Raccolta pubblicitaria, dalla carta al digitale (sg)

Proseguiamo, a grandi balzi, e relativi resoconti,  nella disamina dei molteplici incontri degli Stati generali dell’editoria, voluti dal Governo giallo-verde e che ad oggi non si sa bene che fine faranno, dopo il cambio di Governo e il relativo cambio di Sottosegretario all’editoria.  La nostra impressione, a poco più di metà del lavoro di analisi è che il lavoro iniziato dentro queste riunioni possa essere utile, ma sia solo una prima, anzi primissima e molto superficiale fase, che se non trovasse una sua continuazione più approfondita e concertata in modo trasparente e condiviso con la politica (intesa come programmazione e gestione amministrativa, non come strumentalizzazione partitica) porterebbe scarsi, se non inesistenti benefici, al dibattito sull’informazione. Che è invece centrale, come ben sappiamo, nell’odierna società della conoscenza, basata sempre più sulla gestione – meglio se corretta e partecipata – dei dati. Oggi ci occupiamo dell’incontro dedicato alla pubblicità e quindi ad una delle principali fonti di sostentamento del settore. L’incontro, come sempre coordinato dall’allora sottosegretario all’editoria Vito Crimi,  (come sapete da qualche giorno il Dipartimento è guidato da Andrea Martella del Pd)  e condotto dal capo dipartimento per l’informazione e l’editoria Ferruccio Sepe, si è svolto l’11 giugno scorso presso la sala monumentale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, posta in Via Santa Maria in Via,  al numero 37.  Ad introdurre i lavori assieme a Crimi e Sepe c’era Pier Luca Santoro, consulente di marketing e comunicazione del Dipartimento e Ceo di DatamediaHub.

 

 

 

Introduzione

 

 

Vito Crimi: Le vendite e la raccolta pubblicitaria sono i due pilastri su cui si fonda di fatto la capacità economica, la capacità di stare sul mercato, di un editore, di una testata d’informazione sia cartacea, online, televisiva, radio.

C’è sicuramente da affrontare il tema degli Over the top che ho voluto anche qui presenti:  Google, Facebook. E’ un tema non indifferente,  proprio in queste ore alcuni dati che sono usciti da indagini svolte negli Stati Uniti ci fanno capire quale sia il mercato dell’online,  e quanto gli Over the top riescono a drenare di quel settore, in termini economici; un dato che non può essere trascurato. 

C’è il tema dei dati.  Questa è l’età dei dati. Oggi la materia prima sono i dati. Quindi abbiamo  il tema dell’utilizzo, del possesso, delle concessioni dei dati. Per capire come poterli utilizzare al meglio.

C’è anche il tema di come gli intermediari si interfacciano con i soggetti che devono accogliere la raccolta pubblicitaria e mi riferisco al sistema, che è una caratteristica molto italiana, dei diritti di negoziazione. Una necessità di trasparenza anche nei confronti degli investitori stessi che hanno questa esigenza di conoscere come i propri investimenti vengano utilizzati, come vengano investiti, con meccanismi che siano verificabili,  certificati nel percorso,  fino all’arrivo a chi pubblica, agli organi di informazione.  

Abbiamo già fatto alcuni interventi shock sul settore dell’editoria come quello che prevede la  progressiva riduzione del finanziamento pubblico all’editoria. Abbiamo voluto dare un segnale di cambiamento. C’è un terzo pilastro oltre ai  due già citati,  su cui si regge il settore, che è il finanziamento pubblico all’editoria.  Dove per finanziamento pubblico non si intende solo il finanziamento diretto. Il finanziamento pubblico è l’insieme di attività che il Pubblico compie per sostenere il settore dell’informazione e dell’editoria. Parlo dei crediti d’imposta, delle agevolazioni Iva, delle agevolazioni postali. Un altro pilastro che probabilmente  incide fino ad un 20/30%  nei bilanci di molte aziende editoriali.  Quello oggi deve venir meno, sempre di più.

 

 

Ferruccio Sepe: Ci sono due aspetti che vorrei segnalare. Il primo deriva un po’ dalla cronaca di questi giorni mi è stato segnalato e quindi lo riporto perché penso che sia utile:  la pubblicità come arma di pressione sull’indipendenza di chi fa informazione. L’offerta di ingenti investimenti pubblicitari in cambio del silenzio informativo. Questo è un tema che spero oggi in qualche modo venga fuori.

L’altro aspetto è se nel passaggio, che tutti ormai ci delineano come scontato, dalla carta stampata ad un altro modello di informazione, peraltro anche più leggero,  cioè quello digitale,  esistono i margini per una dignitosa sopravvivenza dell’informazione nel mercato del web.

Quello che ci interessa capire è se l’informazione come la conosciamo, cioè quella responsabile delle cose che dice, che è in grado di rispondere degli errori che fa.  L’informazione può fare danni molto importanti perché incide sulla reputazione delle persone. sulla loro onorabilità. Quando parliamo di informazione,  ci riferiamo a testate  che abbiano un direttore responsabile, un’iscrizione al registro del tribunale, questo è  il modello di riferimento. Si tratterà di capire se questo modello del web può diventare un modello anche remunerativo,  in grado di assicurare, senza il supporto del cartaceo,  un’informazione di qualità autorevole ed affidabile,  che è quello di cui ha bisogno qualunque democrazia. La democrazia non è fatta solo di una Corte Costituzionale, di un Governo e di un Parlamento; è fatta di tutto un altro complesso apparato che la fa funzionare, e l’informazione sicuramente è uno dei cardini di questo complesso apparato che ruota intorno alle istituzioni che noi comunemente individuiamo come istituzioni democratiche. Sappiamo che dobbiamo maneggiare questo elemento essenziale della democrazia che è informazione, con cura, per cui anche le relazioni con chi,  in qualche modo ne permette la sopravvivenza.

 

 

L’esperto

 

 

Pier Luca Santoro: Il mercato pubblicitario negli ultimi dieci anni nel nostro Paese (elaborazione dati Nielsen al netto dei ricavi che vengono generati in Italia da parte di Google e Facebook) perde circa un quarto del proprio valore, passando da 7 miliardi e 7.780 milioni a 5 miliardi 5.759 milioni. Anche la raccolta pubblicitaria di quotidiani e periodici ha subito un calo drastico e continuo dei valori,   che invece per quanto riguarda gli investimenti pubblicitari online, sono quasi raddoppiati. Il trend è negativo per i periodici e per i quotidiani anche nel 2019. I quotidiani registrano un calo di quasi l’11% nei primi quattro mesi dell’anno nel valore della pubblicità venduta. Ma mentre il mercato a valore,  perde, gli spazi venduti hanno un calo solo del 4%.  Ci sono quasi 7 punti percentuali di differenza, che non è poco. Se andiamo ad osservare questo dato nel medio periodo il fenomeno diventa ancora più evidente.  In sei anni da fine 2012 a fine 2018 il gap fra valore e spazi è di ben 25 punti. Una piccola provocazione per il dibattito. Se c’è una differenza così significativa,  a mio modo di vedere,  vuol dire che c’è un un problema fra coloro che vendono la pubblicità. Si punta evidentemente molto sul prezzo. Un’operazione che non ha senso, a nostro modo di vedere.  La carta costa,  stampare costa,  trasportare costa. Potrebbe essere meglio, forse,  stampare meno, produrre meno carta,  e tenere per quanto possibile – è un’ipotesi di lavoro –  i prezzi, i listini, che in Italia sono un puro riferimento teorico, come sappiamo, tutti i listini più alti.

Per fare qualche esempio.

In Rcs vediamo risultati in calo,  e soprattutto che i ricavi dalla pubblicità online continuano  a rappresentare una parte assolutamente minoritaria rispetto al totale dei ricavi e anche rispetto ai soli ricavi pubblicitari. Per il gruppo Gedi nel primo trimestre del 2019  i ricavi da digitale – qui ci sono anche i ricavi da vendita di contenuti editoriali – pesano poco più del 12%.

Il grosso dei ricavi ancora oggi, per quasi tutti, arriva dal prodotto cartaceo. Il report annuale di Pwc prevede che a livello generale,  nelle nazioni prese in considerazione dal rapporto,  tutti i segmenti crescono tranne la tv tradizionale e soprattutto cadono ancora e per i prossimi cinque anni i ricavi dei publisher di giornali e magazine. L’elaborazione dei dati del rapporto, per quanto riguarda in maniera specifica l’Italia,  prevede che tutti i segmenti,  anche la raccolta pubblicitaria televisiva nel nostro Paese,  continuino a crescere mentre per  i quotidiani e i periodici la raccolta pubblicitaria prevede addirittura una flessione superiore all’11% quindi una situazione peggiore rispetto agli altri paesi.

Se da noi c’è una situazione peggiore,  rispetto alle altre nazioni,  molto probabilmente ci potrebbero essere delle responsabilità in chi realizza questi prodotti.

Forse il prodotto ha dei problemi, forse i giovani non leggono i giornali, non c’è un ricambio generazionale.  E non è che i giovani non leggano solo  i giornali di carta, non leggono nemmeno i giornali online.

C’è il problema dell’ad blocking. Una quota consistente –  circa un quarto di chi utilizza internet nel nostro Paese –  ha installato un ad blocker sul proprio computer.

Perché le persone usano gli ad blocker?  Formati troppo invasivi, eccessivo affollamento,  rallentamento dei tempi di caricamento sui siti, – fattore rilevante visto che si naviga sempre di più in mobilità – ,  monotonia della pubblicità e scarsa aderenza della medesima rispetto ai propri interessi, oltre al fatto che vista dallo smartphone,  la pubblicità consuma anche la batteria del device.  Poi ci sono le frodi, i bot, i refresh continui sulla pagina.  Per arrivare al fatto che con i sistemi attuali,  anche chi usa un ad blocker – per quanto mi è noto – viene conteggiato nelle statistiche come se avesse ugualmente visualizzato il messaggio pubblicitario. 

Su tutti questi argomenti abbiamo ripreso l’intervento di Giovanna Maggioni all’evento di apertura degli Stati Generali dell’editoria del 25 marzo scorso. Un utile intervento di 15 minuti che abbiamo rimontato e condensato in 4 minuti.

 

 

 

 

 

 

Per completezza dell’informazione abbiamo preferito inserire il video integrale dell’intervento del direttore generale uscente di Upa Giovanna Maggioni all’evento di apertura degli  Stati generali dell’editoria (che noi Vi racconteremo al termine di tutti gli altri eventi, per capire cosa è davvero successo a posteriori). Poi abbiamo estratto e riportato qui di seguito per iscritto quelli che a nostro avviso consideriamo i passaggi salienti dell’intervento della dott.ssa Maggioni e che, come annunciato dallo stesso relatore qualche riga sopra, fanno anche parte dell’intervento al panel di oggi,  di Pier Luca Santoro:

 

 

 

Giovanna Maggioni: Io come Upa rappresento coloro che investono in pubblicità quindi il mondo della comunicazione, della pubblicità.  Intanto ringrazio il sottosegretario Crimi perché forse per la prima volta ad un tavolo in cui si parla di editoria,  e di come trovare soluzioni pubbliche o di investimento per l’editoria,  viene chiamata anche la pubblicità.

Purtroppo il mondo della pubblicità sulla stampa, sia cartacea che online, che ormai noi consideriamo come un unico momento dell’investimento, ha perso dal 2008, anno della crisi,  la parte più preponderante di tutto l’investimento pubblicitario.  Ha perso circa i due terzi di quello che era l’investimento che c’era nel 2008. La parte cartacea non è stata compensata da quella online: questo è vero. La pubblicità oggi non è più fatta solo di numeri, quindi di copie vendute, di lettori, ma anche di gestione dei dati; e questo va tenuto presente in un tavolo come questo. La gestione dei dati da parte delle aziende porta a scegliere gli investimenti sugli  interessi del consumatore, sui momenti di vita del consumatore, che vanno al di là dei numeri.

Il primo tema è quello della qualità. E’ vero che oggi sul mercato ci sono le OTT, che hanno sicuramente sottratto fatturato,  in un mercato che non è cresciuto. Tutto il mercato della comunicazione dal 2008, anno della crisi, ad oggi, non è cresciuto, anzi ha perso ancora negli anni. Solo quest’anno è ritornato agli stessi valori di 10 anni fa. Avendo sul mercato tre soggetti, due oggi (Google e Facebook), molto grossi, ma arriverà anche il terzo (Amazon), che stanno portando via un quarto circa dell’investimento pubblicitario.  Portando via, inteso,  in senso propositivo e non negativo. Le aziende si stanno rendendo conto che i numeri da soli non bastano. Ci vuole anche la qualità. Noi lo abbiamo chiamato brand safety. Le aziende che investono guardano i numeri ma vanno anche un pochino oltre. Il mio annuncio, la mia campagna pubblicitaria se finisce in un ambiente che non sia safe, che non sia di qualità in quanto responsabile, rischia reputazionalmente moltissimo. Oggi per esempio gli OTT non lo fanno, oggi non aderiscono all’autodisciplina pubblicitaria, e per noi investitori questo aspetto è invece molto importante. Ultimo tema è quello della formazione, ci sono anche figure nuove che vanno create, soprattutto, visto che parlo di pubblicità, non solo fra i  giornalisti ma anche nelle forze vendita degli editori. Troppo spesso ci troviamo con interlocutori che non riescono a rispondere alle esigenze delle aziende. Noi stiamo creando per esempio delle figure di data analyst. Il futuro è sempre più digitale e caratterizzato dalla rapida evoluzione dell’intelligenza artificiale. Bisogna che ci siano figure professionali trasversali all’editoria,  in tutti i campi. Non abbiamo mai visto nessuno del mondo dell’editoria e soprattutto delle concessionarie di pubblicità iscriversi ai nostri  corsi di formazione, tra l’altro fatti per le aziende,  ma anche per chi con loro deve dialogare. Quindi un invito che faccio, veramente, è di  pensare a una formazione che vada al di là di quello che è il tradizionale e veda molto anche nel futuro.

 

Pier Luca Santoro: In buona sostanza, Maggioni, mi sembra di poter dire,   in qualche modo, avvalori la tesi,  che una parte – difficile stabilire quanto  –   di quel gap  di 25 punti percentuali fra spazi e valore, forse è generata da una relativa mancanza di competenza,  da una relativa incapacità,  di chi vende la pubblicità. Io credo che nel 2019 vendere riquadri, pagine, manchette o pixel – se andiamo sul digitale –  non abbia senso. Evidentemente le concessionarie e la loro forza vendita si devono trasformare in consulenti di comunicazione e hanno bisogno di essere messe in grado di farlo. Forse è il caso di cambiare approccio, come recita la celeberrima campagna di Apple: think different.

Come vendiamo l’advertising online?  A cpm: a migliaia di impression? A cpc a costo per click? O possiamo immaginare di trovare altre modalità?  Ad esempio l’Economist e il Financial Times da tempo stanno sperimentando la vendita di pubblicità sulla base del coinvolgimento del lettore e quindi del tempo che il lettore trascorre sul sito. L’elemento di valore può essere il tempo. Le concessionarie e i centri media come si interfacciano, come lavorano, come operano e come collaborano tra loro? Molto spesso l’impressione è che ci sia una gestione per dirla in una battuta:  precaria. Brand safety,  giustamente Giovanna Maggioni dice: c’è un grave danno o rischio di danno reputazionale per le imprese nella possibilità di trovarsi in contesti sfavorevoli, addirittura pericolosi, per la collocazione del loro messaggio pubblicitario. Qualità e valore. Percorsi di formazione e di training rispetto all’evoluzione – concedetemi la battuta – da venditore a consulente di comunicazione. Infine i formati. Il peso dei dati e l’invasività di questi formati. Si ha l’impressione che si spinga sempre più verso formati sempre più invasivi. Secondo me,  non fanno che aumentare l’inefficacia del messaggio pubblicitario. Se sono infastidito da una cosa che mi si apre, e l’unica preoccupazione per me è quella di trovare il modo di chiuderla il più rapidamente possibile,  non credo che nella mia memoria resti l’immagine di quella marca,  di quel brand,  e se mi resta:  non è un’immagine positiva.

 

 

Interventi del pubblico:

 

 

Graziana Pasqualotto vice presidente UNA, aziende della comunicazione unite: Le agenzie media sono nate negli anni ’80 per dare consulenza ai clienti nella stesura della strategia di comunicazione e nella realizzazione delle pianificazioni dei mezzi,  tenendo in considerazione il target di riferimento, il posizionamento dei prodotti, la territorialità della distribuzione e molti altri fattori. Per fare questo oggi, ogni centro media investe ogni anno milioni di euro in professionisti, software e hardware,  e ricerche sempre più sofisticate che ci aiutano a seguire l’evoluzione continua del nostro settore. L’avvento del digitale ha ovviamente cambiato drasticamente il nostro modo di lavorare. Abbiamo in agenzia oggi delle nuove professioni come il data analyst, il  data scientist, ingegneri informatici, social media manager, content manager che fino a qualche anno fa non sapevamo quasi cosa fossero. La dieta mediatica, spinta dall’evoluzione tecnologica,  è profondamente cambiata. Il cambio di media-mix da carta stampata a digitale,  si è registrato in maniera più marcata in alcuni settori. Due esempi fra tutti.  Il settore dell’auto-motive e il settore delle telecomunicazioni che sono passati da campagne pubblicitarie di brand o prodotto,  veicolate su carta stampata,  a campagne digitali che hanno come obiettivo finale la generazione di lead che sono meticolosamente misurabili. Ad esempio un abbonamento adsl o un test drive di  un determinato modello di auto. Questo ha veramente cambiato tantissimo il modo di investire,  e ha sicuramente sottratto investimenti al mezzo stampa. Ovviamente il vero tema è quello dei colossi digitali internazionali quelle che definiamo le big tech. Si stima che a livello mondiale ogni 100 dollari spesi in pubblicità sul digitale – che in questo momento ha superato l’investimento  televisivo – almeno il 70% se non addirittura l’80 siano raccolti da Facebook Google e Amazon. La maggior parte degli investimenti indirizzati a loro vengono inevitabilmente sottratti ai mezzi classici che spesso sono rappresentati da aziende italiane che, seppur di dimensioni importanti per il nostro mercato, poco possono fare di fronte a questi colossi. E’ pur vero però che le big tech si sono strutturate e continuano a sviluppare servizi che vanno a rispondere puntualmente alle esigenze di immediatezza, di velocità,  di personalizzazione dei messaggi, di localizzazione del consumatore che è quello che i clienti ci chiedono ogni giorno. L’importante però sarebbe che questi signori accettassero di farsi misurare.

 

 

Marco Muraglia presidente di Audiweb: Ci sono tre cose che vorrei dirvi.  La prima riguarda l’omogeneità. Per l’online sarebbe opportuno fare in modo che oggetti simili venissero misurati in modo diciamo omogeneo. Per evitare differenze fra fonti di misurazione. La seconda cosa più rilevante è il tema della terziarietà. Con tutto rispetto per gli analytics di tutte le varie parti del mercato, sono comunque riferiti a fonti interne. Viceversa quello che credo sia necessario avere nel mercato è una misurazione, neutra, di una terza parte. Il terzo punto parlando di analytics ricordiamo che c’è una differenza fondamentale fra quello che normalmente viene venduto come un utente che invece è un cookie. Alcuni editori o alcuni OTT correttamente parlano di cookie altri parlano di utenti e questo non è corretto. Al di là della correttezza della metrica credo che sia importante che la misurazione sia fatta da terzi e non sia generata in casa.

 

 

Carlo De Matteo di MyIntelligence: Io rappresento una delle poche realtà italiane che fa tecnologia con le digital advertising, una società che   si chiama MyIntelligence.  Secondo me quando parliamo di formati,  misurazione e quant’altro,  stiamo parlando più che altro dei sintomi e non delle cause della crisi. Il vero problema è che non abbiamo visto i dati di Facebook e di Google. Ma sono enormi, li conosciamo.  Sembra che non si possa contrastare il fenomeno. Quindi allora dobbiamo misurarli per contrastarli. In realtà secondo me non è questa la soluzione. La soluzione si trova nel Sistema Paese. Editori e aziende la  possono realizzare. Quello che è davvero auspicabile è che ci si metta insieme per poter pensare a come arginare quello che oggi accade: ovvero quello che  l’ingresso delle OTT: Facebook, Google e ora Amazon, ha prodotto  come effetto nel sistema paese. La raccolta totale dei dati degli utenti a fattore loro,  a unico beneficio delle OTT. Loro fanno il loro mestiere,  anzi sono i numeri uno, chapeau! Noi dovremmo mettere un filtro, fra la popolazione italiana e gli editori,  per raccogliere il dato. E spostare gli investimenti pubblicitari da quello che oggi sembra un sistema blindato, quello di Google e Facebook, a quello dell’editoria, ma sulla base, ovviamente, di un  meccanismo diverso da quello attuale che genera come abbiamo visto un grande gap fra valore e tipologia di spazi venduti. Questa non è la strada che porta ad un’economia digitale sana. E’ necessario che le aziende si mettano insieme con una piattaforma tecnologica terza che possa consentire agli investitori pubblicitari di vedere il sistema dell’editoria italiana come un vero sistema unico e alternativo a quello di Google e Facebook. In Germania, ad esempio, stanno già da tempo lavorando a sistemi di questo tipo.

 

 

 

Fabrizio Tomei Chief digital di Speed la concessionaria del gruppo Poligrafici Editoriale:  Oggi qui è stata fatta una disamina su quella che è l’informazione di qualità,  scambiando il supporto, cioè il cartaceo col sistema dell’informazione in toto. Il sistema dell’informazione di qualità, come è nato da più di 100 anni direi quasi 200, nasce per la tutela del cittadino che ha diritto a un’informazione libera il più possibile.  Noi editori della carta stampata – e vi invito a non scambiare il supporto con la qualità – dobbiamo rispondere a tutta una serie di obblighi di legge. Ad esempio il sistema dei giornalisti, i comitati di redazione.  Tutto un sistema che tutela e garantisce al cittadino un’informazione libera. Questo sistema di tutele costa. Non costa soltanto il supporto cartaceo. Costa mantenere un regime di giornalisti che rispondono ad un ordine, ad un’etica. Nell’online puro non succede,  perché molte start up, molti siti di informazione, possono accedere a delle forme contrattuali giornalistiche diverse dalle nostre, ovviamente pagando molto meno i giornalisti. Pagando molto meno tutto. Quindi a discapito della qualità. Se l’informazione seria, di qualità, è un pilastro della democrazia,  bisogna vedere se il Governo ha intenzione di fare qualcosa a tutela di questo pilastro della democrazia, inteso però come  informazione di qualità. Perché pagare tanto o tutelare un giornalista nella sua indipendenza è un  fatto a tutela del diritto del cittadino di avere un’informazione, appunto, libera. Gli editori cartacei hanno tutti al loro interno una divisione digitale dove operano specialisti di altissima professionalità. Ho sentito parlare di brand safety, sistema a cui abbiamo contribuito tutti noi editori. Peccato che non abbiate citato i programmatic buying, che sono la nuova forma di raccolta pubblicitaria, che ormai credo sia intorno al 40% della raccolta totale,  e che si basa sul dato. Però su 100 milioni di impression erogati, solo 5 milioni sono magari su siti di qualità, e il resto viene disperso ovunque e su qualunque tipo di sito. I prezzi calano perché chi può accogliere questo volume pazzesco di impression non ha i costi che abbiamo noi,  e quindi il calo, il gap, tra pagine e prezzo, certo non dipende dall’incompetenza dei venditori pubblicitari ma da questo sistema  che vorrei tanto che il Governo o chi per esso,  il Parlamento, tutelasse. Non so se avete notato ma la maggior parte dei siti che esistono in Italia, ma credo anche nel mondo, sono siti di news. Chiunque può fare un sito di news,  sono blog, c’è di tutto e di più. E’ stata appena varata una legge europea per la tutela del copyright, ma ha poca efficacia, perché comunque basta cambiare dieci parole in un articolo, abbreviarlo, etc. La tutela dell’informazione dovrebbe essere fra i  doveri, credo, del Parlamento e del Governo.

Quindi credo che la riflessione debba essere fatta in questo senso:  o anche gli editori, che sostengono a caro prezzo il mantenimento in vita del sistema, sono aiutati in qualche maniera dal Pubblico. O l’informazione di qualità purtroppo verrà dimenticata  perché è difficile da sostenere.

 

 

 

Vittorio Meloni direttore generale di UPA: Prendo la parola brevemente perché ho recentemente preso il posto della dottoressa Maggioni alla guida dell’associazione Utenti  Pubblicitari Associati. Volevo aggiornare alcuni dati precedentemente diffusi. Viviamo una profonda crisi. L’economia italiana si è contratta, unica economia a livello continentale, di ben 10 punti di Pil in poco più di tre anni. 170 miliardi di ricavi del sistema Paese in meno, concentrati in una crisi molto acuta, che ha poi prodotto anche molta disoccupazione,  e una rilevante contrazione dei consumi. La crisi dell’editoria è stata quindi ulteriormente aggravata. Una trasformazione che investe globalmente questa antica e importante industria del mondo, da noi è stata più rilevante, e questo ha fatto soffrire più profondamente molte aziende del settore. Questa trasformazione quindi investe tutti e diciamo il settore che io rappresento ha interesse che l’editoria superi la sua crisi trasformandosi. Perché non c’è modo di rimanere dentro il mondo dell’informazione, dell’editoria mantenendo la stessa tipologia industriale che c’era prima che questa grande trasformazione digitale investisse il mondo. Quali sono gli elementi chiave di questa trasformazione?  Uno è sicuramente la cultura digitale. Senza un Paese che la fa sua, e che si preoccupa di far crescere anche la competenza dei cittadini nell’uso delle tecnologie digitali, lo spazio per questa espansione sarà ridotto. Per farlo servono le competenze e le infrastrutture.

 

 

Enrico Bellini public policy manager di Google: Siamo felici oggi di essere gli unici OTT,  tra i tanti menzionati, presenti e pronti a confrontarci. Il motore di ricerca Google ogni mese fornisce 10 miliardi di click alle imprese editoriali in tutto il mondo.  Questi 10 miliardi di click, queste visualizzazioni, devono essere monetizzate dagli editori. Da questo punto di vista solo lavorando insieme pensiamo che si possano trovare delle soluzioni. Soluzioni che per quanto riguarda l’editoria e il giornalismo ancora non ci sono. Un altro elemento forte di collaborazione è costituito dal supporto tecnologico di Google alle aziende al momento della monetizzazione. Per quanto riguarda la pubblicità display, soltanto nel 2017, abbiamo distribuito  agli editori su scala globale oltre 12 miliardi di dollari di revenue sharing sull’advertising e sulle tecnologie che forniamo per favorire l’advertising sui siti degli editori stessi. E’ stata citata la direttiva europea sul Copyright di recente approvazione. Non è un mistero che abbiamo avanzato negli anni diverse obiezioni. L’aggiornamento delle regole è fondamentale, ancora di più in questo momento,  ma fatta in questo modo; prendendo ad esempio due soluzioni quella tedesca e quella spagnola che non si sono rivelate vincenti, rischia di creare più problemi di quanti ne risolva. Non noi, ma diverse realtà di consumatori, di piccoli editori,  di start up; tantissime realtà hanno avanzato gli stessi dubbi perché di fronte alla garanzia di un nuovo diritto – anche qui chissà come e in che modalità accessibile – si vanno a comprimere altri diritti quale il diritto all’informazione dei cittadini. Abbiamo svolto un esperimento su una percentuale minima di utenti cercando di capire come si sarebbe tradotta la direttiva se non implementata in una determinata maniera e abbiamo notato che questo tipo di direttiva potrebbe portare ad un calo di oltre il 40% del traffico generato verso gli editori.

 

 

 

Prima di lasciare spazio alle conclusioni ufficiali e che troverete puntualmente anche dentro il video integrale dell’evento che posteremo in calce a questo resoconto, permetteteci di aggiungere le nostre personali riflessioni sull’evento che abbiamo appena finito di documentare. Un incontro, a nostro avviso, davvero fra i più importanti di questi Stati generali dell’editoria. Stati generali  dall’esito finale molto incerto a questo punto, visto il cambio politico avvenuto nel frattempo dentro al Governo. Importante e decisivo, questo incontro, perché affronta un tema, quello della pubblicità, che è a sua volta fondamentale per la sopravvivenza del settore. La pubblicità è certamente la fonte principale di finanziamento del sistema. Ci sono altre fonti di introito, come ha detto nella sua introduzione il senatore Crimi. Ma i tre pilastri: vendite, pubblicità e finanziamento pubblico, non sempre sono presenti in ogni segmento della produzione industriale di informazioni.  La carta stampata  gode certamente di tutte e tre queste forme di finanziamento, ma radio, tv, e soprattutto il settore dell’online, non hanno prodotti da vendere. Anche se,  qualcuno potrebbe obiettare, nemmeno questo è del tutto vero. Radio e tv sovente realizzano prodotti che possono vendere sul libero mercato: prodotti d’informazione e di finzione. Per non parlare di quello che possono, potrebbero e in qualche caso, anche in Italia già producono in proprio, anche i giornali nativi online. Un esempio su tutti: VareseNews, il quotidiano nativo digitale ultra-ventennale, che abbiamo più volte raccontato anche qui sulle nostre pagine.  La nostra impressione è che, quando si è parlato di prodotti da vendere durante il convegno, non si pensasse  a questo tipo di prodotti, ma solo a quello che finisce  dentro le edicole.  Potremmo sbagliarci e di questo chiediamo venia, ma questa è l’impressione che abbiamo maturato sbobinando gli atti dell’incontro. In ogni caso sia gli esperti di pianificazione pubblicitaria, sia i venditori, sia gli editori, e tutti gli altri specialisti che sono intervenuti al dibattito, hanno riportato e sottolineato aspetti che avevano tutti a che fare con le modalità di vendita della pubblicità, di controllo dei dati della pubblicità, l’articolazione e la realizzazione delle campagne di advertising. L’impressione forte che emerge a nostro parere dagli interventi del panel  è che, comunque vada  l’editoria italiana in futuro, nel settore della pubblicità gli scenari siano oramai piuttosto definiti fra gli addetti ai lavori.  Nuovi strumenti e nuovi partner sono stati individuati. Strumenti e partner, che tra l’altro e nel frattempo,  hanno quasi completamente avocato a sé il mercato globale della pubblicità,  estromettendo totalmente, o quasi,  dallo stesso mercato, tutti gli altri precedenti competitor. E l’intervento dell’unico rappresentante di questi nuovi strumenti presente in aula: Enrico Bellini di Google, sebbene variegato e ben articolato, ha messo certamente l’accento su questo, di certo non trascurabile, aspetto, producendo numeri pazzeschi su cui è davvero importante riflettere con attenzione:  10 miliardi di click ogni mese alle imprese editoriali in tutto il mondo; 12 miliardi di dollari di revenue sharing sull’advertising agli editori nel mondo in un solo anno (2017); e soprattutto: solo lavorando insieme pensiamo che si possano trovare delle soluzioni. Soluzioni che per quanto riguarda l’editoria e il giornalismo ancora non ci sono. Non crediamo ci sia da commentare ulteriormente, però riflettere, e parecchio, quello sì. Tra l’altro anche il passaggio sulla nuova normativa europea sul Copyright, sempre nell’intervento del rappresentante di Google, mette ancora di più in evidenza quanto – a differenza di quello che invece è stato il sentimento comune in quasi tutti gli interventi degli altri relatori del convegno – contenuti e pubblicità non possano, non debbano e di fatto già non siano trattati dalle OTT,  in maniera differente. Un segnale davvero terribile e  che a nostro avviso, dovrebbe sconvolgere e turbare, per motivi differenti, tutti quanti: editori, pubblicitari, rappresentanti di Governi e Istituzioni e, persino, gli stessi amministratori delle potentissime techno-corporation. Loro medesimi certo, che hanno più di tutti difficoltà a rapportarsi con i contenuti che veicolano sulle proprie piattaforme. E che se non sono in grado di distinguere una mela da un trattato scientifico sulle mele hanno un grave problema di cui occuparsi. (ah già… ed è proprio così!!!). Ed è in questo scenario,  che speriamo di essere riusciti a presentare in modo comprensibile fino ad ora, che una considerazione espressa dal consigliere Sepe nella sua prolusione iniziale, acquista ulteriore immenso valore: come comportarsi quando  la pubblicità viene usata come arma di pressione sull’indipendenza di chi fa informazione. Quella che da sempre è stata la suprema divisione nel mondo dell’informazione fra i poteri, e i conseguenti rischi di pericolosa ingerenza fra gli stessi, viene superata, anzi peggio, azzerata, da un gravissimo errore di sistema che riguarda proprio la definizione del ruolo dei principali players dell’attuale sistema digitale, ovvero gli OTT. Ogni tipo di trattativa, ogni tipo di collaborazione, ogni tipo di disputa, sanzione o legge, pensata o messa in atto nei confronti di questi soggetti parte sempre dallo stesso grave errore di fondo. La necessità di relazionarsi ad essi secondo le “loro” regole e non secondo regole oggettive, o ancora meglio, realizzando insieme un percorso totalmente condiviso e trasparente di comprensione, gestione, e riscrittura del mondo secondo nuove regole, tutte ancora da capire e forse da inventare, dentro a questa nostra nuova dimensione digitale. E allora, perdonate la retorica, ma facciamolo! Adoperiamoci al più presto per affrontare il problema dall’inizio. Non disperdiamoci in migliaia di rivoli che alla fine sono tutti affluenti e confluenti nell’unico vero canale che porta, per dirla alla De Biase:

 

 

“in un luogo dove al centro di queste dinamiche ci sono inevitabilmente i flussi di informazioni. La qualità dell’informazione disponibile, la trasparenza dell’accesso, la sua comprensibilità, compatibilmente – aggiungiamo noi – all’evoluzione attuale”.

 

 

 

Un’evoluzione in cui il ruolo delle OTT oramai è molto chiaramente definito, e appare a questo punto incompatibile e non funzionale alla reale evoluzione del genere umano.

 

 

Conclusioni

 

 

Vito Crimi: Due questioni. La questione dei dati. Far sì che le aziende oggi che hanno dei dati, possano in qualche modo utilizzarli anche in proprio senza essere costrette ad affidarsi ad soggetto terzo potrebbe essere una scommessa da vincere. Sviluppare strumenti di questo tipo permetterebbe agli stessi possessori dei dati di utilizzarli direttamente in proprio. La questione non deve essere vista come una contrapposizione. Non credo che si debba intervenire per legge per limitare in qualche modo la supremazia degli OTT perché rischiamo di andare a intervenire in un mercato di fatto, che dovrebbe riuscire a trovare nuovi sbocchi. Gli Over The Top hanno una potenza di fuoco che è difficilmente contrastabile a breve, se non unendo le forze. La seconda questione è quella della trasparenza nel digitale. Credo che sia importante in particolare per gli investitori avere chiaro il percorso che è stato fatto per l’individuazione dei punti finali di pubblicazione dei loro materiali. Forse potrebbero bastare dei meccanismi trasparenti, dei meccanismi certificabili e  verificabili, anche direttamente, da parte degli stessi investitori. Questo probabilmente permetterebbe di superare alcune criticità.

Ultimo tema: andare ad approfondire il sistema della certificazione dell’audience è  un argomento anche questo non da poco, per fare in modo che sia il più trasparente possibile e accessibile a tutti.