Libri / Da Gutenberg alla biomedialità, torna il libreria ‘’La democrazia della stampa’’ di Oliviero Bergamini

bergaminicopUna stampa divisa in due, con testate di prestigio destinate a lettori d’ élite e smaliziati da una parte e un’ informazione spettacolarizzata (con il rischio della deriva infotainment), a basso costo, poco libera e originale, dall’ altra. Una informazione  “subordinata a interessi economici e politici di grande scala, vicino alla propaganda, rivolta alla massa”. Con un’ ampia incertezza sul ruolo dei nuovi media (comunicazione e non sempre informazione) come Facebook e i social network, in grado, forse, di rivoluzionare il concetto stesso di notizia. Ma non sempre con effetti positivi.

 

E’ uno dei potenziali sbocchi del processo di trasformazione del mondo del giornalismo ipotizzati da Oliviero Bergamini – storico e giornalista, inviato esteri della RAI e attualmente caporedattore della redazione Cultura del TG3 – nel suo ”La democrazia della stampa – Storia del giornalismo”, edizione aggiornata del saggio originariamente uscito nel 2006 e che Laterza ha mandato in libreria pochi giorni fa.

 

Il libro dà ampio spazio all’ impatto della tecnologia, da Gutenberg all’ ipotetico  processo di trasformazione antropologica  dell’ essere umano attraverso la cosiddetta  “biomedialità”, cioè “la sovrapposizione tra uso dei media e creazione della propria identità personale (digitale)”, come sottolineato nell’ ultimo Rapporto sulla Comunicazione curato da Censis e Ucsi.

 

Eccone in anteprima le linee essenziali.

 

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di Fabio Dalmasso

 

 

La copertina della vecchia edizione
La copertina della vecchia edizione

Da Gutenberg alla ‘’biomedialità’’

 

Fin dall’introduzione, Bergamini mette in chiaro un aspetto importante del suo libro: “Senza i giornali è impossibile immaginare una società «aperta», liberale, non schiacciata dal peso della tradizione”. Raccontare la storia del giornalismo significa quindi raccontare la storia del “percorso lento e contraddittorio della modernità, della progressiva evoluzione delle società occidentali verso assetti più liberi e dinamici”.

 

Un’evoluzione non certo semplice che spesso ha conosciuto dei momenti di stasi e anche di involuzione, ma che ha comunque portato l’informazione verso quel gran miscuglio di tecnologie e voci che è il giornalismo odierno. Proprio le tecnologie sono le prime e più importanti protagoniste di questa storia: l’invenzione dei caratteri mobili di Johann Gensfleisch, detto Gutenberg dal paese di origine dei genitori, attorno alla metà del 1400 fu l’inizio di un processo rivoluzionario, non solo per la comunicazione, ma per il modo stesso di pensare e ragionare degli uomini (interessante a questo proposito il classico di Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola e La Galassia Gutenberg di Marshall McLuhan). Bergamini segnala poi l’importanza di due successive tappe tecnologiche fondamentali nella storia della comunicazione: lo sviluppo delle nuove macchine tipografiche intorno alla metà dell’800, con la possibilità di aumentare le tirature dei giornali e migliorarne la stampa, e la rivoluzione digitale iniziata anni fa e ancora in corso. Un percorso, quest’ultimo, che, come l’invenzione di Gutenberg, ha

 

 

Gli albori dell’informazione

 

Un percorso fatto di rivoluzioni tecnologiche, quindi, che Bergamini rivive partendo dall’alba dell’informazione, quegli “avvisi”, cioè, diffusi intorno al XV – XVI secolo che riportavano notizie provenienti da mondi lontani. Ma, come sottolineato in precedenza, è con Gutenberg che tutto cambia: la nascita dell’ “uomo tipografico” segnò una svolta epocale, un mutamento rivoluzionario senza il quale i giornali e il giornalismo moderni non esisterebbero. Occorrerà però aspettare ancora un secolo prima di assistere alla nascita di giornali veri e proprio e purtroppo, sin dall’inizio, la fama di questi non è delle migliori: in Francia essi venivano ad esempio chiamati “canards”, cioè anatre, per come starnazzavano, strombazzavano con toni sensazionalistici le notizie. Si tratta, occorre sottolinearlo, di giornali legati in tutto e per tutto al potere, espressione di chi in quel momento lo deteneva. Definiti “giornali in livrea”, le “gazzette” rappresentavano infatti uno strumento di informazione gestito dai potenti di turno e il “gazzettiere” non era ancora un vero e proprio giornalista. Come scrive lo stesso Bergamini, “lungi dal possedere uno spirito critico e indipendente, dall’essere votato dall’obiettività e alla completezza dell’informazione, il gazzettiere riportava le notizie ottenute più o meno formalmente da ambienti politici e diplomatici; notizie sempre favorevoli e comunque non critiche e antagonistiche rispetto al potere costituito”. Una descrizione che, in alcuni casi, sembrerebbe calzare a pennello anche per alcuni personaggi contemporanei. I lettori (allora come oggi) erano consapevoli di queste pessime caratteristiche che il gazzettiere si portava dietro e la sua reputazione era piuttosto bassa.

 

 

Inghilterra, mito e realtà

 

La comparsa di primi giornali “liberi” si ebbe in Olanda e nelle Fiandre, ma, sottolinea Bergamini, fu l’Inghilterra la culla del futuro giornalismo, grazie anche alla presenza di una borghesia forte e ricca: “L’Inghilterra […] divenne il paese in cui l’idea di una stampa libera e indipendente fosse un diritto per i cittadini e un bene la comunità nazionale”. Sebbene il mito del giornalismo anglosassone venga in parte ridimensionato, Bergamini  ricorda come nel corso del 1700 Londra conobbe una vera e propria esplosione di giornali: se nel 1704, infatti, esistevano nove fogli di informazione, cinque anni più tardi, 1709, essi erano già 19. Nel 1750 nella capitale inglese uscivano cinque quotidiani, sei trisettimanali, cinque settimanali e molte altre pubblicazioni. Una crescita di numeri che venne accompagnata anche da una maturazione dei contenuti e del ruolo della nascente stampa: interessante rileggere oggi quella che è stata definita la prima dichiarazione sulla deontologia del giornalismo che apparve sul numero 1 del quotidiano Daily Courant, il primo quotidiano della storia, composto da una sola pagina divisa in due colonne e contente notizie interne ed estere: “riportare con assoluta fedeltà ogni notizia” citando sempre la fonte in modo che il lettore potesse giudicare la credibilità e l’imparzialità delle informazioni ricevute. In questo fermento nacquero anche nuovi tipi di giornalismo, come quella che può essere definita una cronaca nera ante litteram (un tema che abbiamo già trattato qui https://www.lsdi.it/2012/come-la-cronaca-nera-cambia-la-societa/).

 

Ma l’ Inghilterra di quel periodo è soprattutto l’Inghilterra di un giornale che fece la storia e che vantò imitazioni in tutta Europa, The Spectator, fautore di uno stile misto di commento e saggio in cui cinque personaggi discutevano di argomenti carattere politico, sociale, etico, morale e di costume. Uno stile che in poco tempo conquistò migliaia di persone e raggiunse presto le 20.000 copie. Nel 1788 nacque The Times, quotidiano in grado di distinguersi per la qualità della sua informazione, sempre accurata, approfondita, tempestiva e “apparentemente” imparziale, oltre che per un’impaginazione innovativa. La stampa inglese di fine ‘700 – inizio ‘800 godette di un numero notevole di lettori e fu caratterizzata da una grande forza autonoma imprenditoriale grazie a un mercato editoriale forte. Situazione non presente invece in Francia, definita “il “regno delle “Gazette” per lo stretto rapporto con il potere. Mentre in Russia i giornali ebbero notevoli difficoltà a nascere e a svilupparsi, la Germania fu caratterizzata da un vasta produzione di periodi culturali – letterari: 112 nel 1710, già 3352 nel 1790, con un numero di testate, a fine ‘700, che superava Inghilterra e Francia messe insieme, anche se le tirature erano notevolmente minori e la distribuzione molto localizzata.

 

 

I primi giornali italiani

 

E in Italia? Nel nostro paese la disputa sulla nascita della prima gazzetta è una lotta tra Firenze, che vide il suo giornale nascere nel 1636, e Genova, che seguì nel 1641. Vennero dopo Milano (1641), Bologna (1642), Torino (1645), Roma (1646) e via via molte altre città italiane. La Gazzetta di Mantova (1689) e la Gazzetta di Parma (primo ‘700) si contendono invece il titolo di più antico giornale ancora oggi pubblicato. Ma al di là dei primati, quella dei gazzettieri legati al potere era una categoria che non godeva di una grande reputazione, anzi. Inoltre la libertà di stampa nel XVII e nel XVIII secolo era una cosa sconosciuta e, scrive Bergamini, “i giornali rimasero sottoposti a un rigoroso sistema di licenza e censura preventiva”. Tutto questo non impedì però la nascita di riviste culturali – divulgative di estrema importanza e valore, speso tentativi di imitazione del già citato The Spectator: tra le tante meritano una citazione la Gazzetta Veneta o La Frusta Letteraria, ma soprattutto Il Caffè, di Milano, la più importante rivista italiana del ‘700. Testate accumunate da un uguale intento: informare, ma soprattutto promuovere un “dissodamento ideologico – culturale, […] smuovere le acque mentali della società italiana”. Nel frattempo, al di là dell’oceano Atlantico, negli Stati Uniti d’America usciti dalla guerra civile, veniva emanato, nel 1791, il Bill of Rights che sanciva la libertà di stampa come una delle libertà fondamentali del cittadino e parte integrante della Costituzione.

 

 

Nuove tecnologie

 

 

La successiva rivoluzione tecnologica rappresentò un ulteriore passo avanti per la stampa: la nascita della rotativa, ad esempio, nata verso la metà del XIX secolo, garantì un aumento delle tirature e andò di pari passo con un nuovo metodo di produzione della carta, più economico, e a un miglioramento delle vie di comunicazione e dei trasporti, così che fosse garantita una migliore distribuzione dei giornali. Fu in questo periodo che nacquero i giornali prettamente popolari, come La Presse in Francia, nel 1836, che conobbero un certo successo grazie anche ai feuilleton o romanzi d’appendice.

 

L’ Inghilterra e gli Stati Uniti rimasero però i punti di riferimento del giornalismo che andava mutando la sua forma: accanto a The Times, che divenne un vero e proprio riferimento per l’informazione di qualità e per quel mito del giornalismo che si basava su una certa etica e deontologia, sorsero nuovi stili e generi, più specializzati, come la rivista medica The Lancet o quella di divulgazione e analisi economica The Economist. Una rivoluzione giornalistica arrivò poi dagli Stati Uniti con la nascita, nel 1833, di The Sun: con i suoi articoli brevi, condensati, concentrati sui fatti, The Sun mutava il concetto stesso di notizia, fino ad allora legato soprattutto alla political press, e lo collegava agli interessi dei lettori, al cosiddetto human interest, con la cronaca che divenne la vera spina dorsale del giornale. Una rivoluzione che non impiegò molto a conquistare i lettori portando, in breve,The Sun a superare le 20.000 copie.

 

E mentre negli USA si potevano udire i primi vagiti di quello che verrà definito “giornalismo investigativo”, in Italia il giornalismo più interessante e vivace rimaneva quello culturale – politico, con figure come Giuseppe Mazzini e il suo La Giovine Italia (1832) che aveva come scopo, secondo gli ideali mazziniani, quello di formare l’opinione pubblica e creare movimenti sociali e politici. Nel 1848 lo Statuto Albertino decretò che la stampa sarebbe stata libera e che “pubblicare un giornale non era più un privilegio concesso dal sovrano, ma un diritto del cittadino”, anche se alcune norme ponevano comunque dei limiti.

 

 

 

Hearst e Pulitzer

 

L’inizio del 1900 vide il diffondersi sempre maggiore della stampa ed è proprio a questo periodo che Bergamini fa risalire la nascita del moderno giornalismo, in una forma molto simile a quello che ancora oggi conosciamo e pratichiamo. Diversi stili e generi si contendevano le pagine dei giornali di qualità riconosciuta, ma si fece anche strada quel giornalismo fatto delle tre S, sangue-sesso-soldi, tipico del Daily Mail e che garantì ai quotidiani più popolari un enorme successo oltre a creare una vera e propria scuola di giornalismo che ancora oggi è molto praticata. Mentre la situazione francese dell’epoca è riassumibile nella frase di Napoleone III «Non leggo mai i giornali, tanto pubblicano solo quello che voglio io», in Germania il giornalismo andò assumendo quelle caratteristiche che lo contraddissero per lungo tempo: “austero, professionale, politicamente impegnato, seguito da un vasto pubblico, ma geograficamente frammentato e sottoposto a un forte controllo dell’autorità statale”. Negli Stati Uniti invece si stava diffondendo sempre più un “nuovo giornalismo” che aveva in William Randolph Hearst e Jospeh Pulitzer i due protagonisti principali.

 

“Un articolo di giornale deve dare fastidio a qualcuno; altrimenti è solo pubblicità”, disse Hearst pensando allo stile che avrebbe caratterizzato le sue pubblicazioni, un giornalismo cioè aggressivo e coraggioso, passato alla storia tra mito e realtà. Nasceva così la yellow press, frettolosamente archiviata da alcuni storici sotto  il nome di “stampa scandalistica – popolare”, che ebbe tra i suoi fautori alcuni dei nomi più importanti di del giornalismo.

 

Nellie Bly, ad esempio, “la madre di tutte le giornaliste” dal Wall Street Journal, ottenne il successo e la fama proprio sul New York World, il giornale che nel 1883 era stato acquistato da Joseph Pulitzer. Bergamini scrive che nella redazione del World campeggiavano cartelloni con le scritte Accuracy Accuracy Accuracy (Precisione Precisione Precisione), ma anche What? Who? Where? When? How? e Facts – Colour – Facts (per indicare come scrivere un articolo: un’apertura con i fatti, arricchirlo con colore e tornare ai fatti). I numeri dettero ragione a Pulitzer: se nel 1885 il World vendeva 200.000 copie, nel 1914 queste arrivarono a 800.000 grazie ai suoi 1.500 dipendenti. Hearst, che ispirò il famoso film Citizen Kane (Quarto potere) di Orson Welles, esasperò il concetto alla base della yellow papers con il New York Journal, improntato allo scandalismo e alfiere di un forte nazionalismo. Andò così delineandosi uno scontro tra popular press e quality press, un tipo, quest’ultimo, rappresentato, ad esempio, dal New York Times, giornale serioso attendibile e obiettivo.

 

 

La nascita del Corriere

 

Mentre oltreoceano la stampa mutava completamente pelle, evolvendosi e caratterizzandosi in stili e generi nuovi, in Italia essa rimaneva ancora legata al “bello scrivere”, alla ricerca letteraria più che all’immediatezza dei fatti. Anche la composizione stessa dei giornali, le redazioni e la rete di collaboratori rimanevano molto lontani dai modelli inglesi o americani, a causa, anche, della mancanza di editori puri, interessati di investire per un giornalismo slegato (almeno in apparenza) dalla politica. È un giornalismo tecnologicamente arretrato e al soldo della politica quello che vide la nascita, nel 1876, del Correre della Sera, che cambiò le carte in tavola. Fondato da Eugenio Torelli Viollier e da subito apertamente schierato secondo il dettame “Siamo conservatori e moderati”, nel 1885 vide l’arrivo nella società dei Crespi e, nel 1900, la direzione di Luigi Albertini, sotto il quale il Corriere diventò il giornale più importante d’Italia grazie proprio a quello che Bergamini non esita a definire “il più grande direttore della storia del giornalismo italiano”). A soli a 29 anni, Albertini modernizzò il giornale, il suo stile e il suo linguaggio. Giornalisti come Luigi Barzini divennero delle vere e proprie icone del nuovo giornalismo italiano, che, in quel periodo, si arricchì di nuove estate come La Stampa di Torino, grazie ad Alberto Frassati, Il Mattino e Il Messaggero. Più moderno e agile, il giornalismo italiano rimase comunque caratterizzato da una certa concezione quasi “elitaria” della stampa, tanto che mancarono quasi del tutto esempi di yellow press sullo stile americano, mentre si sviluppò e conquisto un certo successo lo stile della “terza pagina”, di impronta più culturale.

 

 

Guerre e nuovi quotidiani

 

Le due guerre mondiali e i periodi del fascismo e del nazismo portarono i giornali italiani e tedeschi verso il baratro della propaganda, delle limitazioni e delle censure. Bergamini fa un’ottima e molto interessante analisi di questo periodo senza limitarsi all’Italia e alla Germania, ma raccontando anche l’uso distorto che venne fatto del giornalismo in Urss e nei paesi comunisti. Un uso propagandistico che Mussolini conosceva e orchestrava bene, grazie anche alla sua esperienza come giornalista, e che si trascinò, in parte, anche nel dopoguerra, quando i conflitti non erano più sui campi di battaglia, ma divennero guerre ideologiche. Gli anni più recenti vengono ripercorsi da Bergamini citando il ruolo molto importante che ebbero, in Italia, L’Europeo e L’espresso, così come il quotidiano dell’Eni Il Giorno. Ma furono anche gli anni di una stampa più orientata allo scandalo che vide nei paparazzi figure basilari. E mentre negli Stati Uniti il giornalismo diventava sempre più cane da guardia, con la copertura della guerra in Vietnam e il caso Watergate, esempio per eccellenza di giornalismo investigativo, il nostro paese assisteva alla proliferazione di una stampa apertamente schierata e politica, (il manifesto, Lotta Continua etc…), ma anche alla nascita di due quotidiani che mutarono dal profondo il modo di fare giornalismo in Italia, cioè la Repubblica di Eugenio Scalfari e il Giornale di Indro Montanelli.

 

Il futuro

 

Oggi, scrive Bergamini, il giornalismo è radicalmente diverso da quello che è stato narrato nelle prime parti del libro: l’informazione è sempre meno prodotto per un utente passivo e sempre più elaborazione, coinvolgimento, multimedialità e condivisione da parte di un utente attivo, che partecipa alla selezione delle notizie. Il rischio da molti paventato di una rapida morte dei giornali cartacei, secondo Bergamini, non è così immediata: “per il momento i «print media» appaiono lontani dall’estinzione” e, secondo il giornalista, va delineandosi un’informazione divisa in due, con testate di prestigio destinate a lettori d’élite e smaliziati da una parte e un’informazione spettacolarizzata (con il rischio della deriva infotainment), a basso costo, poco libera e originale, “subordinata a interessi economici e politici di grande scala, vicino alla propaganda, rivolta alla massa di persone”. In tutto questo però rimane ancora da capire e analizzare bene il ruolo dei nuovi mezzi di comunicazione (e non sempre di informazione), come Facebook e i social network, in grado di rivoluzionare il concetto stesso di notizia. E non sempre con effetti positivi.