Filloux e l’ anomalia italiana: per noi il ‘’nuovo giornalismo’’ è il ‘’vecchio giornalismo’’ degli altri’’?

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The Need for a Digital “New Journalism” , l’ articolo di François Filloux di cui Lsdi ha pubblicato la traduzione,  ha riscosso un forte interesse in Italia ed è stato citato a più riprese. Fra gli altri, Giuseppe Granieri (Perché è necessario un nuovo giornalismo) ha segnalato l’ importanza della “qualità della narrazione’’ come via per ‘’ migliorare l’ efficacia tra l’informazione data e l’investimento di tempo chiesto al lettore per informarsi. Se tutte le notizie sono allo stesso click di distanza, bisogna dare al lettore un valore aggiunto per essere competitivi“. Ma è molto interessante il punto di vista di Mario Tedeschini Lalli che guarda alle considerazioni di Filloux alla luce della ‘’anomalia’’ del giornalismo italiano.

 

Riprendendo le osservazioni di Granieri, Tedeschini Lalli osserva infatti che la storia del giornalismo italiano è “la dimostrazione che avere un “punto di vista” ed esprimere la propria “voce” (come dicono gli autorevoli commentatori stranieri) non è sufficiente. Forse nel nostro caso sarebbe opportuno un movimento in direzione opposta, verso una moderazione della “personalizzazione” e una maggiore sottolineatura del dato di cronaca”.

 

D’ altronde la forte personalizzazione delle testate e dei giornalisti mainstream in Italia non è certo una novità, così come la sostanziale assenza di editori ‘’puri’’ e l’ intreccio fra editoria e politica che hanno caratterizzato gran parte della storia del giornalismo italiano del dopoguerra.

 

Qui, dice infatti Tedeschini Lalli,

 

non si contesta la necessità di trovare nuove vie per mantenere il giornalismo professionale rilevante (e quindi economicamente sostenibile), ma l’ applicabilità al giornalismo italiano di questi ragionamenti specifici. Ovvio che chi spera di farsi pagare per le informazioni che offre debba produrre servizi o prodotti in grado di mostrare (e “fare”) la differenza rispetto alla marea di informazioni che si trovano a un click di distanza. Ma siamo certi che – in Italia – questo passi per una maggiore personalizzazione dello stile e una minore strutturazione delle cronache?

 

Se tutto quello che serve per salvare il giornalismo professionale fosse una rinuncia definitiva al mito dell’obiettività e in sostanza uno stile più personale, più simile ai blog che alle cronache di un giornale, la stampa italiana potrebbe in effetti dormire tra due guanciali.

(…) Basta aprire qualunque giornale italiano degli ultimi trent’anni per capire che gli elementi di “stile personale” e “punto di vista” del giornalista e/o della testata, uniti a una incomprimibile tendenza all’enfasi, hanno largamente oscurato il dato di cronaca. Si può avere un punto di vista, si può al limite essere tendenziosi — scegliere, cioè, tutti e solo i dati che si allineano su un particolare vettore di forza, una freccia che punta in un’unica direzione – ma il “dato” dovrebbe essere la base della cronaca. E il dato è tale se è verificabile o falsificabile, se questo non è possibile perché come spesso accade non si forniscono elementi sufficienti, la cronaca zoppica.

Forse per noi il “nuovo giornalismo” è il “vecchio giornalismo” degli altri?

La storia del giornalismo italiano e la sua situazione attuale sono a mio avviso la dimostrazione che avere un “punto di vista” ed esprimere la propria “voce” (come dicono gli autorevoli commentatori stranieri) non è sufficiente. Forse nel nostro caso sarebbe opportuno un movimento in direzione opposta, verso una moderazione della “personalizzazione” e una maggiore sottolineatura del dato di cronaca, quello che Rosen chiama il fattore “testimonianza”.

Nella concreta situazione nella quale ci dibattiamo sarebbe questo uno degli elementi di differenziazione e quindi di valorizzazione dei contenuti giornalistici professionali.