5G – questione complessa

“Il patto della modernità è il fondamento delle nazioni contemporanee, che poggiano su una condivisione da parte dei cittadini della narrazione di storie e valori che identificano quella nazione. Questo patto oggi va rinegoziato e riformulato sulla base di una nuova identificazione dei soggetti e degli oggetti che riflettono il carattere e la struttura di una comunità di poteri mutualistici, come è lo Stato.”

 

Così Michele Mezza esordiva nel Capitolo II della sua opera “Algoritmi di Libertà”, pubblicato due anni fa. Quell’esordio proseguiva così:

 

La governance dell’innovazione digitale non ha nulla di automaticamente tecnico ed è invece un concentrato di politica; esattamente come McLuhan sosteneva che l’elettricità non era una tecnicalità ma un perverso potere che se concentrato in poche mani avrebbe creato una situazione in cui “con la velocità dei movimenti di contenuti e persone introdotti dall’energia elettrica è possibile giocare alla roulette russa con intere economie, interi sistemi educativi, con tutti i regimi  politici.”

Argomenti fondamentali, necessari. Ma forse non ancora sufficienti per potersi sedere ai tavoli di negoziato, dove quei patti si devono firmare, dalle comunità e per le comunità, perché l’infrastruttura (intesa non soltanto come pura soluzione tecnologica, né guardando alla sola innovazione digitale) non sia una scelta inesorabile e subita nei tempi e nei modi. Quello del 5G sarà senza dubbio un banco di prova, per certi versi definitivo, in cui potranno o dovranno essere stabiliti e sperimentati metodi di lavoro certamente non nuovi, ma forse mai troppo utilizzati.

Qual è lo scenario in cui ci muoviamo? Qual è il luogo da cui attingere le risorse necessarie perché quel patto sia davvero vantaggioso (pensiamo a persone e conoscenze, ciò che serve per innovare e stare bene)? Potrebbe essere la città. In effetti, se pensiamo al 5G, il ruolo centrale e attivo delle città è quello che lo stesso Decreto Legge 76/2020, il cosiddetto Decreto Semplificazioni definisce nell’art. 38 quando parla ai Comuni: “I comuni – si legge – possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti”

Individuare soggetti e oggetti, però, non basta. E’ necessario individuare anche dei metodi.

 

Piero Dominici, cinque anni fa, a proposito delle città e delle infrastrutture digitali, argomentava  in questi termini:

 

“l’Evo Moderno, materializzatosi nelle grandi aree industriali urbane e segnato dal trionfo delle macchine, avendo contribuito a diffondere valori individualistici, potrebbe altresì ritrovarsi ad andare alla deriva portando gli attuali sistemi sociali verso una situazione di entropia totale. Le stesse tecnologie informatiche, interattive e multimediali, pongono all’ordine del giorno questioni ineludibili di non facile soluzione che riguardano da vicino l’intera architettura delle società complesse, la loro organizzazione (mobilità spaziale, telelavoro, teledidattica) e distribuzione delle funzioni. I territori glocali in cui si verificano queste trasformazioni epocali sono le città e le metropoli, ai cui margini in passato sono cresciute le grandi aree industriali, ma sono anche proliferate le periferie abitate dalle classi sociali più povere. Esse costituiscono, ormai, i punti essenziali di approdo e smistamento del sistema-mondo, i nodi della gigantesca struttura reticolare che innerva la società globale.

Un pensiero che si è andato consolidando, quello della complessità.

 

“La relazione tra infrastrutture e città è complessa, articolata, e caratterizzata da feedback ed effetti indotti”. 

 

 

Così esordiscono in “Infrastrutture e città – Innovazione, coesione sociale e digitalizzazione”, un saggio sul tema pubblicato ad Agosto di quest’anno;  i curatori del volume Giovanni Azzone, Alessandro Balducci e Piercesare Secchi.

 

 

” Lo scenario viene complicato dalla “eterogeneità che esiste tra le diverse infrastrutture (immaginiamo quindi cosa potrà succedere quando si dovrà regolare il 5G): reti elettriche e digitali, sistemi di mobilità, strutture sanitarie e formative sono “oggetti” molto diversi tra loro per natura, estensione territoriale, tecnologie di riferimento. Proprio questa eterogeneità spiega perché le diverse infrastrutture siano oggi “governate” e gestite in modo indipendente tra loro. Le politiche che le riguardano coinvolgono diversi livelli di governo (centrale, regionale, locale) e differenti attori all’interno di ciascun livello istituzionale, a seconda di quale ministero o di quale assessorato sia considerato tradizionalmente baricentro rispetto a ogni infrastruttura; i soggetti che le gestiscono, analogamente, sono spesso tra loro indipendenti: chi si occupa di strade non si occupa di reti digitali, chi si occupa di ferrovie non gestisce i sistemi energetici. Questa logica, che possiamo definire “a silo”, non riesce però a cogliere le opportunità di una gestione integrata delle diverse infrastrutture, che determina sia l’efficacia complessiva del sistema infrastrutturale per la città sia la sua efficienza interna.  Riuscire a gestire questa complessità diviene quindi una sfida cui non è possibile sottrarsi e alla quale non è possibile rispondere con ricette semplici, che prevedano per esempio l’accentramento di tutte le decisioni; la capacità di trovare strumenti e metodi per affrontare la complessità è l’unico modo per riuscire a cogliere le opportunità che le infrastrutture generano per migliorare la qualità della vita nelle città, rendendole attrattive e riducendo le dinamiche divisive che, in caso contrario, sarebbero destinate ad accentuarsi.”

 

 

Il metodo, forse, è quello che già Antonio Terranova formulava in un altro libro,  “Città Sognate”, pubblicato alla fine degli anni settanta. Città Sognate è un appassionante viaggio nella storia delle città in cui l’autore evidenziava il caos generato dall’industrializzazione. In questo saggio Terranova concludeva – dopo aver sostenuto del pericolo che si cela dietro l’approccio puramente scientifico al disegno delle città e all’individuazione dei bisogni – che

 

per “disegnare le città” bisogna ricercare significati e trovare la via per integrare la cultura bassa dei bisogni e dell’utile con quella alta dei valori e del bello, la scienza con la pratica sociale e con la dimensione mitico-simbolica.

 

 

Terranova, oltretutto, parlava già – premettendo il concetto di urbanistica come pratica sociale –  di “un’altra urbanistica alternativa alla sclerotizzata disciplina burocratico-professionale: una urbanistica che è politica urbanistica, gestione democratica, partecipazione dal basso alle scelte di gestione urbana”.

 

Un metodo, che era/è in primo luogo pratica culturale, negli anni felicemente declinata in tante città come testimoniamo in questi spazi già da un po’ quando abbiamo parlato del saggio “Ripensare la Smart City” di Francesca Bria e Evgeny Morozov e di “Mimì Capatosta”, il racconto della Riace che fu (cioè di una Smart City che non aveva bisogno di troppa tecnologia). Un metodo che, anche in virtù del Decreto Semplificazioni che non può essere considerato un dictat Governativo, andrebbe utilizzato anche per “trattare sul 5G”. Materia sulla quale riteniamo necessario stimolare nuovamente e ulteriormente il dibattito in ogni luogo, evento, e ragionamento possibile.

 

A tale scopo proponiamo, per concludere, alcuni spunti introdotti da Michele Mezza nel suo ultimo lavoro “Il contagio dell’Algoritmo”.  A suoi spunti, utilissimi, proveremo ad aggiungere alcune nostre brevi  riflessioni.

 

 

Smart cities come piano regolatore delle intelligenze. Concretamente la scelta riformatrice è assumere una visione di autogestione delle comunità e dei territori, usando la tecnologia per una pubblica amministrazione: circolare e non più verticale, in cui siano direttamente le comunità locali a selezionare bisogni e ambizioni per disegnare piattaforme e algoritmi che siano coerenti con un accesso equo e condiviso alle scelte valorizzanti del sistema. Recuperare le esperienze di municipalizzazione dell’uso del territorio, quali furono quelle dei piani regolatori degli anni sessanta, vincolando ogni implementazione (dal 5G alle forme di smart administration) alla condivisione di interessi e di bisogni è oggi il presupposto per un’innovazione efficiente proprio perché condivisa, come open data + open source ci confermano.

 

 

Sindacati. Già in Algoritmi di libertà ci eravamo soffermati sulla proposta della città come soggetto conflittuale e negoziale del calcolo. In questa occasione potremo concretamente misurare come questa strategia abbia camminato e stia segnando risultati nel senso comune: penso a Milano, o a Napoli dove, per iniziativa della Cgil, si è aperto un tavolo di negoziazione del piano regolatore del 5G. Le aree metropolitane si candidano così a diventare quei soggetti negoziali di cui parlavamo pochi anni fa.

 

L’idea di un piano regolatore della connettività, che è stata lanciata dalla Cgil sia a livello nazionale che in alcune città come Milano e Napoli, ci aiuta a dare una concretezza a questa ambizione: condividere socialmente le forme e i contenuti dei nuovi processi tecnologici.

 

Un piano regolatore significa una struttura di permanente rivisitazione di questi assetti delle reti di connessione, alla luce di una consultazione con gli interessi sociali organizzati, dal lavoro alle professioni al mondo dell’associazionismo o dell’università. L’estensione di questo paradigma di connessione in real time a ogni ambito sociale, dalle fabbriche alle scuole, dagli ospedali alle strade di una città, ci materializza il senso di quell’aforisma di McLuhan che abbiamo ripetutamente usato per ragionare sull’impatto del sistema mediatico nelle relazioni individuali: «Il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce  nelle relazioni umane». Far scorrere la vita in una comunità in real time, come il 5G renderà possibile, è una trasformazione epocale nelle proporzioni, nel ritmo e negli schemi delle relazioni umane. Può questo processo avvenire al di fuori di ogni cautela e tutela nelle applicazioni concrete? Può essere guidato solo da una strategia di pura speculazione economica, in cui efficienza e ottimizzazione sono funzioni delle reddittività e non delle condizioni di vita?

 

La strada tracciata dal Sindacato è stata praticata, anche grazie all’azione propulsiva di Michele Mezza, per le città di Milano e Napoli. Il periodo che viviamo non ci permette di misurare l’efficacia di tali iniziative. Crediamo comunque sia necessario un cambio di passo: d’accordo sul fatto che quella delle connessioni sia materia da Piano Regolatore (approccio che ci sembra andare sulla strada indicata dalle pubblicazioni citate in apertura), ma crediamo anche che, forse, sia  arrivato il momento di portare il capitolo della cultura digitale e delle infrastrutture anche dentro i programmi elettorali delle forze che si candidano ad amministrare le città. Non è forse giunto il tempo in cui su questi capitoli vada cercato il consenso dei cittadini?

 

 

 

Il 5G come laboratorio. Un esempio concreto lo troviamo nelle modalità applicative del nuovo standard di comunicazione mobile che è il 5G. Si tratta di una tecnologia fluida, potremmo dire liquida, dove le modalità organizzative sono conseguenza dei contenuti che si devono veicolare. Esemplare la definizione che il presidente della Fondazione Ugo bordoni, Antonio Sassano, ha reso in una sua audizione nella Commissione trasporti e telecomunicazioni della Camera dei deputati nel luglio del 2020: «Con il 5G è il servizio che determina le proprietà della rete. Con il 5G, prima si decide il servizio che si vuole dare e il modo di erogazione, le caratteristiche e la qualità, e poi si decide come deve essere strutturata la rete».

 

 

Ci sentiamo di fare una riflessione, che rimette al centro non la tecnologia ma proprio il servizio: la priorità è capire la tipologia di servizio richiesta da un territorio e soltanto allora intervenire con la soluzione tecnologica. Soluzione che, in tanti casi, potrebbe anche non essere 5G. Potrebbe molto più semplicemente servire l’implementazione della Banda Ultra Larga (BUL).  Agire per il bene comune, non significa puntare sempre e soltanto sull’ultimo ritrovato tecnologico. Non è detto, dunque,  che la soluzione sia il 5G!

 

E anche se fosse proprio il “protocollo di quinta generazione”   l’oggetto vincente per concorrere nel migliore dei modi alla realizzazione del “bene comune” sui territori,   cerchiamo di fare in modo che tutte le scelte che verranno compiute in tal senso,  vengano effettuate dalla piena totalità  dei soggetti coinvolti, come ci ricorda puntualmente  l’ultima citazione che abbiamo estratto dal libro di Michele Mezza “il contagio dell’algoritmo”:

 

 

 

Come è possibile solo concepire che una tale mole di variabili e di parametri sociali, quali sono i modelli applicativi di connessioni a 5G in aziende, ospedali, città, o scuole, possa essere decisa esclusivamente dalle imprese che gestiscono le linee? Sarebbe come se i fornitori di tram decidessero dove e come far correre le loro vetture nelle strade di una città. Con un elemento in più: queste soluzioni sono modulari, cioè in base alla dieta di dati che osservano possono crescere e modificarsi. Chi controlla questo processo? Chi collauda socialmente queste variabili? Insomma, per dirla con Martin Hilbert: chi decide chi decide?

 

 

Marco Dal Pozzo