Pubblicità ‘’nativa’’: pollice su o pollice verso?

native-ad-cop Sembra che il native advertising, la pubblicità ‘’nativa’’, sia la soluzione a tutti i problemi  dell’ industria giornalistica: offre agli inserzionisti un modo per raggiungere i consumatori che dovrebbe invertire anni di calo dei tassi di click e promette agli editori disperati un po’ di ossigeno sotto forma di nuovi flussi di entrate. Ma mentre è già un segmento multimiliardario del settore pubblicitario e  in rapida crescita (71 % l’ anno scorso, secondo le stime BIA /Kelsey), presenta un grosso problema: in molti casi, risulta un tentativo di ingannare i consumatori facendo loro pensare che stanno vedendo qualcosa che non è un annuncio a pagamento.

 

MediaPost torna sulle questioni sollevate dallo sviluppo sempre più intenso del native ad, con un’ ampia e approfondita analisi dei problemi del settore, di cui pubblichiamo qui una ampia sintesi.

 

Prima di tutto dice Erik Sass, l’ autore dell’ analisi, non esiste ancora una definizione standard di ‘’pubblicità nativa’’, anche se varie organizzazioni, tra cui l’  Interactive Advertising Bureau, stanno lavorando per sviluppare delle linee guida e delle raccomandazioni.

 

Ma in ogni caso resta la sgradevole verità che un buon numero di annunci nativi siano intrinsecamente ingannevoli.
In breve, ‘’questi messaggi di marketing vengono presentati in un modo che li rende difficili da distinguere dal contenuto editoriale, compresa la loro posizione sulla pagina, la scelta dei font, la grafica e il layout: il tutto nel tentativo di convincere i lettori a dare ad essi la stessa considerazione – e fiducia – che danno ai contenuti editoriali’’.

 

Stato e Chiesa
 
Il problema non è ‘’semplicemente che si rompe l’ antica tradizione della separazione della chiesa dei contenuti editoriali dallo Stato dei messaggi commerciali, ma che essi possono concretamente confliggere con le leggi che tutelano i diritti dei consumatori’’.

 

In particolare, per quanto riguarda gli Stati Uniti la sezione numero 5 del Federal Trade Commission Act, secondo cui un annuncio è  considerato “ingannevole se omette informazioni rilevanti’’, e ‘’l’ omissione può indurre in errore il consumatore’’.
 
Lo ha ribadito di recente un seminario organizzato dalla stessa FTC (ne abbiamo parlato qui) e che, come aveva già osservato MediaPost, ha fornito più domande che risposte.
 
In ogni caso, secondo il commissario della FTC, Edith Ramirez, “pubblicando annunci che assomigliano a contenuti editoriali, un inserzionista rischia di essere accusato di inganno se quei contenuti vengono fatti passare per informazione che proviene da una fonte non di parte”.
 
Che poi è proprio quello che si prefigge il native ad.
 
Sass cita la copia di una newsletter della Gilbert & Davis (un’ azienda specializzata in problemi giuridici del marketing e della comunicazione) in cui gli autori sottolineavano come questi problemi esistessero anche prima delle attuali forme di pubblicità nativa, ricordando le precedenti forme di pubbliredazionali, segnalazioni a pagamento, comunicati stampa su video e altri approcci che oltrepassavano il confine fra ‘chiesa’ e ‘stato’in maniera ingannevole, e ricordando “decenni di azioni di contrasto nei confronti di editori, oltre che dei produttori di telepromozioni e degli operatori di falsi siti web di informazione che commercializzavano prodotti. In queste azioni, la FTC ha sempre invocato la sezione 5 del FTC Act , in base al quale omettere dei dati relativi ai prodotti pubblicitari è un’ operazione ingannevole”.

 
Si può sostenere che la pubblicità nativa sia solo la logica progressione delle tendenze in atto nei media digitali, tra cui l’ idea che i brand siano ormai degli editori, o, cosa ancor più dirompente, che essi possono essere dei  “giornalisti”. Si può anche mettere in discussione la tradizionale separazione giornalistica fra ‘’chiesa e Stato” – con un firewall tra contenuti editoriali e  pubblicità – che si è affermata nel XIX secolo , quando i giornalisti cominciarono a premere sugli editori per essere protetti da considerazioni commerciali. Ma resta il fatto che la maggior parte degli adulti americani prendono ancora quella divisione per scontata, osserva MediaPost.
 
Al di là delle indicazioni del FTC Act, negli Stati Uniti la separazione tra prodotto redazionale e pubblicità è sancito da  regole come le linee guida emanate dalla American Society of Magazine Editors, le quali sottolineano come “i consumatori dei media devono sempre essere in grado di distinguere tra  contenuti prodotti da giornalisti e contenuti forniti dagli inserzionisti. In altre parole, non ingannare il lettore”.  Per quanto riguarda in particolare i media digitali, l’ ASME afferma che “la pubblicità nativa non deve usare font e grafica simili a quelli utilizzati per i contenuti editoriali e deve essere separata visivamente dal contenuto editoriale”.
 
Leggendo le linee guida di ASME – aggiunge Sass –  ‘’è difficile evitare la sensazione che non solo la gran parte degli annunci nativi violino queste regole, ma che sarebbe stato impossibile per essi obbedire alle regole mantenendo la loro efficacia. In pratica, il punto è che gli annunci sembrano analoghi ai contenuti che li circondano – e se non lo fossero la cosa non funzionerebbe altrettanto bene’’.

 

native-adRischi per la reputazione editoriale

I rischi per la reputazione degli editori a questo punto sono reali, dice il servizio di MediaPost.
 
Una cosa è quando un paio di annunci sembrano contenuti editoriali, un’ altra è il fatto che ora ci sono così tanti annunci nativi, e così abilmente dissimulati, che in questa strana inversione sta effettivamente diventando difficile dire se un articolo è contenuto e non pubblicità. In questi giorni, Mashable ha pubblicato un post intitolato “Snickers Explains Why Godzilla Was So Mean”. Il post contiene un video divertente, in cui si vede come il mostro in realtà avesse solo fame, e che, una volta che ha mangiato un po’ di prodotti Snickers, diventa una creatura affabile e alla mano. Si tratta di un annuncio … oppure cos’ è? Si chiede Sass.
 
Non c’è nulla che lo identifica come una pubblicità presentata da Mashable (nessuna avvertenza o logo di Snickers accanto al titolo) e niente che faccia capire che si tratta di un annuncio, sostiene Sass. Però, diremmo noi, c’ è il nome del brand nel titolo).

 

Però funziona
 
Certo – continua MediaPost –  una cosa che si può dire in difesa della pubblicità nativa è che essa funziona. Ma questo ci porta ad un altra spiacevole verità: vista la storia dei precedenti formati degli annunci online (pop- up, spam, display) è molto probabile che l’ efficacia della pubblicità nativa diminuisca rapidamente una volta svanito l’ effetto novità.
 
Questo è ancora più probabile alla luce del vecchio approccio, non ancora abbandonato, di molte aziende: Sam Ford, un dirigente della società di comunicazione strategica Peppercomm e membro del consiglio etico del WOMMA (un’ associazione non profit che si occupa di comunicazione e marketing), ha osservato: “le aziende hanno ora la capacità di raccontare delle storie, ma per il 90 % del tempo stiamo continuando a fare quello che abbiamo sempre fatto. Stiamo cercando di far credere alle persone quello che vogliamo credano, in fondo è  solo il vecchio modello di persuasione”.

 

Ma gli inserzionisti ci stanno?
 
Ma, alla fine, si chiede Sass,  c’ è un modo per salvare la pubblicità nativa da se stessa? La questione si riduce alla qualità dei contenuti presentati nelle inserzioni. Il contenuto nativo deve ‘’meritare’’di essere lì. Il lettore deve essere colpito da quello che vede.
 
Ryan Skinner, un analista di Forrester ha osservato:  “Più valore i marketer riescono a infondere nella loro pubblicità natriva, meno i lettori sentiranno di essere stati illusi e presi in giro’’. Per realizzare tutto ciò, ha proseguito, il contenuto deve essere: “etichettato come pubblicità e contenere il nome del brand’’, ‘’degno di essere condiviso’’ e ‘’prezioso sia per l’ azienda che per il pubblico’’. Inoltre, gli annunci nativi dovrebbero essere mirati “nei confronti di un pubblico specifico, di nicchia… in uno scenario in cui il lettore non è sorpreso di trovare delle vicende relative a quei brand’’.
 
Analogamente, Justin Choi, presidente e CEO della piattaforma di native ad Nativo, individua una serie di criteri per il contenuto nativo che “merita” la coesistenza con quello editoriale.
 
–          In primo luogo , “deve essere contestualmente pertinente a quello che i lettori stanno già attivamente consumando sul sito editoriale’’.

–          In secondo luogo , “i consumatori devono imparare qualcosa o ottenere in qualche modo un beneficio da quel contenuto ” e,

–          terzo,  “se il lettore clicca deve ricevere una esperienza che si attende’’ e cioè che il contenuto non sia troppo in contrasto con quello che suggerisce.

 
Ford ha osservato che tutto ciò richiede degli inserzionisti. “Dovete conoscere le comunità che state cercando di raggiungere. Dovete guardare il mondo e la vita dal loro punto di vista e capire quello che serve loro”.  In sostanza – conclude Sass -, ogni annuncio nativo deve essere buono almeno come il contenuto editoriale intorno ad esso, e ciò richiede tempo e spese, insomma è un processo costoso, ad alta intensità di manodopera – l’ esatto opposto di ciò che gli inserzionisti vanno di solito cercando. “Creare il contenuto che la gente vuole vedere è la vera sfida “, secondo Ford: ma la questione aperta è se gli inserzionisti lo capiscono.