Il longform è trendy, ma gli editori vanno ancora a caccia di clic

Pando-zeroNel 2013 il longform journalism, il giornalismo narrativo, di approfondimento,  è stato al centro di grande interesse negli Stati Uniti ma un servizio di questo tipo, che ha dei costi molto alti, produce lo stesso numero di clic di un contenuto aggregato o della foto sexy di Miley Cyrus.  Gli editori e gli inserzionisti continuano a usare il metro del numero di clic, del traffico, e quindi il giornalismo longform deve trovare altre strade per sostenersi. Ma qualche azienda, come Chartbeat o Moat cominciano ad usare strumenti diversi, misurando il numero di visitatori che tornano o , attraverso il movimento del mouse, quelle inserzioni che attirano di più.

 

 La rincorsa del traffico è una corsa verso il basso – spiega Erin Griffith su Pando -. L’ unico modo per dare ai media digitali maggior valore è dare maggior valore agli annunci pubblicitari. Un passo in questa direzione è far pagare di più quelli inseriti in testate che  portano un’ audience fortemente coinvolta. E il longform journalism va in quella direzione.  

 

 

Longform is trendy, but publishers are still chasing fast clicks

di Erin Griffith

(Pando.com)

 

Nel 2013 , il mondo dei media è stato dominato dal tema del giornalismo  longform, il giornalismo fatto di ampi e approfonditi servizi.

 

C’ è stato Epic, il progetto longform di Medium , e Beacon,  il progetto di giornalismo investigativo creato dall’ ex caporedattore di Facebook Daniel Fletcher. Vox media ha partorito interessanti e ben confezionati servizi  longform a tonnellate . Politico ha lanciato un magazine per far decollare la sua sezione longform . ProPublica  ha fatto partire un magazine di giornalismo investigativo.  E anche testate note per i loro titoli adesca-clic e il lavoro di aggregazione,  come Buzzfeed , Business Insider , Mashable e Gawker , hanno cominciato a pubblicare lunghe  inchieste presentate in forme molto ricche. In agosto  Hamish McKenzie ha definito il giornalismo longform  “la nuova necessità”.

 
Chiaramente gli editori digitali vorrebbero fare un buon giornalismo, che però costa. E i loro standard finanziari non sono ancora in grado di sostenerlo.  Certo , alcuni gruppi editoriali hanno messo a punto degli schemi di monetizzazione per questo tipo di servizi:  Epic spera di vendere le opzioni per le sue storie agli studi cinematografici, Beacon intende utilizzare il sistema del crowdfunding per finanziare i giornalisti impegnati nelle loro inchieste e altri potrebbero ricorrere alla sponsorizzazioni dei servizi o ai micropagamenti per singoli pezzi.

 

Ma la maggioranza degli editori digitali monetizzano quei contenuti ancora alla vecchia maniera : misurano l’ audience attraverso pagine viste e visitatori unici, e questi sono ancora i parametri che gli inserzionisti utilizzano per le loro decisioni di spesa .

 

Il problema è che un servizio longform ben costruito ottiene la stessa quantità di lettori di un contenuto aggregato o della foto sexy di Miley Cyrus. Per un inserzionista quei servizi hanno essenzialmente lo stesso valore anche se l’ inchiesta ha richiesto settimane per l’ editing, la confezione e la promozione. E’ così anche se i lettori rimangono sul pezzo  longform per una media di dieci minuti ciascuno, scorrendo tutta la storia fino in fondo e condividendola ,  invece del nanosecondo dedicato all’ articolo su Miley. Il clic è ancora l’ atto monetizzabile, ed è l’ elemento equalizzatore per eccellenza del web.
 
Il longform costituisce uno strumento per costruire il brand della testata per l’ editore. Rende la pubblicazione attraente e consente di reclutare i giornalisti migliori,  quelli che vogliono fare giornalismo investigativo approfondito.
 
Intanto il mondo della pubblicità non è particolarmente soddisfatto dell’ attuale paradigma, cioè: parla di banner e di percentuali di clic a un addetto ai lavori della pubblicità tech e ti troverai sommerso da una diatriba su come li abbiamo ammazzati entrambi (e a questo punto, di nuovo, forse il native advertising ci salverà tutti).
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Un’ azienda che sta cercando di cambiare questa situazione su entrambi i fronti è Chartbeat. Il suo CEO, Tony Haile, è stato parecchio ” incazzato’’ per il modo sbagliato con cui i media inseguivano il traffico . Ha visto in prima persona il sistema usato da quasi tutti i grandi media del settore, dal Washington Post al New York Magazine . Spesso , le storie ad alto traffico con grandi titoli portano coinvolgimento zero, dice .

 

E ‘ così frustrato che , il mese scorso , ha deciso di basare l’ intera azienda su una soluzione. Se la sua soluzione sia quella giusta  è troppo presto per dirlo, ma ora essa costituisce la missione principale di Chartbeat . “Voglio che l’ industria editoriale si sposti dallo sviluppo del traffico allo sviluppo dell’ audience’’, dice.
Chartbeat già misura quanto tempo i lettori dedicano a un singolo articolo e se lo abbiano letto in maniera attiva.
 
Ma ora Chartbeat ritiene che l’ elemento chiave per misurare l’effettivo coinvolgimento sia la frequenza con cui un lettore ritorna. “Scrivere un articolo con elementi ‘spettacolari’ può anche portare a un aumento dei clic , ma il lettore non tornerà. Scrivere ottimi contenuti invece lo farà tornare “, dice. Il longform è il campo dei contenuti ideali, o qualcosa del genere .
 
Pando2Accanto a questo, Chartbeat ha lanciato ora un nuovo prodotto per aiutare gli editori a misurare il ritorno dei lettori. Si tratta di Chartbeat Publishing for Editorial, che segue secondo per secondo il comportamento di ogni singolo lettore a ogni singola visita e aiuta gli editori a capire che cos’ è che  influenza la propensione a tornare.

 

In un mese il 40% dei clienti hanno acquistato il prodotto. Secondo Haile l’attenzione sui visitatori abituali sembra stia cambiando il modo con cui si può  valutare il traffico che viene dai referer. Ad esempio: un link che viene da , diciamo, Yahoo potrebbe non portare lettori che diventano abituali , rispetto a un a un link che viene , diciamo, da LinkedIn . Ciò significa che gli editori possono concentrarsi sui tipi di contenuti che creano la ripetizione delle visite e puntare meno su quelli che portano grande traffico.  Haile spiega che l’obiettivo è quello di cambiare il modo di pensare dei pubblicitari, convincendoli a dire: “Abbiamo bisogno di più tempo da parte di gente coinvolta e di articoli di maggiore qualità’’, che poi sono quelli che l’ editore vorrebbe produrre in ogni caso.

 
Chartbeat non è la prima azienda concentrata sull’ engagement. Altri sforzi si sono sviluppati sul versante della pubblicità e quasi tutti contano ancora sul temuto click. I social media sono fissati sulla misurazione del coinvolgimento attraverso i clic con la costruzione di una miriade di stimoli di basso impatto che ci convincano a cliccare o a toccare, sia il ‘’favorito’’ su Twitter , il cuoricino di Instagram o un ‘’mi piace’’ su Facebook.  L’ unica azienda che, a quanto mi risulta, ha eliminato la misurazione a clic è Moat , una startup nel campo tecnologico che usa i movimenti del mouse per monitorare come un banner pubblicitario è stato frequentato invece che contare il numero di clic .

 

Haile osserva che gli inserzionisti digitali comprano spazi pubblicitari per il traffico o per l’ audience.  La rincorsa del traffico è una corsa verso il basso – è pura merce. L’ unico modo per dare ai media digitali maggior valore è dare maggior valore agli annunci pubblicitari. E un passo in questa direzione è far pagare di più quelli che portano un’ audience che sia coinvolta e che ritorni.