Rosso profondo rosso

Per la prima volta nella storia l’istituto di previdenza dei giornalisti italiani chiude il  bilancio con segno negativo, consegnando ai posteri un passivo di oltre 100 milioni di euro. I motivi del debito li conosciamo bene. In una parola:  la crisi dell’editoria analogica e l’incapacità di trovare un nuovo modello industriale sostenibile nell’editoria digitale,  hanno fatto sì che il settore professionale del giornalismo stia perdendo pezzi e uomini e tanto denaro da anni,  senza speranza alcuna per il futuro.

 

 

La presidentessa dell’Inpgi Marina Macelloni in  una dichiarazione che accompagna il comunicato stampa dell’ente sul bilancio chiede a gran voce non piccoli aiuti o paliativi per l’amministrazione corrente ma una legge di sistema per l’editoria:

 

 

“Il dato chiave per analizzare questa dinamica – ha detto Macelloni – è quello dei rapporti di lavoro: -889 nel 2017. Negli ultimi cinque anni, un tempo tutto sommato limitato, la categoria ha perso quasi 3.000 lavoratori attivi che oggi quindi sono poco più di 15.000. A questo si aggiunga che nel 2017 sono stati erogati ai colleghi circa 7.000 trattamenti a titolo di ammortizzatori sociali; ciò ha comportato una spesa a titolo di indennità  di 24,2 milioni che, seppur in calo rispetto al 2016, rappresenta comunque per l’Ente una voce rilevante.
Sono i numeri di una vera emergenza che non mostra nessuna inversione di tendenza. In questa emergenza l’Inpgi ha continuato a fare la sua parte: abbiamo fatto una riforma durissima consentendo però a molti colleghi di utilizzare clausole di salvaguardia che nessun’altra categoria ha avuto; abbiamo cercato di dare efficienza e migliori prospettive ai lavoratori autonomi della Gestione separata; abbiamo messo in campo un meccanismo di dismissione del patrimonio immobiliare che, sia pure con qualche rallentamento, ci consente di ottenere la liquidità necessaria garantendo il massimo delle tutele possibili agli inquilini; continuiamo a tenere sotto controllo con il massimo rigore tutte le spese.
Tutto questo ormai non basta più. La crisi industriale del nostro settore non è solo un problema di sostenibilità dei conti dell’Inpgi, è un problema che riguarda tutti gli attori del sistema e che attiene al tessuto democratico del paese.
Penso che non sia più rinviabile una legge di sistema per l’editoria che riporti al centro dell’interesse pubblico il lavoro giornalistico e la tutela di un bene prezioso garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Una legge che non si limiti a finanziare il processo di ristrutturazione delle aziende consentendo l’espulsione di centinaia di giornalisti ma stimoli l’emersione e la rappresentazione di tutte le forme nuove che l’informazione e la comunicazione stanno assumendo grazie all’innovazione tecnologica e all’economia digitale. In tutta Europa i professionisti discutono e cercano soluzioni per riconoscere e tutelare i nuovi modi di lavorare e le nuove professioni. E’ ora che anche il vecchio mondo dell’editoria italiana si muova in questa direzione”.

 

 

Le parole della presidentessa dell’Inpgi fotografano in modo chiaro le problematiche in atto nel nostro comparto dal punto di vista di una delle istituzioni più importanti assieme a Ordine e Sindacato del settore dell’informazione professionale. Più o meno negli stessi giorni in cui l’Inpgi rendeva noto il proprio bilancio,  l’Agcom ha pubblicato il primo rapporto dell’Osservatorio italiano sulle testate online.  Si tratta di un’indagine realizzata dall’Autorità delle Comunicazioni in collaborazione con ANSO (Associazione Nazionale Stampa Online) e USPI (Unione Stampa Periodica Italiana);  un osservatorio sulle fonti informative che operano esclusivamente in rete. Il perimetro dell’indagine è stato caratterizzato dalla natura della testata informativa (esclusivamente digitale) e da quella dell’editore (esclusivamente online e non appartenente a gruppi editoriali che operano in altri media).  Di seguito abbiamo estratto alcuni dei passaggi, a nostro avviso, più significativi del rapporto e ve li proponiamo:

 

L’Autorità ha calcolato in ben oltre un migliaio gli editori che editano testate online; molti di essi provengono dai media tradizionali, in particolare da quotidiani e periodici. Limitando l’analisi  ai soli editori web puri, attualmente essi possono essere stimati in circa 800 unità”.

 

 

La “testa” della distribuzione è formata da un 7% di editori web che fatturano mediamente  intorno ai 3 milioni di euro. Nel mezzo, vi è un quarto di soggetti che ricavano annualmente tra i 100mila e il milione di euro (mediamente oltre 300mila euro). La coda lunga della distribuzione è formata dal  68% dei soggetti attivi nel settore, imprese che fatturano annualmente meno di 100mila euro. Il dato medio di fatturato di questa parte del settore è pari a circa 20mila euro, sono per lo più micro-imprese in cui il proprietario, spesso un ex giornalista proveniente dal mondo dei media tradizionali, svolge la  funzione di tuttofare (imprenditore, direttore responsabile della testate, …) e opera più per  passione che per finalità di lucro.

 

 

“Gli editori “amatoriali”, in media, sono composti da due persone: il fondatore-giornalista e una persona all’amministrazione e alle vendite di pubblicità (spesso locale). A questi si aggiungono tre consulenti esterni, per lo più giornalisti (due), e un tecnico informatico (per la predisposione dell’offerta online, che sia un sito o una app). Totalmente differente la struttura degli editori commerciali, che sono composti in media da 9 unità di personale e 18 consulenti esterni. La strutturazione dell’organizzazione incide non solo in termini assoluti, ma rende anche relativamente più importanti le figure di supporto ai servizi
informativi: quelle commerciali (vendita e amministrazione) e quelle tecnico-informatiche
(gestori del sito, amministratori social, addetti alla multimedialità )”.

 

 

Particolarmente significativo l’ultimo paragrafo della ricerca che conclude l’analisi e sintetizza in modo chiaro e conciso la “visione e il metodo” che andrebbero applicati,  secondo gli esperti di Agcom,  da parte delle istituzioni pubbliche e di quelle del giornalismo (permetteteci di aggiungere) per operare al meglio sul comparto:

 

 

“E necessario porre attenzione ai nuovi bisogni informativi che stanno emergendo nel  Paese e alle nuove modalità atte a soddisfarli. L’informazione online richiede competenze  diverse dai media tradizionali, quali la capacità di sfruttare i nuovi strumenti, le piattaforme e l’interazione con gli utenti. In questo contesto, la possibilità di costruire comunità virtuali di  utenti suggerisce nuove forme di organizzazione, non solo infomativa ma anche sociale, e dà  conto delle potenzialità che le testate online potrebbero avere per l’intero ecosistema digitale”.

 

 

A corollario di queste due importanti e prestigiose posizioni espresse nelle dichiarazione della presidentessa dell’Inpgi e nei risultati dell’indagine svolta dagli esperti dell’Autorità garante delle comunicazioni, coadiuvati dai tecnici dell’associazione editori online e dell’unione stampa periodica italiana; aggiungiamo la posizione del Presidente dell’Ordine dei giornalisti italiani Carlo Verna che durante l’ultima edizione di digit ha preso posizione verso l’apertura a brevissimo di una serie di percorsi di trasformazione e riforma della professione giornalistica:

 

“…  ho avviato un percorso di riforma e autoriforma della professione in sede di  vertice con i presidenti regionali dei nostri ordini. Ci sono dei margini su cui ragionare.  Nella commissione appena nominata e dedicata alla riforma della professione si dovrà discutere di autoriforma e quindi il “giornalismo per adesione”  potrà essere un qualcosa che ci aiuta e ci porta anche a risolvere un altro problema professionale. Non solo quello di tenere dentro la professione negli  attuali criteri che negano l’esercizio abusivo del giornalismo.  Forse il meccanismo di accesso alla professione così come è tuttora previsto è vecchio,  sicuramente con la legge attuale non potrà  essere abolito,  ma  questo non significa che  non potrebbe essere affiancato ad una libera adesione alle carte deontologiche.  Secondo me questo suggerimento è praticabile e quindi si potrebbe cominciare da qui a tracciare un percorso di autoriforma della professione. Dopo che nel prossimo consiglio nazionale avremo l’ok sulla commissione per la riforma,  la questione del “giornalismo per adesione” sarà uno degli argomenti su cui discutere”.

 

 

Quel  “giornalismo per adesione” citato più volte dal Presidente Verna nel suo intervento a #digitRoma, è frutto di una piccola proposta arrivata proprio da questo nostro osservatorio,  e in particolare da uno dei fondatori di Lsdi, Raffaele Fiengo. Si tratta in estrema sintesi di prevedere di allargare la base degli aventi diritto a svolgere questo nostro mestiere tenendo conto proprio delle cose che in qualche modo anche l’intevento della presidentessa Macelloni e i risultati dell’indagine dell’Agcom, sintetizzano con precisione: ovvero l’avvenuta rivoluzione digitale; il passaggio epocale in cui siamo immersi da ben trentanni e da cui difficilmente torneremo indietro, e che ci obbliga a realizzare enormi e strutturali cambiamenti anche nel comparto dell’informazione, che di questa rivoluzione è certamente uno dei grandi protagonisti nel bene e nel male.

 

 

Non abbiamo rimedi miracolosi da suggerire, vorremmo solo provare a unire qualche puntino assieme a Voi e provare a tracciare un percorso che prendendo atto dell’irreversibilità della crisi provi a tenere finalmente conto di tutte quelle forze e forme di professione giornalistica nate dentro la rivoluzione digitale. Forme e forze digitali ma che non sono poi così moderne, anzi  hanno radici antiche, come spiega bene la ricerca dell’Agcom. La maggior parte dei giornalisti che lavorano nel comparto digitale sono professionisti e pubblicisti rimasti senza lavoro e che provano a sbarcare il lunario aggredendo il nuovo mercato online. Professionisti e pubblicisti che avrebbero grande bisogno del sostegno delle istituzioni del giornalismo, non dello scetticismo o della censura della categoria. Assieme a loro tante nuove figure professionali  – di cui peraltro non si può fare a meno –  come evidenzia la ricerca dell’Agcom e che andrebbero inserite in qualche modo – rapido e indolore – dentro ai meccanismi di gestione della categoria.