Ripensare le news: le comunità e l’educazione ai media

    Oggi parliamo un pochino anche di noi, cercheremo di farlo stando attenti a non parlarci addosso, cosa sempre davvero poco elegante. Il pretesto arriva dalla partecipazione di due di noi  – Dominici e Renzi – ad un panel nell’ultima edizione di Festival Glocal, la manifestazione dedicata al giornalismo iperlocale di Varese News, gemellata con il nostro digit dalla sua nascita, e creata da Marco Giovannelli otto anni fa, qualche mese dopo la prima edizione di digit, il nostro piccolo festival sul giornalismo e la comunicazione digitale. Il tema trattato nel panel che si è svolto lo scorso 7 novembre presso la sala Campiotti della Camera di Commercio di Varese, è ben raccontato dal titolo di questo pezzo. Sul palco accanto ai nostri associati c’era Alberto Puliafito, giornalista e sperimentatore giornalistico, nonchè,  relatore ricorrente a digit,   come a Glocal. L’incontro si apre con una citazione dal lavoro,  e dalle predizioni,  di un grande giornalista americano molto attivo sul fronte dello studio e della ricerca in ambito giornalistico/digitale: Clay Shirky,  che nel 2009, dieci anni fa, diceva, fra le altre cose,  in un suo articolo:

 

 

 

Journalism has always been subsidized

La società non ha bisogno di giornali. Ciò di cui abbiamo bisogno è il giornalismo

For the next few decades, journalism will be made up of overlapping special cases. Many of these models will rely on amateurs as researchers and writers. Many of these models will rely on sponsorship or grants or endowments instead of revenues. Many of these models will rely on excitable 14 years old distributing the results. Many of these models will fail. No one experiment is going to replace what we are now losing with the demise of news on paper, but over time, the collection of new experiments that do work might give us the journalism we need.

Per i prossimi decenni, il giornalismo sarà costituito da casi speciali sovrapposti. Molti di questi modelli faranno affidamento sui dilettanti come ricercatori e scrittori. Molti di questi modelli si baseranno su sponsorizzazioni o sovvenzioni o donazioni invece di ricavi. Molti di questi modelli si baseranno su bambini eccitabili di 14 anni che distribuiscono i risultati. Molti di questi modelli falliranno. Nessuno esperimento sostituirà ciò che stiamo perdendo con la scomparsa delle notizie sulla carta, ma nel tempo, la raccolta di nuovi esperimenti che funzionano potrebbe darci il giornalismo di cui abbiamo bisogno.

 

 

 

Partendo da questa, forse un pochino amara considerazione, Marco Renzi, introduce alcuni dei temi del panel, prima di dare la parola agli altri relatori:

 

 

Marco Renzi: Le cose che diceva Shirky dieci anni fa sono vere oggi. Ed è una cosa di cui forse dovremmo un pochino preoccuparci, perchè evidentemente in dieci anni non è successo nulla, oppure sono successe tantissime cose, ma lo stato di prostrazione in cui versa il giornalismo in Italia, e nel mondo, e soprattutto la diffusione sempre maggiore di disinformazione, ci inducono a pensare che le cose accadute, non siano in alcun modo servite a migliorare Noi, la nostra vita, e il giornalismo.

 

 

 

Alberto Puliafito: Il giornalismo è in crisi e questo è un fatto. Una costante nei numeri negli ultimi anni, addirittura oramai decenni. Una crisi molto prevedibile, viste le parole di Clay Shirky di dieci anni fa. Una crisi che non è stata gestita, in buona parte, e che negli ultimi tempi, ha generato una vera e propria emergenza, che è quello che stiamo vivendo quotidianamente, oramai da un pò. In questa crisi non gestita, i siti di informazione, anche dei più noti giornali, dei più noti quotidiani italiani, si sono trasformati in discariche di link, in posti dove le notizie si confondono con i contenuti a pagamento, e in luoghi dove banner e pop up, disturbano continuamente il lettore, fino a costringerlo ad andare a cercare le notizie da qualche altra parte. Tutti metodi che gli editori hanno “scelto” di usare, per monetizzare l’attenzione dei lettori sul web. C’è un altro bellissimo e utilissimo testo, scritto ancora da Clay Shirky assieme ad Emily Bell e Chris Anderson, che si intitola: Post Industrial Journalism: Adapting to the Present, del 2014, e che, a mio avviso, dovrebbe essere adottato in tutte le nostre redazioni, mentre credo, che non sia stato nemmeno tradotto, in italiano. , da cui mi piace estrarre una citazione: “L’era del giornalismo industriale così come lo abbiamo conosciuto è finita. La filiera produttiva di questa industria, oggi non funziona più. Se crediamo che il giornalismo sia un valore importante e da difendere, l’unico modo è di cercare di trarre il massimo vantaggio possibile da tutte le nuove situazioni in cui ci troviamo ad operare e a vivere”. 

Riprogettare il giornalismo, significa soprattutto, fare cose che non sono mai state fatte da nessuno. Il giornalismo “cancello”, porta d’accesso, attraverso la quale tutti dovevano passare, non esiste più, siamo nell’epoca della “disintermediazione”. Dobbiamo ridefinire il concetto stesso di notizia. Dobbiamo liberarci dalla paranoia da notizia esclusiva. Non posso continuare a pensare di non poter convidere una notizia per paura di perdere l’esclusiva. Nel mondo di oggi, disintermediato, abbiamo degli strumenti straordinari per coinvolgere i nostri lettori, in particolare i membri più esperti su quel particolare argomento,  coloro i quali possono aiutarmi  ad aggiungere dati e profondità alla mia notizia. Noi giornalisti dobbiamo rinunciare per sempre alla nostra presunta “onniscenza”,  e ricordarci che siamo “uno tra pari”,  e che la nostra specifica competenza,  è quella di raccogliere i fatti e raccontarli in maniera che diventino fruibili, nel rispetto della verità sostanziale. Una delle realtà europee di giornalismo che funziona,  si chiama Zetland, una piccola start up giornalistica che ha sede a Coopenaghen in Danimarca, e si basa su un modello di produzione di notizie a pagamento per gli utenti. Nessuna pubblicità, due articoli al giorno, temi concordati con i lettori, approfondimenti a richiesta, incontri dal vivo con la community. Nella loro redazione,  per facilitare la fruizione dei contenuti prodotti dai giornalisti,  hanno uno sviluppatore che adatta il formato dei contenuti prodotti alla tipologia del fruitore dei medesimi. Il contenuto è design, esperienza e relazione. Bisogna lavorare sui contenuti, fare esercizi sui contenuti, sforzarsi di capire a chi serve il contenuto che stiamo elaborando,  e sulla base di queste riflessioni a monte,  elaborare la corretta strategia di realizzazione e poi di diffusione di quel contenuto. Il grande assente dal dibattito sulla crisi del giornalismo è il pubblico. Le persone che fino a qualche anno fa pagavano per i contenuti prodotti dall’industria editoriale,  e che adesso,  quelli stessi contenuti,  li trovano ovunque e in modo anche troppo abbondante,  gratuitamente online. Dobbiamo produrre contenuti esclusivi, diversi da quelli che ognuno può trovare senza alcuna fatica online. Contenuti di particolare interesse, almeno per una specifica parte del nostro pubblico. Come ad esempio accade in un progetto a pagamento,  in cui sono coinvolto,  e su cui stanno lavorando all’Eco di Bergamo,  che riguarda la squadra di calcio dell’Atalanta. 

 

 

Il caso del dispositivo

 

 

Forse non lo sapete,  ma da oggi (7 novembre),  sono diventati obbligatori con legge dello Stato,  dei nuovi dispositivi tecnologici da installare sulle auto,  che ci dovrebbero aiutare a non abbandonare i nostri figli in auto. Io ho un bimbo di tre anni e mezzo, la circolare ministeriale è arrivata ieri sera, e quindi stamani ho cercato di adeguarmi. Mentre cercavo di comprate il dispositivo, mio figlio si è sentito male all’asilo,  e quindi ho dovuto recarmi là,  e portarlo a casa, illecitamente,  perchè la mia auto non era ancora equipaggiata con il  nuovo dispositivo. Vi vorrei far riflettere su un dato, negli ultimi 20 anni, in Italia,  sono morti per abbandono in auto:  9 bambini. Questo non significa naturalmente,  che non sia un dato importante,  o terribilmente tragico, però significa anche,  che questa emergenza è stata “cavalcata” giornalisticamente, fino al punto di essere riusciti a convincere l’opinione pubblica,  e soprattutto i nostri parlamentari,  a dover agire per porre un rimedio legislativo a questo particolare problema.  Tutto bene, soprattutto,  se in questo modo si salveranno tanti bambini. Però la legge appena approvata,  dice soltanto che dobbiamo avere questo dispositivo, non chiarisce,  ad esempio,  che per usare questo dispositivo tutti dovranno installare una app, e quindi dovranno avere uno smartphone (che se fosse scarico bloccherebbe anche il funzionamento del dispositivo,  ad esempio), e le persone che hanno difficoltà ad usare questi moderni apparati,  come potranno fare? Pensiamo ai nonni, che spessissimo aiutano i genitori nella gestione dei figli. Tutto questo mi serve a dire che forse il giornalismo, anche in questo caso, invece di occuparsi,  o peggio costruire un’emergenza, avrebbe dovuto indagare di più, caso per caso, per aiutarci tutti a capire,  se ci si trovi  davvero di fronte ad un’emergenza,  oppure invece siano altre e differenti, le ragioni,  alla base di questi tragici fatti.

 

 

Marco Renzi: L’esempio appena fatto da Alberto fotografa molto bene,  a mio avviso,  la società in cui viviamo.  Una società in perenne emergenza,  una società inutilmente complicata, e non complessa,  come è invece, per davvero, e nella quale dovremmo cominciare ad imparare a vivere,  seguendo sovente, nuove regole.

 

 

Piero Dominici: Le retoriche, le narrazioni sul digitale in questi decenni ci hanno raccontato che l’arrivo e poi il passaggio al  digitale avrebbe portato tutta una serie di vantaggi. Se e quando questo non è avvenuto, la colpa è umana, non è del digitale. E ci hanno poi detto che il digitale avrebbe creato le condizioni per rafforzare, ricreare, rinsaldare, quel legame sociale,  oggi assai debole. Tra i grandi paradossi, c’è n’è uno che io sintetizzo in questa apparente dicotomia: interdipendenza e frammentazione. Da una parte le tecnologie della connessione hanno reso i sistemi, i processi, le dinamiche, sempre più interdipendenti  e interconnesse tra loro. Ma contemporaneamente, e quasi paradossalmente, sembrano aver determinato nel contempo, una frammentazione. Gli studi scientifici ci dicono che, non a caso, nella cosiddetta società iperconnessa,  noi assistiamo  al trionfo, al dominio, all’egemonia, dei valori individualistici, e del singolo. C’è qualcosa che non torna. Abbiamo dunque l’urgenza di trovare una visione sistemica. Le parole hanno un valore preciso,  ed un peso,  aldilà,  del loro portato ideologico. Adottare una visione sistemica significa,  nell’analisi che si può fare dell’educazione, della cittadinanza, della democrazia, dell’inclusione;  significa tenere insieme altri piani di analisi,  e di discorso. Su tutti,  le condizioni in cui versano,  l’educazione, la formazione e la ricerca. I grandi momenti di trasformazione tecnologica, industriale, che quasi sempre coincidono con quelli di crisi; sono caratterizzati da tanti aspetti, ma senz’altro si contraddistinguono in modo particolare,  come crisi di controllo. Anche in ambito tecnologico  si parla spesso di questa coppia,  formata dalle tecnologie di controllo,  e dalle tecnologie di cooperazione. Il controllo arriva sempre dai modelli educativi e culturali. La prima urgenza sociale, è quindi rappresentata, dalla sostanziale inadeguatezza delle istituzioni educative e formative. La causa principale della condizione di ritardo culturale,  con cui noi stiamo tentando di comprendere,  non solo il digitale,  ma le caratteristiche di questo cambiamento, parola che preferisco rispetto ad innovazione; è proprio l’inadeguatezza della funzione educativa e formativa. L’architettura tradizionale dei saperi e delle competenze,  non solo è stata definita e progettata in una certa maniera.  perchè rispondeva a precise logiche di controllo e di potere, ma anche perchè incrociava e intercettava meglio,  quelle che erano le caratteristiche della società industriale. Il lavoro parcellizzato, smontato, decostruito,  in cui le persone, dentro i luoghi di lavoro, erano isolate e per certi versi deresponsabilizzate. Mi vengono sempre in mente delle pagine memorabili e sempre valide di Hannah Arendt. L’errore degli errori, a mio avviso, è quello di confondere i sistemi complicati,  con quelli complessi. Attenzione perchè oggi la complessità, esattamente come tante altre questioni,  è diventata,  come dicono gli anglosassoni: the talk of the city, il discorso che tutti affrontano. Basta dire che un tema è complesso, e questo in qualche modo, sembra quasi preservarci, anche da quell’obbligo, che per me è anche morale, di spiegare e di argomentare. In estrema sintesi: i sistemi complicati sono quelli meccanici e artificiali, riguardano il mondo degli oggetti e delle cose, sono governati da leggi scientifiche, sono rappresentabili da formule matematiche, rispondono a relazioni – quindi sono sempre sistemi che tendono ad essere dinamici  –  ma sono governati e spiegabili sulla base di relazioni lineari: causa ed effetto, stimolo e risposta.

 

 

Marco Renzi: Proviamo dunque ad entrare in qualche tipo di esempio specifico,  per far comprendere meglio questa arguta teoria. Parlavamo con Alberto di questo nuovo dispositivo,  per arginare il problema dell’abbandono dei bambini in macchina. Questo dispositivo è un “aggeggio” inutilmente complicato, a mio avviso, e  non un oggetto complesso. E come mai lo definisco senza indugio inutilmente complicato e non complesso?

 

 

Piero Dominici: Dobbiamo allargare il discorso e provare a definire,  quelle che sono le grandi illusioni della civiltà ipertecnologica. Intanto è paradossale che si parli di questo,  in un momento in cui assistiamo,  ad un grande sviluppo della civiltà tecnologica. L’illusione di una razionalità totale in primo luogo. Quando invece in questi anni proprio la razionalità,  è stata demolita sistematicamente, fatta a pezzi e ridotta ai minimi termini. L’idea che si possano fare delle scelte, definire delle strategie,  sulla base di un rapporto apparentemente lineare,  che è quello che definisce la disponibilità di informazioni – e oggi ne abbiamo anche troppe – alla possibilità di operare delle scelte,  e definire delle strategie,  valutando il rapporto costi/benefici. Se i costi superano i benefici,  quella scelta è irrazionale, se invece i benefici sono maggiori dei costi,  quella scelta è razionale. Questa impostazione è stata poi calata nei processi educativi e formativi. Noi siamo invece in una condizione,  proprio in  quest’epoca della massima disponibilità di dati, di “razionalità limitata”, dovuta a delle caratteristiche che ci appartengono come singoli: i nostri limiti, le nostre vulnerabilità, la nostra incapacità di rappresentare le situazioni nella loro complessità, e in questo le tecnologie ci possono dare una grande mano. L’illusione del controllo, addirittura, del controllo totale. Una illusione che si sposa,  ed è in perfetta linea di continuità – un tema molto dibattuto nella comunità scientifica – con l’illusione della prevedibilità,  e della misurabilità. Si parla generalmente del “mito  dell’evidence based” l’idea che nella società dei dati, questa straordinaria abbondanza di informazioni,  trasformi i dati in “dati di fatto”, che parlino da soli, che siano auto evidenti e che quindi la loro elaborazione sia trascurabile. Notate come in questo concetto, emerga la retorica della disintermediazione. Vi è l’illusione,  che potremmo arrivare non solo ad avere un rapporto 1 a 1 con gli esperti,  ma addirittura potremmo fare a meno di loro.  L’illusione, forse la peggiore, la più rischiosa, su cui sono costruite le architetture complessive dei saperi, e cioè l’illusione di poter eliminare l’errore e l’imprevedibilità dai sistemi sociali, dalle organizzazioni, dalle nostre vite. Dietro a questa visione non c’è un burattinaio, si tratta di logiche di sistema. Dietro a questa visione di poter marginalizzare,  e poi alla fine sostituire progressivamente,  l’umano dentro le organizzazioni attraverso i sistemi di automazione, attraverso i sistemi di intelligenza artificiale che sono tra noi, c’è un’illusione forte,  che è quella appunto di essere in grado di eliminare l’errore e l’imprevedibilità. Proprio quei due fattori, al contrario,  che ci connotano e ci caratterizzano come esseri umani. Non solo sono le caratteristiche, tra gli elementi,  e i prerequisiti fondanti della conoscenza scientifica e della ricerca, ma sono anche i due elementi  che ci contraddistinguono come esseri umani, di più, come esseri umani liberi.

 

 

Marco Renzi: La spiegazione del professor Dominici direi che è perfetta. Torniamo dunque al nostro dispositivo e proviamo ad applicarla. Negli intenti sociali quell’apparato dovrebbe risolvere un problema, addirittura applicando la logica delle illusioni che Dominici ci ha appena spiegato, dovrebbe risolvere permanentemente il problema. Invece, e la narrazione dei fatti realmente accaduti riportataci da Alberto Puliafito sta qui a dimostrarlo: il processo sistemico che ha portato alla nascita del problema e poi alla ricerca e all’individuazione delle presunte soluzioni, è tutto sbagliato. Nei fatti, nella dimostrazione della sua realizzazione. E nessuno naturalmente pensa che sia sbagliata la considerazione di partenza, cioè salvare la vita a più bambini possibili. E non c’è nemmeno, come ha detto ancora una volta benissimo Piero Dominici, un artefice occulto che agisce nell’ombra per architettare una trama oscura. Il problema è l’attuale costruzione della società. Il costrutto del mondo che è disarticolato. E se nessuno ci fornisce gli elementi, la materia prima per ricominciare a capire il nostro reale ruolo in questo mondo profondamente cambiato, continueremo a sentirci gusci di noce nella tempesta e a non potere intervenire attivamente nella nuova organizzazione del presente. Facciamo un altro esempio. Invece di perdere tempo a discutere sul cosiddetto fenomeno delle fake news, proviamo a inserire questa fenomenologia nell’epoca in cui viviamo,  e proviamo a declinarla per quello che è veramente e cioè un falso problema.

 

 

Alberto Puliafito: Torniamo ai dati. I dati non sono dati di fatto,  e possiamo scegliere quelli che vogliamo per raccontare la realtà. Il mondo che ogni giorno il giornalismo, soprattutto il giornalismo mainstream, ci racconta, è il peggiore dei mondi possibili. Un mondo fatto di brutte notizie. E in questo mondo abbiamo anche scoperto che ci sono le conversazioni,  e che però anche dentro le conversazioni viene fuori il peggio di noi, con la polarizzazione dei discorsi. I cosiddetti discorsi d’odio. Oggi ho scritto del tema dei dispositivi, di cui abbiamo parlato anche qui, e sulla mia bacheca puntualmente la discussione si è polarizzata. E sono stato accusato di voler far morire i bambini, fra le altre cose. Il mondo che potremmo raccontare,  se prendessimo in considerazione solo le cose negative, solo i fatti tragici, solo le pessime notizie; è un mondo terribile. Se però i dati che utilizzeremo venissero estratti ad hoc, facendo quello che si definisce “cherry picking”, ovvero scegliendo solo le informazioni che ci fanno comodo,  per sostenere la nostra tesi, allora la narrazione del mondo cambierebbe completamente. Il giornalismo dovrebbe smettere di occuparsi solo dei problemi,  e cominciare a contribuire,  con il potere della divulgazione,  a distribuire informazioni che portino anche alla soluzione dei problemi,  non solo alla loro denuncia. Questo aspetto, anche dal punto di vista delle dinamiche della professione, probabilmente contribuirebbe a cambiare le prospettive. Come cambiare dunque il giornalismo per non farlo morire? Non bisogna, a mio avviso,  fare il conto dei morti e dei feriti; non serve preservare a priori testate e redazioni, ma è necessario preservare e conservare,  con la massima cura, la funzione sociale del “giornalismo”. E per poterlo fare, è necessario cambiare tutto,  e in modo radicale. Ci sono alcune realtà che già da anni hanno provato e provano a cambiare. Un esempio importante arriva dagli anni ’50/’60 ed è la rivista fondata da Adriano Olivetti che si chiamava Comunità. Un altro esempio è la rivista dei pediatri italiani, si chiama UPPA, un pediatra per amico, fondata da giornalisti medici-pediatri, ha un pubblico di riferimento che sono i genitori di bambini in età pediatrica, non ha pubblicità al suo interno, ed è scritta pensando ai bisogni delle persone a cui è rivolta. C’è una start up di giornalisti inglesi che produce un trimestrale di carta, una rivista di 124 pagine, tutta dedicata ad approfondimenti su fatti accaduti almeno tre mesi prima. Mettendo insieme, copiando pedissequamente tutti questi esempi virtuosi, provenienti per la maggior parte dall’estero, io e alcuni colleghi abbiamo fatto nascere un prodotto giornalistico che si chiama “slow news”.  Un altro modello di giornalismo del presente,  assai valido,  è quello del The Correspondent, un giornale digitale olandese. La loro campagna di abbonamenti è particolarmente interessante. La campagna abbonamenti è stata fatta dando ai lettori la possibilità di iscriversi versando qualunque cifra ritenessero opportuno. La cifra per sottoscrivere l’abbonamento, sebbene fosse stata valutata dai membri della redazione non inferiore a 100 dollari all’anno, è stata lasciata libera, alla coscienza del singolo lettore. Esistono un sacco di realtà nel mondo,  che stanno provando a fare qualcosa di diverso nel giornalismo, e sono realtà alle quali possiamo ispirarci, che possiamo incontrare e ricercare, e anche se il giornalismo è sempre stato fatto in una sola maniera, nessuno ci vieta di provare invece a seguire una strada differente.

 

 

Solo alcune suggestioni da un panel in cui si è discusso anche di altri argomenti e che trovate integralmente nel video appeso qui sotto, grazie come sempre per essere arrivati fino a qui e alla prossima ;)