Mobilità, empatia, qualità, video: 4 idee forza per il 2013

 Benoit Raphael, imprenditore editoriale  e consulente nel campo dei media sociali, una delle voci più seguite  della blogosfera francese che si occupa di giornalismo e media, indica in una analisi sul suo blog le linee da tenere a mente nell’ anno appena cominciato nel settore dell’ editoria
E individua anche i futuri vincitori: Google (che non sta affatto morendo, dice)
; le reti sociali di nicchia (Facebook è troppo grande, troppo invadente); il mobile come telecomando degli oggetti connessi (ci sono ancora un sacco di cose da inventare); i dati; e, infine, i grandi brand, futuri creatori di contenuti (che, sostiene, non sostituiranno il giornalismo ma si imporranno alla periferia del giornalismo e in tutti quei segmenti che fanno parte del business model dei media)

 

 

Più mobilità, più empatia, più qualità, più video: ecco le quattro idee-forza da tenere a mente per il 2013 secondo una analisi che Benoit Raphael delinea per il futuro prossimo dei media sul suo blog.

 

Mobile first : più della metà del traffico web viene dal mobile e non è finita. Il parco smartphone supererà il suo tipping point quest’ anno e si può scommettere che da qui al 2014 si arriverà a un volume del 70-80% sul mobile. Questo non vuol dire che bisogna puntare tutto sul mobile, ma considerarlo come il fulcro dell’ audience, sì.

 

Mancano ancora molti strumenti necessari per rendere la sua circolazione e la sua monetizzazione più fluida – continua l’ imprenditore – . Lavorare quindi sulla convergenza tecnologica mobile-tablet-pc deve essere la priorità per i media nel 2013, con un approccio ‘’mobile first’’ (progettare il prodotto per il mobile assicurandone però la continuità sugli altri schermi), non ‘’mobile only’’, privilegiando nelle applicazioni delle tecnologie web “responsive” (che si adattano agli schermi) e web embedded.

 

II. Media empatici: Quello che  Raphael osservava qui in maniera globale può applicarsi ugualmente a quanto si osserva nei media sociali.

 

Bisogna andare verso un maggior tasso di empatia, più link e più scambi nei media, cosa che passa prima di tutto attraverso un miglioramento della qualità dei contenuti (anche se, essendo una nozione relativa,  la qualità dipende dall’ ecosistema in cui ci si trova ad operare).

 

Oggi c’ è una forte saturazione di contenuti simili, di comunità troppo vaste e sovraccariche, soprattutto di contenuti e comunità che non ci somigliano molto, che vogliono parlare a tutti ma non ci dicono niente. Saturazione di una iper-utilizzazione delle reti sociali in cui uno si annoia senza poter trovare l’ informazione o la buona conversazione che ci colpisce in modo particolare e ci può essere davvero utile.

Prevedere dunque per i media:

 

– Una migliore conoscenza delle comunità, degli utenti, delle conversazioni che li riguardano, in tempo reale. Ci vogliono quindi degli strumenti (comeTrendsboard).

–  Maggiori contenuti originali, di qualità, che producano una esperienza di qualità (data-journalism, far guadagnare tempo, accrescere conoscenze e competenze) e del vero valore aggiunto (valore d’ uso in rapporto a quello che è disponibile sulle altre testate nel momento in cui quel contenuto viene pubblicato), cosa che implica una conoscenza ancora maggiore di quello che viene fatto e detto altrove.

– Costruzione di una vera relazione fra la testata e i suoi lettori/utenti. Più amore quindi! Ma anche più coinvolgimento e trasparenza, più avvenimenti fisici e virtuali, più club e relazioni dirette e privilegiate.  Cosa che passa anche attraverso la strutturazione di una sorta di comunità mediatica generale: i produttori (nei due sensi del termine) di contenuti. Bisogna mostrarli, metterli in scena. Ma bisogna ugualmente fare di questi spazi comunitari dei luoghi di grande qualità e non esitare a investire nell’ animazione di questi spazi.

– Allargare e arricchire la redazione con una exo-redazione. Perché per raggiungere quella qualità di cui si parlava prima non basterà la sola redazione tradizionale. Bisogna andare quindi verso una redazione allargata, di ‘’produttori’’ (in un senso analogo a quello della produzione cinematografica) in grado di cercare  i buoni collaboratori e di filtrare il meglio che si fa sul web sociale e dare ad esso un senso. Ogni giornalista deve essere il caporedattore di se stesso all’ interno della comunità a cui si rivolge.

 

 

III. Media a pagamento ? Non mi ricordo più quale giornalista aveva twittato un giorno che io – racconta Raphael – non ‘’credevo’’ ai media a pagamento.  Era una cosa idiota, visto che  ne parlavo dal 2006. L’ utilizzazione del termine ‘’credere’’ è comunque tipica del livello del dibattito dopo gli inizi degli anni Duemila.

 

Quello che ho sempre detto – aggiunge l’ imprenditore – è che bisognava pensare al ‘’pagamento’’ (come al ‘’gratuito’’ finanziato dalla pubblicità) nella sua complessità. Non si compra il giornale solo per il suo contenuto ma anche per il suo valore d’ uso (supporto, luogo e momento dell’ acquisto, organizzazione dei contenuti… in rapporto a una offerta esterna), e anche per il suo valore affettivo (attaccamento alla testata, a una idea) (ancora empatia…).

 

La stampa vive una doppia sanzione: 1) non ha mai pensato alla vendita di spazi pubblicitari in un’ ottica di ROI (basta vedere l’ immondizia pubblicata su supporti eleganti per inserzionisti incapaci di misurarne l’ impatto) e subisce quindi il calo del valore della pubblicità su Internet. 2) I suoi costi di produzione restano troppo elevati perché rimane incapace di fare delle scelte.

 

Oggi i paywall impazzano sui siti di informazione. Ma senza analizzare per bene quale paywall (quelli di Murdoch non funzionano, quelli del Figaro stentano ad affermarsi), per quale testata (ci vuole un forte attaccamento al marchio e un forte apporto di valore aggiunto e di utilità che le si riconosce) e per quali lettori (i più fedeli, i grandi consumatori di informazione e i più legati alla testata).

 

Per far pagare, bisogna anche proporre una qualità superiore a quella che produce tradizionalmente la stampa scritta. E bisogna andare al di là del contenuto, come si diceva prima, verso un valore d’ uso (un servizio) e un valore affettivo.

 

Ci sono molte cose da esplorare e da inventare per l’ informazione a pagamento. Un buon esempio in Francia – secondo Raphael – è quello che fa ad esempio le Moniteur (la Gazzetta dei comuni con i suoi club, specialmente il  “Club Finances”) che offre una doppia esperienza di filtro dei contenuti, di apporto di dati e di analisi, di avvenimenti di costruzione di relazioni in una comunità allargata (collettività/imprese).

 

E che, forte del suo contenuto digitale e della sua comunità, potrebbe creare dei nuovi prodotti, su carta in particolare, ma anche e-book o servizi.

 

 

IV. Video. Il dibattito a pagamento/gratuito è vecchio come i media, o quasi. La questione si pone meno però per quelli audio visuali, tradizionalmente gratuiti. Sul mobile il video è il futuro eldorado. Perché il consumo eplode e la pubblicità video si vende meglio e a prezzi migliori, dal momento che è più efficace di quella a banner, perché sta dentro una logica di convergenza (specialmente gli spot che passano facilmente dalla tv al mobile), perché costa da 10 a 20 volte meno di prima.

 

I prossimi pure-players saranno video. I primi media maturi fioriranno  nel 2013.

 

 

I futuri vincitori

 

1. Google non è morto, ben lungi. Prima di tutto – continua Raphael – perché detiene la leadership sul mobile e il video. E poi perché continua ad innovare:  vedi le Google Glasses.

2. Le reti sociali di nicchia: Facebook è troppo grande, troppo invadente. Si desidera empatia e qualità.

3. Il mobile come telecomando degli oggetti connessi. Ci sono ancora un sacco di cose da inventare.

4. Il dato: elemento chiave dell’ informazione, dell’ analisi dell’ informazione e dei web sociale, della visualizzazione e del valore d’ uso dell’ informazione, dell’ evoluzione della tecnologia adattata al web sociale e al mobile.

5. I brand sono i futuri creatori di contenuti. Non sostituiranno il giornalismo ma – conclude l’ imprenditore francese – si imporranno alla periferia del giornalismo e in tutti quei segmenti che fanno parte del business model dei media.