Elaborando lo scibile e un pezzettino oltre

Luca Corsato è un data scientist, un imprenditore, e un grande amico di Lsdi e digit. Gli spunti e i ragionamenti che Luca condivide ci servono spesso da stimolo per elaborare ragionamenti che alimentano i nostri studi e le riflessioni del nostro gruppo di lavoro. In particolare l’attività di Luca di data asset management dentro OSD che è l’azienda che ha fondato circa tre anni fa assieme ad altri due esperti nella lavorazione dei dati, accendono spesso  nostre ulteriori  riflessioni perchè vanno a indagare settori molto vicini a quelli in cui operiamo qui a bottega. In un contributo postato recentemente sul suo account sulla piattaforma medium, Luca usa le sue competenze per approfondire una serie di temi che riguardano il giornalismo. L’articolo nasce come contributo ad un lavoro sul data journalism realizzato da Elisabetta Tola, un’altra grande amica di digit, giornalista e grande esperta di giornalismo dei dati,  pubblicato a sua volta su medium e che Vi consigliamo di approfondire se vi interessa la materia. Dallo scritto di Luca noi vorremmo estrarre – come al solito – alcuni passaggi che ci sembrano salienti, per poi provare a ragionarci assieme qui, costruendo una nostra specifica riflessione. Prendendo a prestito alcune idee tratte da un antico trattato di strategia militare cinese, Luca Corsato elabora alcune interessanti teorie sul giornalismo e sull’uso dei dati  – definiti oramai universalmente da tutti –  il nuovo petrolio.

 

 

Questo è il primo stratagemma secondo cui ciò che è familiare non desta attenzione, e quindi lo stratega deve simulare calma e usare dei diversivi per poi affrontare l’avversario all’improvviso. Un’applicazione di questo principio si riscontra nelle tattiche di convincimento in cui si tende a ripetere un concetto per renderlo familiare e quindi accettato. In breve, l’acqua blu di Tenco. Al momento i modelli dell’industria dell’informazione (italiana) sono ancorati alla ripetizione degli stessi modelli da decenni perché si cerca il comfort nella fornitura del prodotto e/o del servizio. Quindi abbiamo due elementi:

  1. l’industria dell’informazione che è costituita dalle infrastrutture di raccolta e distribuzione ed elaborazione (l’amministrazione, l’ICT, i commerciali etc etc…) e dalle persone che sono in grado di maneggiare conoscenza per tradurla in informazione (i giornalisti)
  2. il prodotto e/o servizio con forme classiche (articolo, post, inchiesta…) che usa poche risorse esterne (link, citazioni, riferimenti) per monetizzare al massimo la propria fonte e non confondere il fruitore.

Questa tattica si è dimostrata nel tempo autolesionista perché la conversione in valore (economico e sociale) di un articolo non è definita dal prezzo che il fruitore è disposto a pagare, ma dal numero di lettori che attrae; il numero di lettori viene convertito in un prezzo che dovrà essere pagato dagli inserzionisti.

Si può dedurre che la ricerca del comfort nell’erogazione dell’informazione, essendo generalista, ha portato alla ricerca di un consenso a discapito di un riconoscimento di valore. Quindi si è disposti a rifornirsi presso una determinata testata o giornalista, perché si condivide la posizione e l’opinione; perché il prodotto è la testata e il giornalista stesso, su cui viene definito il costo per gli inserzionisti.

 

 

 

Questo specifico passaggio del ragionamento di Luca Corsato fa il paio con una serie di analisi da lungo tempo condivise sulle nostre colonne da Marco Dal Pozzo.  L’ingegnere nostro associato, esperto di modelli sociali e grande appassionato di giornalismo, ha realizzato sul tema un  libro: 1 news 2 cents un modello sociale per l’editoria. Pubblicato nel lontano 2013, al termine di un laboratorio di studio durato quattro anni, il ragionamento scientifico di Marco Dal Pozzo è andato via via sviluppandosi ulteriormente, nel corso di questi ultimi anni. Anni in cui – è bene ricordarlo –  il giornalismo così come lo conosciamo è entrato definitivamente – secondo alcuni – nella spirale finale discendente della sua storia. Secondo noi, grazie a studiosi come Marco Dal Pozzo, e molti altri, non è così. A nostro avviso  sarà proprio il giornalismo a poter fare la differenza nel difficoltoso percorso di trasformazione della nostra società da analogica a digitale, ufficialmente compiuto da un paio, forse tre,  decenni, in realtà per molti versi mai nemmeno iniziato. Proviamo dunque partendo dall’utile spunto di Luca Corsato ad inserire nel ragionamento alcune delle ultime riflessioni aggiunte dall’ingegnere abruzzese al suo studio sulla possibilità che esista un “modello sociale per l’editoria” e dunque un modo etico e profittevole di produrre giornalismo. In un’epoca come la nostra in cui giornalismo non fa, purtroppo, più  rima con informazione e libertà, bensì sempre di più con: “campane a morto”.  Riferendosi al punto 1 del discorso di Corsato che abbiamo riportato qui sopra,  Dal Pozzo afferma che:

 

 

 

Nelle fonti che ho consultato, ho sempre trovato il percorso inverso: con “azione umana” e “azione tecnologica” il passaggio è da informazione a conoscenza, non viceversa. Conoscenza, cioè, come elaborazione di informazioni, che sono a loro volta elaborazione di dati. 

 

 

 

Per comprendere meglio i riferimenti al ragionamento qui espresso da Dal Pozzo estraiamo alcuni passaggi da un suo post che riportiamo  qui sotto e che si intitola DIKW,  pubblicato a gennaio dello scorso anno sul blog dello studioso di giornalismo.  

 

 

L’impianto teorico del modello sociale per l’editoria formulato in #1news2cents comprende lo schema WIKiD, acronimo di Wisdom, Innovation, Knowledge, Information e Data, elementi del Capitalismo Sociale secondo la visione di Dan Robles. Il WIKiD formulato Dan Robles nel 2010 era uno schema predittivo: diceva infatti Robles:

We can say that each new era was derived from the prior era by integrating the tools developed during the prior era. We have seen the data economy in the industrial revolution, we have seen the information economy with Invention of the Integrated Circuit, We are in the midst of the knowledge economy with the advent of the Internet.

 

 

Ulteriori ricerche mi hanno portato, recentemente (molto dopo la pubblicazione di #1new2cents), alla scoperta della “Piramide DIKW” (essendo DIKW l’acronimo di Data, Information, Knowledge e Wisdom, utilizzata per rappresentare le presunte relazioni tra dati, informazioni, conoscenza e saggezza

 

 

 

 

 

 

 

Traendo spunto da un altro testo di strategia militare:  Masse armate ed esercito regolare di Vo Nguyen Giap; Corsato prosegue la sua analisi sul giornalismo aggiungendo nuovi utili spunti di riflessione che vorremmo sottoporVi:

 

 

 

In questi anni alcuni giornalisti – molto pochi (aggiungiamo noi) –  si sono resi conto che se la merce sono loro stessi allora è sulle loro competenze che si deve concentrare il valore. In questa prima fase di transizione, il data journalism ha chiesto ai fruitori il costo dell’attenzione: molti prodotti risultano ostici e quindi sono distribuiti in perdita, ovvero non hanno un costo o, quanto meno, non viene messo a carico del fruitore. Ma che valore dare alla fiducia, se il prodotto e/o servizio è comunque una trasformazione di conoscenza in informazione?

Un architetto — come un giornalista in Italia — deve ottenere un’abilitazione e un’iscrizione all’albo per esercitare; se la casa crolla per errori di progettazione l’architetto viene punito perché risiede in lui la responsabilità dell’edificio. Ma se un giornalista danneggia la fiducia attraverso prodotti manchevoli di riferimenti, di dati e che ottengono molti visitatori, in che cosa incorre?

Il problema quindi è la formazione delle masse di fruitori in soggetti capaci di valutare un prodotto della conoscenza, e — contemporaneamente — convertire la fiducia in un valore (economico e sociale) generato dai fruitori. Un prodotto di data journalism per cui nessuno è disposto a pagare non agisce su un mercato.

 

 

 

Proseguendo nelle sue riflessioni Luca usa ragionamenti formulati ne il Tao della fisica di Fritjof Capra per aggiungere altri spunti e suggestioni su: giornalismo, giornalisti, competenze e mercato del lavoro:

 

 

 

Come fa un giornalista a lavorare grandi masse di dati, se non ne possiede le competenze e se quelle richieste non sono di gestione e analisi dati? E ancora: se queste competenze non hanno un riscontro immediato sul mercato, con fruitori disposti a corrispondere un valore economico e di tempo, perché un giornalista dovrebbe applicarsi a queste attività?

Sembra quasi un paradosso. Se non viene raccolta, elaborata e distribuita una certa quantità di dati e documenti a sostegno di una propria tesi, il giornalista non accumula fiducia. Tale fiducia è la base su cui si fonda la conversione in valore del giornalista stesso ma, contemporaneamente, il mercato non è in grado di definire un valore economico, sociale e informativo. Ma questo valore invece si genera però — purtroppo per i giornalisti — nel lungo termine.

 

 

E ancora dice Corsato attingendo agli scritti di filosofi e scienziati e in particolare al Tractatus logico philosophicus di Wittgenstein

 

 

 

… i giornalisti potranno produrre lavori confrontabili e i fruitori potranno operare dei riscontri: se la tecnologia ha trasformato il lettore, l’ascoltatore, il telespettatore in tanti piccoli broadcaster, allora una diffusione del metodo scientifico consentirà a tutti di poter essere giornalisti negli ambiti di interesse. Sia come fruitori che come produttori

 

Ma se i ruoli non sono definiti — anzi sono interscambiabili — al momento pare che la massificazione dei fruitori abbia contagiato i giornalisti (e viceversa)

L’industria dell’informazione (e non solo) ha totale disinteresse per i propri archivi, se non in ottica museale; le università non hanno controllo sui dati prodotti da professori e ricercatori i cui dati sono molto spesso conservati nei computer privati; chi lavora con le proprie competenze — non formalizzate perché oramai la tecnologia è troppo rapida — non è inquadrabile e il lavoratore della conoscenza in Italia non ha mercato

 

 

Si pensava che le fake news fossero una categoria nuova dentro la quale inserire tutta quella informazione che danneggia la fiducia, ma invece sempre più si riconduce ad un prodotto. Inoltre, secondo il primo stratagemma citato all’inizio, fake news è diventato un termine familiare e quindi stravolto e che non genera più attenzione.

 

 

 

Noi lo diciamo da sempre che le cosiddette “fake news” non sono un problema o meglio non sono “il problema” come vorrebbero farci credere molti benpensanti. Fortunatamente alla nostra voce – flebile, come ben sappiamo –  se ne sono aggiunte numerose altre e molto autorevoli. Come quella del professor Walter Quattrociocchi,  che ha spiegato  in modo scientifico quanto poco di sensato ci sia nel fenomeno delle fake news e quanto invece sia fondamentale, per comprendere i nostri comportamenti nell’uso, il consumo e la diffusione delle notizie on e off line,  il fenomeno della “polarizzazione”. Estraiamo  alcuni passaggi davvero utili sulla questione dal libro di Bruno Mastroianni e Vera Gheno “Tienilo accesso”:

 

 

Meglio di fake news, un’altra espressione ci aiuta a comprendere il fenomeno nella sua ampiezza , ed è disturbo informativo o caos informativo (in inglese information disorder), che fa riferimento alla situazione in cui tutti siamo immersi: un sovraccarico di informazioni, contenuti, dati, nel quale si assiste a diversi fenomeni di inquinamento che non possono essere ricondotti solamente alla presenza di notizie vere o false. Infatti un contenuto ingannevole può essere diffuso non solo per scopi economici, politici,  ideologici, da qualcuno che ne trae vantaggio (dis-informazione); può anche essere semplicemente il risultato dell’incuria o della mancanza di pensiero critico di chi condivide senza avere un’esplicita intenzione di arrecare danno (mis-informazione). E poi c’è l’insieme di informazioni che, seppur attendibili, sono immesse in rete per danneggiare qualcuno (mala-informazione): ad esempio le fughe di notizie riservate, la diffusione di video e materiali privati, ecc. 

 

 

 

Inutile dire che – a nostro avviso –  in quest’ultimo estratto dal libro di Gheno e Mastroianni, oltre alla questione fake news si evidenziano in modo chiaro temi come quello del microtargeting e della profilazione avanzata, ovvero dell’orientamento e della creazione “subliminale” dell’opinione pubblica divenuta celebre con il nome di “scandalo Cambridge analytica”. Ma non è di questo che stiamo parlando. Riprendiamo dunque  in esame le utili considerazioni di Corsato, citando il passaggio finale del suo articolo, in cui, a nostro avviso, il data scientist riassume in modo davvero efficace una delle questioni nodali che tengono insieme: giornalismo, dati, e cultura (della condivisione ma certamente non solo); come se fossero –  e lo sono certamente secondo i nostri studi –  la cerniera, lo snodo, il collante per riuscire a stare in modo consapevole e dignitoso in questo nostro mondo digitale.

 

 

Il metodo è una somma di procedure e strumenti, quindi — per mia specializzazione — parto dalla raccolta e dal modello di gestione dei dati (intesi come documenti registrati su qualsiasi supporto e tipologia, presi nella loro forma non lavorata); di seguito individuo le procedure di analisi e di documentazione e su quelle si verifica se il modello di gestione è coerente con l’obiettivo di servizio o prodotto e di knowledge base in investimento per altri lavori. Fatto questo si rifà il ciclo di sviluppo secondo un impianto PDCA (Plan Do Check Act)

 

Si potrebbe usare un modello d’impresa della conoscenza. Ogni lavoratore che agisca in questo settore sa che da solo non può realizzare nulla per via della complessità; allo stesso tempo le strutture verticali e rigide non sono in grado di organizzare la velocità di formazione e disgregazione dei gruppi di lavoratori, che si applicano ad un progetto e poi si uniscono ad altri su altre attività.

 

 

 

Come andiamo cianciando da tempo: il modello giornalistico, anzi meglio, il metodo giornalistico, è più fondato ed utile di un semplice riportare a regime dati sparsi. Uniformare i dati è importante.  Il metodo giornalistico, e non i giornalisti, potrebbe essere forse “il sistema”, assieme all’analisi e alla gestione dei dati, per riuscire ad interpretare la realtà per quello che realmente è. Quella stessa realtà che per come ci viene attualmente imposta dalle OTT in modo più o meno manifesto non è certo “realistica, tanto meno reale”. Perdonate il gioco di parole ma: bolle, camere dell’eco, algoritmi e altre percezioni indotte da modelli computazionali,  non sono certo paragonabili allo stare dentro la realtà dei fatti anche se è questo che siamo indotti a pensare dalle techno-corporation. Serve un progetto – consentiteci di aggiungere – che rimetta nella giusta direzione il “senso comune”. Quel percepito diffuso che non è cultura ma a cui tutti ci rifacciamo per vivere. Senza dimenticare che i primi effetti collaterali di questo progetto potrebbero essere: ridare un senso alla professione giornalistica e trasformare in occasione d’affari e di benessere per tutti, questa nostra società, detta anche “società dei dati”.

 

 

Grazie dell’attenzione e molti ringraziamenti a tutti gli autori citati e al loro lavoro a cui abbiamo attinto a piene mani;  alla prossima settimana ;)