato la mediazione della centralinista, tanto conosciuta da diventare una di famiglia, ma tanto impersonale da essere chiamata «Pronto Centralino», come se fossero nome e cognome.

Poi si sono abituati tutti. Sarà lo stesso quest’anno quando, invece del solito telefono (i tecnici lo chiamano «unificato T 62»), la Sip ci porterà a casa il Pulsar, tutto elettronico e con i tasti al posto del disco con i dieci buchi. Non cambierà nulla anche più avanti, forse negli anni Novanta, con il videoterminale con telefono, tastiera, stampante e altri marchingegni. Non sarà una rivoluzione, niente noiosissimi Grandi Fratelli, nessuno shock del futuro: la preoccupazione maggiore diventerà come armonizzare quell’oggetto nell’arredamento.

Sarà lo stesso fenomeno di scivolamento verso l’indifferenza che c’è stato verso il televisore: trentanni fa troneggiava al centro del salotto buono, adesso lo si porta anche al polso, con totale non chalance.

Sarà invece cambiato tutto quello che c’è dietro la punta dell’Iceberg, cioè, il telefono terminale, perché le reti di telecomunicazioni, diventate digitali, avvolgeranno tutto in una fitta serie di interconnessioni di satelliti, cavi in fibra ottica, centrali telefoniche, ponti radio.

Attraverso queste reti passeranno la voce, i dati, le immagini TV. i disegni, in tutte e due le direzioni, trasformando le case in centri di produzione e smistamento dell’informazione. I tecnici stanno già collaudando i prototipi di queste reti […]

La telematica, infatti, conviene soprattutto per l’automazione del lavoro d’ufficio e crescerà assieme al diffondersi del trattamento dell’informazione come attività preponderante nelle ore di lavoro giornaliere. Oggi, in Italia, sono circa 120.000 gli addetti all’industria dell’informatica e della telematica e si possono stimare in due milioni e mezzo quelli che lavorano con l’informazione (segretarie, giornalisti, dattilografe, manager, archivisti, ricercatori, eccetera): questi ultimi potrebbero diventare quattro milioni nel 1990, comprendendo nella cifra sia la nuova occupazione sia la riconversione di attività già esistenti.

Per esempio, la segretaria lascerà la macchina per scrivere per una workstation dotata di memoria e di capacità di trattamento testi; il progettista lavorerà davanti al video: l’operaio diventerà un programmatore di macchine operatrici a controllo computerizzato. Come si vede. la telematica è qui, in ufficio, e in genere, sul posto di lavoro. In casa ci arriverà molto più tardi e dovrà essere sperimentata con umiltà, spirito aperto e innovativo e tanti investimenti”.

 

 

Correva l’anno 1984 –  avete letto bene – una quarantina di anni fa, più o meno, e su una rivista chiamata Futura,  usciva questo pezzo a firma Aldo Zana intitolato “Telematica telefonica”

 

 

 

Che dire? Forse qualcosa non ha funzionato nel verso giusto, visto come è andata e sta andando in alcuni settori, la nostra digitalizzazione forzata dall’epidemia. Prendiamo ad esempio il mondo della formazione e soffermiamoci in particolare sulla scuola, la parte forse più in debito d’ossigeno rispetto al ricorso forzato agli strumenti digitali imposto dal periodo in corso. Cosa sta succedendo ai nostri figli/nipoti/ragazzi costretti a stare a casa, come tutti, e divenuti improvvisamente assieme ai propri insegnanti, utenti all digital? Siamo davvero sicuri che la formazione a distanza compensi quella in presenza, da sempre l’unica possibile prevista dal nostro ordinamento? Fare lezione su skype come se fossimo dentro ad una classe fisica, parlando per ore ad una platea virtuale di studenti in collegamento audio-video, significa fare formazione a distanza? Si, no, forse, ma soprattutto, siamo pronti a questo passaggio obbligatorio? O  più probabilmente stiamo facendo buon viso a cattivo gioco? Le necessità contingenti vincono, non c’è dubbio, ma non sarebbe forse il caso di usare l’emergenza per resettare il sistema e riavviarlo dotandolo di percorsi di comprensione, condivisione e acquisizione di conoscenza prima di tutto per gli insegnanti, e subito dopo per gli studenti, e poi ancora,   per insegnati e studenti assieme, riservati alla cultura digitale?  Tutti i soldi spesi per le lavagne elettroniche multimediali – si chiamano in un altro modo, ma confidiamo si capisca lo stesso –  dove sono finiti? Come mai tali lavagne giacciono in scantinati bui e polverosi, e non  vengono usate? Quando un ministro dello Stato in diretta tv chiede scusa agli italiani per non aver sistemato una particolare questione del suo ministero a causa della mancata digitalizzazione delle pratiche cartacee di tale segmento; che cosa significa, che forse non siamo stati abbastanza “agili” in quel frangente? Pensiamo alla crisi in atto e al comportamento differente, a proposito ad esempio,  della raccolta dei dati sull’andamento dell’epidemia, di ogni singola regione, del Governo, degli istituti di ricerca, degli ospedali…. e potremo andare avanti a lungo. Cosa ne deduciamo? Se la questione dei dati – vedere a questo proposito la lunga e ancora non risolta questione mondiale sul tracciamento proprio dei dati della diffusione del contagio –  è un problema di dimensione planetaria. E se tale problema – al di là delle questioni etiche e di libertà personale – viene a sbattere con forza contro tutti noi quando si tratta di preservare la salute, la vita di ciascuno. Come vogliamo considerare tale questione, come un mero problema di numeri e quantità di dati da gestire o come un fattore di crescita, di civiltà, di cultura,  per ognuno di noi?

 

 

Ai posters – come direbbe Baglioni – l’ardua sentenza (si scherza), intanto ci teniamo quello che abbiamo e proviamo ad andare avanti.  Proviamo,  per fare un piccolo esempio,  a pensare l’insegnamento scolastico davvero dentro ad un mondo digitale (il nostro) e non a quello di Google o Amazon o Facebook. La distinzione non è provocatoria e neanche inutile. La vorremmo sottolineare perché occupa una parte importante di tutto il ragionamento a nostro avviso. Prendere coscienza e acquisire la corretta conoscenza della cultura digitale,  significa comprendere come si pensa, si agisce, ci si comporta, e mille altre cose e modi di fare, dentro un mondo nuovo. Non significa accettare pedissequamente un modello mondo generato, costruito e imposto da alcune multinazionali della tecnologia, dette anche techno corporation. Aziende che poi sono diventate molto più di questo. Aziende  definite meta-nazioni digitali. Fabbriche mondo. Posti dove vigono leggi e comportamenti a se stanti. E se pensaste che esageriamo, vorremmo suggerire alcuni argomenti sui quali il mondo si interroga e che sono stati mutuati da un modello di comportamento nato proprio dentro queste aziende, come ad esempio: il diritto all’oblio, il riconoscimento facciale, il copyright. Si dirà che queste tematiche esistevano e venivano dibattute anche prima dell’avvento delle techno corporation. Ed è verissimo. Solo che viste attraverso il filtro delle meta nazioni digitali,  quelle tre argomentazioni diventano una cosa diversa. Pensateci. Prendiamo la legge sul diritto di autore. Dopo l’approvazione delle legge europea che include tutti i contenuti online dentro a questa normativa,  a chi è andato il compito di verifica delle eventuali violazioni? Chi si occuperà della distribuzione materiale dei proventi dall’utilizzo di materiali protetti dal diritto di autore? Come è possibile che una legge transnazionale dia poteri di questo tipo ad una singola azienda?

 

 

Vi suggeriscono qualcosa questi due titoli?

In Francia Google bypasserà la legge europea sul copyright: 26 settembre 2019

Francia: Google dovrà pagare gli editori, lo stabilisce il Garante per la concorrenza: 9 aprile 2020

 

Vogliamo parlare del cosiddetto: diritto all’oblio? Ovviamente è corretto dire che la questione non nasce con le OTT o semplicemente con l’avvento della rete, però, come accade per la normativa sul diritto d’autore, andate a vedere cosa sta avvenendo nel mondo rispetto a questo tipo di problematica. Quale tipo di effetto pratico generano le richieste degli utenti che ritengono di essere stati danneggiati da articoli e post in rete. E a chi  arrivano le richieste di variazione, rettifica, ma soprattutto cancellazione dell’indirizzo di rete: del link, in cui si trova l’articolo o il post, incriminato? E’ il motore di ricerca più diffuso nel mondo che detiene il potere assoluto su questa normativa, in barba a qualunque legge nazionale o addirittura sovra-nazionale. Solo Google e solo le decisioni dei dirigenti della meta nazione digitale cui Google appartiene, possono realmente fare la differenza sul tema. Ma non perché siano loro i decisori ultimi, intendiamoci, a decidere c’è sempre un giudice e una sentenza di un tribunale. Il fatto è che giudice e sentenza non si rivolgono alla comunità della rete per far applicare la loro decisione, bensì ai suddetti dirigenti e a nessun altro. Anche perché purtroppo non esiste alcuna “comunità della rete”. Per dirla in altri termini e suggerire un altro reato molto in voga proprio fra gli Over The Top ci troviamo di fronte ad una “posizione dominante”, talmente  preminente, che sfiora – quando viene esercitata –  “l’abuso”, come sottolineato più e più volte da numerose e diverse autorità di vario tipo in Italia e nel mondo nel corso degli ultimi anni.

 

 

Essere un’azienda online di successo non è certo un crimine, anzi le Internet companies hanno tutto il diritto di perseguire il successo, ma guai ad abusare della propria posizione dominante sul mercato: il monito arriva dal commissario europeo alla concorrenza Joaquin Almunia, che ha commentato una serie di casi di alto profilo finiti nel mirino dell’antitrust.

“Essere in una posizione dominante o anche un gatekeeper non rappresenta di per sè un abuso; abusare di queste posizioni invece è sbagliato”, ha affermato Almunia in una lezione sulla concorrenza nel mondo online tenuta alla London School of Economics. “E’ solo l’abuso, non la creazione di una posizione dominante, che è vietato dalle leggi sulla concorrenza dell’Unione europea“.

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Nello stesso modo e seguendo lo stesso ragionamento, anche il riconoscimento facciale non è certamente un’invenzione di Facebook. Però è il social di Menlo Park che avendolo inserito dentro al proprio contratto con gli utenti,  lo ha reso una condizione globale e permanente per il mondo intero. O meglio per i quasi due miliardi di persone iscritte al social. Capite bene che può essere invadente e non propriamente democratico essere spiati dalle telecamere poste nei punti sensibili della nostra città o degli aeroporti, o delle banche. Ma diventa decisamente più complessa la questione se a spiarci sono tutte le telecamere del pianeta o quasi.

Dunque proviamo a stare dentro ad un modello mondo non viziato da “posizioni dominanti”. E proviamo a compilare una lista di cose da fare ad esempio nella formazione scolastica a distanza, senza assilli, senza dipendenze e strane schiavitù tecnologiche, senza accelerazioni forzate e forzose, ma anche senza rifiuti a priori e distinguo antistorici;  provando a collocare la parabola dell’apprendimento dentro al nostro mondo che è stato arricchito – come testimonia l’articolo del 1984 –  dalla componente digitale ben più di trent’anni or sono.  Per farlo però ci avvaliamo di un passaggio che estraiamo da un articolo messo online da un amico  insegnante  che è anche un esperto di tecniche e mondi digitali che si chiama Fabrizio Venerandi (un editore,  un poeta e uno scrittore e dalla cui bacheca abbiamo estratto anche l’articolo sulla telematica, e che ringraziamo davvero tanto.  )

 

 

…Io non sono davvero completamente soddisfatto della qualità dei materiali che sto creando per i ragazzi. Se dovessi fare un corso a distanza per le mie materie, dovrei lavorare qualche mese per preparare una serie di video lezioni di 10-15 minuti a cui associare delle ricerche/gioco on line e studio su materiali didattici pensati per il digitale, forum di interazione tra utenti, esercizi di lavoro pensati per la rete, lavori su piattaforme di gamification e tante cose ancora.

Altro che Google Classroom.

Ora, questo lavoro a monte non è stato fatto, da me, dalla scuola, dagli studenti. Non ho studenti con attrezzatura hardware software decente, non ho materiali pronti. Le mie videolezioni sono troppo “frontali”, ma non posso fermare tutto per tre/quattro settimane per prepararle come andrebbero fatte allo stato dell’arte. Ci sono errori nei tempi, alcune uso un lessico che – rivedendole – cambierei, dovrei editare, rigirare, montare.

Ma farlo ora, in questa situazione, non sarebbe buona docenza, ma esibizionismo. Quello che sto facendo è il meglio possibile in una situazione di emergenza.

Con questo non voglio dire che la didattica a distanza non funzioni, ma l’opposto: la didattica digitale è stata tirata fuori oggi in maniera improvvisa e senza una preparazione di docenti, genitori e studenti.

Se le scuole avessero già implementato strumenti di didattica digitale e le utilizzassero normalmente “a regime” durante l’anno scolastico, oggi questa sarebbe un’emergenza gestita con molti molti meno problemi.

 

 

La questione culturale, e non solo quella, viene spiegata molto bene, anche da Massimo Mantellini – un altro illustre relatore di digit, proprio nella prima edizione della nostra manifestazione – in un suo recente articolo pubblicato su Internazionale e dal quale estraiamo un breve passaggio, molto significativo a nostro avviso:

 

 

La digital literacy, parola inglese di difficile traduzione in italiano, è un processo culturale, non una pratica manuale. È la comprensione di una grammatica, non l’abilità mnemonica nell’utilizzo di uno strumento. Ed è qualcosa che va imparato e quindi, possibilmente, insegnato. Così per molti anni nella scuola interessata dall’inevitabile trasformazione digitale (Wikipedia, il copia incolla, le bufale, le fonti alternative) si sono fronteggiate due categorie di soggetti entrambi in balìa del divario digitale: molti insegnanti da una parte, moltissimi studenti dall’altra, in una sorta di calco esatto della società italiana. Entrambe queste categorie stanno facendo in questi giorni del loro meglio per galleggiare in questo nuovo mare impetuoso e inedito della didattica solo online. 

 

 

Essere digitali oggi, dunque, è certamente una necessità irrinunciabile: Un obbligo che, purtroppo,  non siamo in grado di realizzare. La colpa di tutto questo potrà anche essere attribuita al cosiddetto “divario digitale”. Ma tale differenza di base non sta dentro le dorsali di collegamento, a nostro avviso, e  non si colloca nemmeno nell’avere accesso alle tecnologie o alle macchine più costose e sofisticate. Senza segnale, senza linea telefonica, difficilmente potremmo essere connessi alla rete, ma non sono le cosiddette autostrade telematiche il vero problema. Almeno non soltanto. Inutile poter saltare tutti su una Ferrari senza avere la patente. Meglio una piccola utilitaria affidabile e accessibile a chiunque. Un veicolo che non solo sia in grado di poterci portare ovunque nel mondo in sicurezza e tranquillità, ma che ognuno di noi sia in grado di smontare e rimontare a occhi chiusi, di modificare, di aggiustare quando si rompe, di verniciare e personalizzare. Un oggetto davvero nostro e non di proprietà di chissà chi, che ci concede di usarlo –  e nemmeno del tutto – e solo dopo essere stato profumatamente pagato. Pensate al rapporto che abbiamo con i nostri device? Siamo davvero padroni delle nostre protesi digitali. Siamo davvero in grado di usare tali oggetti o ci accontentiamo di adattarci alle necessità del momento, alle contingenze, convinti che nella spasmodica ricerca del sempre più nuovo e più potente ritrovato tecnologico stia la vera risposta ai nostri problemi digitali?  La soluzione non può annidarsi nella tecnologia,  come diceva in epoca non sospetta,  un sociologo italiano molto bene informato sui fatti:

 

 

 
Sarebbe davvero irresponsabile lasciarsi andare e accettare come la via maestra da battere quella indicata dal processo tecnologico puro e semplice, come se questo processo contenesse in sé garanzie automatiche di progresso e se il progresso stesso, pertanto, non fosse altro che una fatalità cronologica, l’esito di una serie cumulativa di cambiamenti tecnici che si autogenerano e si autogiustificano. Il rischio di un’abdicazione della responsabilità etica, giustificata sommariamente in nome di una tecnologia sempre più raffinata e delirante, benché corposamente guidata da colossali interessi economici, non è allarmismo oscurantistico. È, semmai, il doveroso richiamo a riconoscere la natura puramente strumentale delle tecniche operative, a non dimenticare che esse sono in grado di garantire soltanto la correttezza interna delle proprie operazioni mentre non hanno niente da dire sugli scopi finali dell’iniziativa umana e sul loro significato; in particolare, che non hanno in sé, neppure nei loro exploits più esilaranti, alcuna effettiva capacità salvifica. La tecnologia ci dice come fare certe operazioni. È muta davanti al perché.
Franco Ferrarotti La Perfezione del nulla 1997
Grazie come sempre della Vs attenzione e alla prossima ;)