Fotogiornalismo. Me-mo, un progetto ambizioso, riprendere il controllo di tutto il processo creativo

Memo

Un progetto ambizioso, ma necessario. Una nuova realtà che possa finalmente dare lo spazio che il fotogiornalismo si merita e che spesso, soprattutto in Italia, le viene negato.

 

Il progetto Me-Mo nasce da cinque fotogiornalisti che hanno deciso di unire le forze per dare vita a un digital magazine indipendente e completamente nuovo che dia la giusta visibilità ai lavori di questi professionisti dell’ immagine e che possa essere anche una sorta di laboratorio per sfruttare appieno le nuove opportunità che il digitale offre in questo campo.
 

 

di Fabio Dalmasso

 

Fabio Bucciarelli (Robert Capa Gold Medal, World Press Photo, Prix Bayeux-Calvados), Manu Brabo (Pulitzer Prize, Prix Bayeux-Calavados, POYi), Guillem Valle (World Press Photo, Best of Photojournalism), Diego Ibarra Sánchez (NYT contributor) e José Colón (AFP contributor) sono i fondatori e gli ideatori di questa progetto che in rete, grazie al crowdfunding, sta facendo già molto parlare di sé.

 

A due settimane dalla chiusura, infatti, Me-Mo ha già raccolto più di 12.000 euro, più dell’80% dei 15.000 necessari per partire.

 

Me-Mo sarà un magazine con web-reportage interattivi con cui verranno raccontati e documentati i conflitti e le ingiustizie: disponibile come app al costo di cinque euro a numero, Me-Mo si appresta a diventare una delle realtà giornalistiche più interessanti e innovative, grazie anche alla professionalità degli ideatori.

 

Lsdi ha intervistato Fabio Bucciarelli per saperne di più.

 

 

Come e perché è nato il progetto Me-Mo?

 

Il progetto è nato da una duplice esigenza di noi cinque fotografi che ci conosciamo ormai da anni: da una parte l’ idea di tentare di dare qualcosa di più alla fotografia, soprattutto in un momento in cui il digitale è all’avanguardia e ci offre delle prospettive e possibilità di lavoro notevoli. In questo senso è possibile quindi unire alla fotografia anche altro materiale, che può essere un video, un’animazione etc…, cioè altri contenuti che aumentino il valore documentaristico dell’ immagine.

 

L’altra esigenza è invece quella di essere autonomi, non avere cioè una direttiva editoriale o dover passare attraverso riviste e magazine, ma pubblicare quello che noi crediamo che debba essere pubblicato. Quando si lavora per qualsiasi rivista o magazine si manda solitamente una selezione di fotografie che vengono poi scelte dall’editor e impaginate e, a volte, subiscono anche dei crop.

 

Quello che vorremo fare noi è invece avere il controllo su tutto il processo creativo.

 

Un controllo che ora, collaborando con riviste e magazine, manca?

 

Giustamente ognuno vuole dire la sua: ti pagano per un servizio e poi scelgono loro quale fotografia usare, quale mettere in copertina o come deve essere impaginato il reportage. Con il nostro progetto saremo invece noi a decidere il processo documentaristico del reportage, senza filtri.

 

Per finanziare Me-Mo avete avviato un crowdfunding, come sta andando?

 

Sta andando molto bene, mancano meno di 20 giorni e abbiamo superato l’80% della cifra prevista, siamo a circa 12.000 euro su 15.000. Siamo primi nel ranking mondiale di IndieGogo sulla fotografia, abbiamo avuto un feedback più che buono e siamo visti in tutto il mondo, tranne in Cina e Iran. Sono moltissime le persone che hanno donato e questo, secondo me, è un’ottima cosa: nelle campagne di crowdfunding possono esserci 10 persone che danno 2.000 euro oppure 20.000 persone che danno 1 euro. Noi abbiamo avuto moltissime persone che hanno dato secondo quello che ritenevano giusto e questo è un valore aggiunto: non abbiamo pochi investitori privati, bensì un numero elevato di persone che ci hanno seguito. Questo è ottimo e allo stesso tempo ci dà una grandissima responsabilità

 

Ho letto che lavori molto per giornali esteri: una scelta o una necessità, vista la difficoltà del mercato italiano?

 

La figura del fotografo in altri paesi, come Usa o Francia, è vista in maniera totalmente diversa da come è vista qui in Italia: sono molto più abituati ad avere a che fare con la figura professionale del fotografo e, ad esempio, in Francia ci sono anche i sindacati. Penso poi che anche a livello di cultura di immagine siano sono molto più avanzati: in Italia, tendenzialmente, tolti due quotidiani, cioè La Stampa e Il Fatto Quotidiano per i quali lavoro e che hanno un interesse per la fotografia, in molti altri quotidiani le fotografie vengono viste come riempitivi.

 

Il paradosso però è che manca questa cultura dell’immagine, ma poi la grande maggioranza delle persone, leggendo un quotidiano, guarda subito le fotografie o il titolo in prima pagina e poi decide se proseguire la lettura. Tutto questo, chiaramente, è amplificato in un momento di crisi editoriale come quello attuale.