Potenza e pratica della teoria

Riportiamo qui di seguito il gradito intervento di Piero Dominici, docente universitario e formatore professionista, si occupa da vent’anni di complessità e teoria dei sistemi. 

 

di Piero Dominici

 

«La disposizione mentale di un teorico è utile non solo per sondare i segreti ultimi dell’universo, ma per molti altri compiti. I fenomeni del mondo attorno a noi sono interconnessi. Essi possono ovviamente essere considerati come entità separate e studiati come tali, ma fa molta differenza se li vediamo come parte di qualcosa di più generale! Molti fatti diventano allora più che dati singoli da memorizzare: le loro interconnessioni ci permettono di usare una descrizione sintetica, una sorta di teoria, uno schema per apprenderli e ricordarli. Essi cominciano ad acquistare un senso. Il mondo diventa più comprensibile. Il riconoscimento di regolarità è qualcosa di naturale per noi essere umani: noi stessi, dopo tutto, siamo sistemi complessi adattativi. È nella nostra natura, per eredità biologica e anche per trasmissione culturale, riconoscere strutture, identificare regolarità, elaborare schemi nella nostra mente. Tuttavia, questi schemi vengono non di rado promossi o retrocessi, accettati o respinti, in risposta a pressioni selettive ben diverse da quelle operanti nelle scienze, dove l’approccio con l’osservazione è decisivo» (M.Gell-Mann, The Quark and the Jaguar, W.H. Freeman and Co., New York 1994: 112)

E già…la potenza della …teoria. Sì, proprio “lei”… la Teoria: un concetto importante (e una “pratica” importante) e, per certi versi, ingombrante, sul quale si potrebbero fornire/restituire infinite definizioni e sfumature, legate ad approcci, saperi e discipline differenti, oltre che, evidentemente, a contesti storico-sociali e di riferimento. Il Dizionario Zingarelli nel fornirne la definizione, individua diversi aspetti e significati che, ancora una volta, ne mettono in luce l’ambiguità semantica (forse) all’origine anche di certi luoghi comuni e frasi fatte che la riguardano: 1) Formulazione sistematica dei princìpi propri di una dottrina filosofica, un sapere scientifico, un movimento artistico o culturale: la teoria platonica delle idee; teoria della relatività, degli insiemi. CFR. -logia. 2) Complesso dei precetti che servono di guida alla pratica: la teoria del maneggio del fucile | (spreg.) Eccesso di elaborazione teorica: perdersi nella teoria | in teoria, teoricamente. CONTR. Pratica; 3) Sistema, modo di pensare: non condivido le sue teorie sull’amicizia. SIN. idea, opinione. La  stessa Treccani fornisce una definizione di “teoria” in termini di: “Formulazione logicamente coerente (in termini di concetti ed enti più o meno astratti) di un insieme di definizioni, principi e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare, a vari livelli di generalità, aspetti della realtà naturale e sociale, e delle varie forme di attività umana”.

 

 

Allo stesso modo, anche le teorie “scientifiche” non costituiscono/non sono dei semplici complementi, più o meno utili a livello interpretativo; esse rappresentano l’asse portante della scienza e della ricerca scientifica, evidentemente insieme al metodo scientifico. La Teoria, non soltanto guida e influenza l’osservazione “scientifica” dei fenomeni e dei processi, bensì guida e influenza anche le scelte e gli utilizzi in materia di strumenti di rilevazione. Anche perché le teorie, non soltanto quelle “scientifiche”, oltre alle parti costituite dalle ipotesi, si articolano in definizioni, formule, argomentazioni ect. che permettono, in qualche modo, all’osservatore/manager/ricercatore  di tracciare possibili percorsi verso la verificazione o la falsificazione (Popper et al.) delle ipotesi di partenza. Inoltre, le teorie possono essere/rivelarsi importanti strumenti di previsione e classificazione dei fenomeni, e non soltanto strumenti (complessi) di spiegazione dei fatti. Pierre Duhem, a tal proposito, affermava ne La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura: «Una Teoria vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una spiegazione conforme alla realtà; è piuttosto una teoria che rappresenta in modo soddisfacente un insieme di leggi sperimentali».

 

 

Con riferimento a tali questioni, siamo davvero “sulle spalle dei giganti”, con una letteratura scientifica vasta e articolata, riconducibile anche alle cosiddette scienze esatte (scienze hard), ben al di là di ogni logica di separazione tra i saperi e le discipline. Allo stesso tempo, occorre acquisire definitivamente consapevolezza che ogni conoscenza teorica e sperimentale è storicamente e culturalmente condizionata, anche se in maniera differente.  Di qui, ancora una volta, non posso che ribadire con forza, l’importanza di (1) un’educazione e formazione critica, (2) di un’educazione al “metodo scientifico” e l’urgenza di (3) un approccio sistemico alla complessità, che devono essere praticati e sperimentati fin dai primi anni di scuola, agevolando l’apertura e il dialogo tra i saperi, oltre che il famoso “apprendimento collaborativo”.

 

 

Insomma, quanto è importante la Teoria, anche con riferimento alle possibilità di fornire una rappresentazione simbolica e concettuale delle evidenze e dei dati emersi. Eppure – non è inutile ripeterlo –la teoria è quella “dimensione” (complessa e tutt’altro che lineare) che un po’ tutti disprezzano, considerano inutile, fuorviante, dispersiva (ai limiti del paradossale), soprattutto in un’epoca in cui si rivela sempre più egemone la convinzione/narrazione che i dati ci dicano tutto e che la realtà stessa sia costituita da “dati” che sono “dati di fatto”; una realtà talmente reale (misurabile) perché costituita da evidenze empiriche (quantitative e statistiche, big data etc.) che sono a tal punto auto-evidenti da non richiedere alcuna osservazione e/o interpretazione (individuazione di correlazioni e/o di nessi di causalità; osservazione e riconoscimento dei livelli di connessione etc.).

 

 

La stessa idea di “teoria” sembra quasi provocare disagio; perché la “teoria” rappresenta, soprattutto in certi immaginari produttori di “luoghi comuni” e di formule/slogans rassicuranti, non soltanto per la prassi organizzativa, un qualcosa che non serve e fa perdere tempo (e denaro), un qualcosa appunto per chi ha “tempo da perdere” (e soldi da buttare) e/o, peggio ancora, per chi non “sa fare” che, attualmente, equivale a dire per chi “non ha soluzioni” (per tutto).

 

Quante frasi fatte e, mi ripeto, luoghi comuni su questo concetto-categoria così importante: “basta teorie, contano/servono i fatti”; oppure: “non abbiamo bisogno di teorici/studiosi/pensatori – che magari siano in grado di argomentare, in maniera chiara, logica e coerente, le proprie ipotesi/tesi (in compenso, ci affidiamo ai cd. “guru” e/o i “visionari” che, come si dice, vanno alla grande…) – ci servono persone (figure iperspecializzate o, al contrario, esperti di tutto, o tecnici super addestrati?) che sappiano soltanto agire/fare”, magari “eseguire” in maniera perfetta: come se l’agire, la pratica, il saper fare e il fare, perfino la ricerca, non fossero, comunque e sempre, concettualmente e teoricamente orientati. D’altra parte, quando non lo sono, se ne vedono i risultati, non soltanto in termini di navigazione a vista. Questioni complesse e delicate che, evidentemente, riguardano anche, e soprattutto, la Politica e la vita pubblica nel suo complesso. Un po’ come le analisi e il discorso pubblico riguardanti la Cultura, con la quale addirittura, a detta di molti non si mangiava; la Cultura vista e presentata, non soltanto come un qualcosa di profondamente astratto, teorico, “inutile”, non in grado di produrre ricchezza e benessere (!). Evidentemente, dietro tali concezioni/luoghi comuni c’è una visione, non soltanto dell’economia e del progresso di un Paese, ma dell’intera società, della civiltà, del benessere sociale, dell’innovazione (inclusiva o esclusiva), della cittadinanza e dell’inclusione, del bene comune. Educazione e formazione ne sono le basi e le architetture portanti. Anche se, da qualche tempo, il clima culturale su tali questioni sembra inizi a cambiare. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e incerta, piena di criticità. E, come amo ripetere ogni volta, se non ripensiamo a fondo educazione e formazione, non andremo da nessuna parte, incapaci, se non di gestire, almeno di indirizzare il cambiamento e le profonde trasformazioni in atto.

 

 

Per queste (e altre) ragioni, ho voluto iniziare questo contributo con poche, pochissime parole di un grande scienziato e studioso, Murray Gell-Mann (Premio Nobel per la Fisica nel 1969 e fondatore, nel 1984, del Santa Fe Institute) – lo confesso, uno dei miei Autori preferiti, fin da studente, per la sua capacità di argomentare e includere –  che, contrariamente ad uno dei luoghi comuni più diffusi e difficili da sradicare nei contesti organizzativi e sociali, sottolinea/ribadisce senza mezzi termini l’importanza della teoria, alla pari di un approccio sistemico alla complessità, che può metterci in condizione di osservare, riconoscere, descrivere, comprendere la (iper)complessità. Luoghi comuni talvolta così ben radicati anche nelle istituzioni educative e formative, da mostrare tutte le nostre inadeguatezze, la nostra incompletezza e “razionalità limitata” ancor di più oggi che ci troviamo nella civiltà ipertecnologica e iperconnessa, ove tutto è “dato”. Lasciatemelo dire, davvero incredibile che lo si debba ancora fare. Comprendere la complessità della complessità (Dominici, 1998 e sgg.). Con il pensiero che va a tutt* quell* che…contano soltanto la pratica, il saper fare, soltanto le risposte e non le domande; contano ‘soltanto’ le soluzioni (dico sempre: soluzioni preferibilmente semplici a problemi complessi) e non i problemi (Popper parlava perfino di “dilemmi”); “quell* che” …contano soltanto le competenze e non le conoscenze (una di quelle che ho definito, vent’anni fa, “false dicotomie”…). Ma anche…con altre sfumature, quelli che contano soltanto i dati, le “evidenze”…naturalmente soltanto quelle quantitative. Quelli che…è scientifico e, di conseguenza, “utile” soltanto ciò che può essere ‘misurato’ in termini numerici e, ancora una volta, quantitativi. Come ho avuto modo di scrivere, in questi anni, il principio dell'”utilità della conoscenza” rappresenta uno dei grandi errori e uno dei grandi inganni dell’epoca moderna e contemporanea: un principio su cui stiamo costruendo (demolendo) la futura Scuola e la l’Università del futuro. Mentre – lo ricordo sempre – nei vecchi corsi di metodologia della ricerca, molto duri e impegnativi, ci veniva insegnato, tra le tante questioni trattate, che “i dati non parlano mai da soli“. Infine…quelli che “conta soltanto la ricerca”, ignorando o facendo finta di non sapere, che non esiste ricerca (o attività di ricerca) che non sia teoricamente e concettualmente orientata (come qualsiasi attività umana). A conferma di quanto sia diffusa questa mentalità/visione/narrazione (al di là di qualche citazione o frase di circostanza usate in pubblico), basti pensare a quanto la stessa parola “teoria” venga vista e utilizzata quasi con (grande) sospetto. Per non parlare del termine “teorico” (sia come sostantivo che come aggettivo): termine adottato anche per screditare Persone, studiose/i, esperte/i, incapaci (a loro dire) di fornire soluzioni rapide per qualsiasi tipo di problema. La parola “teorico” viene usata, talvolta, addirittura come un insulto.

 

 

Discorsi analoghi si potrebbero fare per la parola “filosofia” e il termine “filosofo”. In molti casi, stanno ad indicare, soprattutto nel nostro contesto storico-culturale (ma basta andare un po’ all’estero per rendersi conto di quanto le cose stiano in maniera diversa), figure e attività del tutto inutili, astratte e distanti dall’esperienza (?), perfino dalla vita reale e dalle soluzioni (?) che questa richiede. Soluzioni che debbono essere semplici anche per problemi complessi e multidimensionali.

 

 

Quasi paradossalmente, la teoria, confusa con la “storia del pensiero”, molto spesso, viene non considerata e/o disprezzata proprio da coloro che, al di là dei campi in cui operano, non hanno mai fatto (veramente) “ricerca”. Proprio da coloro che continuano a confondere la metodologia con la tecnologia, o, peggio ancora, la metodologia con il digitale. Un disprezzo o, comunque, una sorta di disprezzo che, proprio in linea con quanto detto, accompagna, più in generale, anche chi studia, chi pensa(?), chi riflette sui problemi, sui processi, sulla vita, sulle culture, sull’identità, sui diritti, sui dilemmi (magari, con un approccio critico), sulle dimensioni, che caratterizzano tutti i sistemi complessi adattivi, dell’imprevedibile e dell’incerto, dimensioni complesse e non facilmente misurabili. Un disprezzo e un sospetto che, in questi decenni, hanno segnato profondamente anche il discorso pubblico sulla “cultura”; derive alle quali, in molti casi, non si è sottratto neanche il dibattito (e la distribuzione delle poche risorse a disposizione) all’interno dello stesso mondo accademico e della ricerca, Una sorta di “sospetto” che colpisce anche chi analizza e studia per progettare “qualcosa di più grande e importante”, pensando soprattutto al lungo periodo (oggi, finalmente, tutti ne parlano, per poi continuare a lavorare nella direzione opposta).

 

Sempre in questa prospettiva, fateci caso, nel nostro Paese le fasi e il lavoro di ideazione e progettazione non vengano (quasi?) mai retribuiti. Non sono considerati e riconosciuti importanti, ed è davvero incredibile, per numerosi motivi. Si paga, nella migliore delle ipotesi, il “prodotto finito”…e poi, via! Tutti a parlare (giustamente, peraltro) di “cultura del progetto”. E tutto ciò è tutt’altro che casuale: anzi, è indicativo e indicatore di una cultura che considera meno importanti la creatività, l’immaginazione e la capacità di progettare. In qualche modo, le ha perfino gettate fuori dai luoghi dell’educazione e della formazione.

 

 

Dicevo: un sospetto e una sorta di disprezzo che accompagnano i pensatori, i teorici, gli studiosi/le studiose, per non parlare dei cd. intellettuali (‘categoria’ effettivamente in declino, per tutta una serie di ragioni); tutt* coloro che svolgono un lavoro intellettuale, i cui “effetti”, di fondamentale importanza per le Comunità, per la vita pubblica, per la salute delle democrazie, non appaiono immediatamente evidenti, riconoscibili, misurabili. E spesso proprio coloro che disprezzano o, comunque, considerano inutili certe “figure”, ricercano, esaltano, enfatizzano i guru, i visionari, gli entrepreneur etc. E sottolineo: non si tratta, evidentemente, di una critica a chi si auto-definisce e/o si presenta così.

 

 

Per concludere, non mi resta che aggiungere (‘cose’ note e stra-note, nonostante il pensiero-narrazione dominante…) che, proprio nella ricerca scientifica, da sempre, “teoria” e “ricerca” si alimentano vicendevolmente. Come ho avuto modo di ripetere più volte negli anni, le sfide della (iper)complessità sono sfide, in primo luogo, educative che riguardano l’educazione e i processi educativi, lo spazio relazionale e comunicativo: si tratta di sfide che richiedono un grande sforzo, a tutti i livelli. Non sarà semplice né tanto meno sarà uno sforzo di breve o medio periodo. E, forse, finché non prenderemo coscienza di essere “deboli” proprio a livello di teorico, per non parlare di sistemi di pensiero, non andremo troppo lontano, continuando – come detto – a navigare a vista, incapaci di affrontare le sfide di una ipercomplessità sempre più incerta e imprevedibile. L’impressione, assolutamente personale, è che – tranne qualche eccezione – stiamo continuando ad educare e formare dei meri “esecutori” di funzioni/mansioni – abilissimi nel “saper fare” – in una realtà sempre più (iper)complessa in cui la dimensione del tecnologicamente controllato si rivela dominante e richiede menti elastiche strutturate da un pensiero che non può che essere sistemico e multidimensionale. Con profonde implicazioni per le questioni cruciali riguardanti la vita pubblica, la cittadinanza, l’inclusione, la democrazia, il bene comune. Concetti-chiave, parole e “principi” fondamentali che rischiano di rimanere semplici slogan.

 

 

Riporto di seguito uno dei numerosi contributi di carattere divulgativo su queste tematiche:

Ripensare l’educazione nell’era della rapida obsolescenza 

di Piero Dominici, Università degli studi di Perugia

Il passaggio alla ipercomplessità e l’urgenza di pensare al “lungo periodo”: ecco perché bisogna ripensare l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione

 

 

Riprendo la mia analisi partendo da qui: “Siamo di fronte ad una ipercomplessità che si è estesa a tal punto da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della stessa. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti”, di conoscenza scientifica; una produzione funzionale proprio all’analisi e gestione di questa ipercomplessità, funzionale a creare quelle condizioni sociali e culturali in grado di contrastare l’imprevedibilità che connota i sistemi organizzativi e sociali” (2003).

 

 

Alla luce delle precedenti considerazioni, mai in passato come nell’attuale “società iperconnessa” (2003), occorre educare alla complessità, al “metodo scientifico” e ad una visione sistemica dei problemi e dei fenomeni: ad un primo livello di azione, saper quanto meno riconoscere questa ipercomplessità può significare essere in grado di creare le condizioni per poterla gestire (?) e trasformare in opportunità. Questioni di fondamentale importanza, questioni decisive, strategiche sia per le organizzazioni che per le democrazie, peraltro segnate da una profonda crisi. Eppure nella “società ipercomplessa” (2003), anche tutto ciò rischia di non essere più sufficiente: sempre più di fondamentale importanza è saper anche comunicare questa (iper)complessità, riportando in primo piano (se ancora ce ne fosse bisogno) la questione delle conoscenze e delle competenze, oltre che l’urgenza di superare, una volta per tutte, le “false dicotomie” (Dominici 1998 e sgg.). Nella cd. società della conoscenza non basta più “sapere” e non basta più “saper fare”: dobbiamo necessariamente educare e formare a “sapere”, “saper fare”, ma anche, e soprattutto, a “saper comunicare il sapere” e a “saper comunicare il saper fare”. Si tratta di conoscenze e competenze ormai richieste in tutte le professioni ad elevato contenuto conoscitivo, che caratterizzeranno sempre più la “società della conoscenza” e l’economia della condivisione. Ecco perché non è possibile non tornare, ogni volta, sulla centralità strategica di Scuola e Università, sui percorsi didattico-formativi che propongono e sui relativi obiettivi. Non temo di apparire ripetitivo, perché si tratta della “questione” delle questioni. Se non interverremo in maniera profonda e sistematica su tali dimensioni – educazione e formazione – ci ritroveremo in una condizione problematica di perenne ritardo culturale rispetto, appunto, alla complessità, multidimensionalità e ambivalenza che caratterizzano, da sempre, i processi di innovazione e mutamento. Processi che, peraltro, con la loro attuale estrema velocità e imprevedibilità, con il loro essere in continua evoluzione/metamorfosi, oltre a creare i consueti problemi di controllo e gestione – tipici di tutte le fasi storiche di mutamento e innovazione tecnologica – determinano, e continueranno in futuro a determinare sempre più, la rapida obsolescenza delle conoscenze, delle competenze, dei profili curriculari (Dominici 2003 e sgg.), nel frattempo definiti, formati e riconosciuti dalle istituzioni educative e formative. In altre parole, il problema è: come ripensare Scuola e Università, come ripensare i percorsi didattico-formativi, come ridefinire i profili curriculari e professionali in una fase così segnata da traiettorie irregolari e discontinuità ? E come provare a farlo tenendo in considerazione una società ed un mercato del lavoro sempre più in continua evoluzione? Come provare a cambiare le tradizionali/consolidate logiche e culture organizzative che contraddistinguono le nostre istituzioni educative e formative? Operazione tutt’altro che semplice, oltre che di “lungo periodo”. La stessa ricerca scientifica si basa, attualmente, su logiche che scoraggiano, ostacolano apertamente il dialogo tra i saperi e l’interdisciplinarità, pre-requisiti essenziali per poter affrontare i dilemmi e le sfide della ipercomplessità. E, non possiamo nascondercelo, tale evoluzione sta mettendo in mostra tutta le nostre inadeguatezze, essendo talmente rapida e inarrestabile da accorciare drammaticamente il “ciclo di vita” delle conoscenze e delle competenze necessarie; talmente rapida e imprevedibile (p.e., intelligenza artificiale e robotica lasciano intravedere, con molte difficoltà, scenari del tutto inimmaginabili) da favorire l’obsolescenza anche di tutte le decisioni assunte, oggi, in materia di profili e curricula professionali del prossimo futuro.

 

 

 

In tal senso, come sostenuto anche in tempi non sospetti, si rivela estremamente rischioso, oltre che fuorviante, anche soltanto pensare di poter definire i percorsi didattico-formativi e curriculari, ma anche gli stessi profili professionali, solo, ed esclusivamente, sulla base delle cd. “esigenze del mercato” e/o delle richieste sempre più specifiche delle imprese. So bene che sono in molte/i a pensarla in maniera diametralmente opposta (la maggioranza degli addetti ai lavori e dei cd. esperti), ma ritengo questa impostazione estremamente sbagliata, e on soltanto rispetto alla natura ed agli obiettivi che le istituzioni educative e formative dovrebbero avere.

 

 

Siamo ancora dentro logiche di “breve periodo”, che sono quelle della risposta/soluzione immediata, del controllo, dell’equilibrio a tutti i costi, dell’emergenza. Detto in termini più espliciti: ha ancora senso continuare a rincorrere un mercato imprevedibile e in costante evoluzione? Il rischio, estremamente concreto, è sempre quello di continuare a “rincorrere l’innovazione tecnologica e digitale”, subendola, senza neanche saper se ci sarà il tempo necessario per adattarvisi e provare a gestirla. In questa prospettiva, al di là dei tanti paradossi del mutamento in atto, il “grande equivoco”, nella/della civiltà ipertecnologica e ipercomplessa, è proprio quello di continuare a pensare l’educazione e i processi educativi (vale anche per la formazione) come “questioni esclusivamente di natura tecnica”, un problema soltanto di “competenze”, legato al “saper fare” (punto e basta); una questione complessa da affrontarsi puntando tutto su velocità e simulazione.

 

 

 

Se non si ripensa l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione (continua e sistematica, con una parte flessibile e modulare) di tutte le figure coinvolte ai vari livelli anche decisionali, non andremo molto lontano e continueremo a tentare di cavalcare il mutamento, la sua ambiguità e indeterminatezza, ricorrendo alle solite vecchie logiche di breve periodo. Navigando a vista.

 

 

 

Mai come oggi, si avverte l’urgenza di un’educazione (non soltanto digitale) che dev’essere immaginata e ripensata, comunque e sempre, nella direzione della costruzione sociale e culturale della Persona (prima) e del Cittadino (poi). Educare alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico, nutrendo e alimentando un pensiero che non può che essere multidimensionale.

 

 

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Vi ringrazio per il tempo dedicato e Vi auguro buona riflessione.

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I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi. 

Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.

 

 

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