Twitter, l’ effetto farfalla e il futuro del giornalismo

Stiamo sopravvalutando l’ impatto dei social media? E’ uno dei temi emersi a Londra in un incontro sull’ impatto dei social media sull’ industria dell’ informazione di cui è stata pubblicata un’ ampia sintesi (che traduciamo) su Thenextweb – ‘’Nessuna delle tre grandi inchieste svolte in Gran Bretagna nel corso degli ultimi anni, intercettazioni telefoniche, costi dei parlamentari e Wikileaks, ha tratto origine dai social media’’, anche se le ultime due hanno avuto una rilevante componente digitale –  Mentre continua ad essere centrale il ruolo di controllo e validazione giornalistica dei flussi di informazione

– Insomma, i social media modificano il modo di operare dei giornalisti, ma, almeno per ora, sono ancora solo degli attrezzi del mestiere, non necessariamente ‘’nemici’’ del giornalismo

Il giornalismo non ha mai avuto tanta rilevanza come ora: ci sono oggi molti più giornalisti impegnati a spiegarci il mondo che in qualsiasi altro periodo passato’’ – Ma alla fine ‘’è chiaro che guardare a giornalisti professionisti, blogger, utenti di Twitter e citizen journalist come entità a sé stanti non è molto utile’’  – ‘’La chiave è la collaborazione: il giornalismo ufficiale si serve del giornalismo partecipativo e viceversa’’ – Non la tradizione contro il nuovo, ma la tradizione con il nuovo

– – – – –

 

TWO WORLDS COLLIDE: TWITTER, THE BUTTERFLY AND THE FUTURE OF JOURNALISM

 

di Paul Sawers

(traduzione a cura di Elena Baù)

 

“Che sia dovuto all’esposizione alla super injunctions (la legge inglese sulla tutela della privacy), alle rivoluzioni in Medio Oriente o all’Occupy movement, fatto sta che i social media stanno avendo un impatto sempre più significativo sulla nostra società e sul desiderio di cambiamento da parte della gente”. Questa è stata l’affermazione con cui si è aperto l’evento organizzato per la Social Media Week di Londra. “ Stiamo cercando di capire come Twitter stia cambiando l’industria dell’ informazione, come i giornalisti utilizzino i social media per agganciarsi alle storie e come il giornalismo partecipativo stia conducendo all’attivismo e al cambiamento”.

 

Al dibattito, svoltosi in un salone al primo piano dell’Innovation Warehouse nella zona londinese di Farringdon, più di un centinaio erano i presenti riunitisi per discutere l’effetto che Twitter sta avendo sulla nobile arte del giornalismo. “I media non sono il messaggio, sono i messaggi a costituire i media”, aveva commentato David Carr sul New York Times qualche anno fa. Ed è in questo contesto che la discussione è entrata nel vivo.

 

Il team degli addetti ai lavori era composto da Andrew Walker, fondatore di Tweetminster (la piattaforma che aggrega i post sulla politica inglese di Twitter); Paul Lewis, Responsabile dei Progetti Speciali per il Guardian; Anna Doble, Senior producer per il comparto Online di Channel4 News; Steve Butterworth, fondatore di Flumes Media Limited; e Titia Ketelaar, corrispondente per il Regno Unito di NRC Handelsblad.

 

 Stiamo sopravvalutando l’impatto dei social media?

 

“I social media hanno trasformato significativamente il giornalismo, in qualche modo, e sto parlando contro il mio interesse”, afferma Lewis.  “Penso tuttavia vi siano casi in cui abbiamo sopravvalutato in modo spropositato l’impatto avuto dai social media –e da Twitter in particolare”.

 

“Se penso alle tre grandi inchieste svolte in Gran Bretagna nel corso degli ultimi anni, intercettazioni telefoniche, costi dei parlamentari e Wikileaks”, continua Lewis, “nessuna di queste ha tratto origine dai social media. Le ultime due hanno avuto una rilevante componente digitale  – si tratta di storie dell’era della Rete- ma non sono stati i social media a generarle”.

 

Forse però, a questo punto, bisognerebbe richiamare l’attenzione sugli scontri di Londra, che hanno visto Twitter e Facebook assumere un ruolo rilevante. I politici hanno sollevato l’ ipotesi che fosse opportuno introdurre la possibilità di chiudere i social media, in moneti di grave crisi, anche se nel caso specifico essi non sono stati poi realmente utilizzati per organizzare i disordini e i saccheggi avvenuti. I rivoltosi hanno infatti preferito servirsi del canale riservato della Rete BlackBerry Messenger (BBM).

 

Dunque: possiamo dire allora che stiamo davvero sovrastimando l’incidenza prodotta dai social media sulla società, e, più specificamente, sulla comunità giornalistica?

 

Certo, concordo sul fatto che i veri scoop sono ancora frutto del buon vecchio giornalismo investigativo, con i social media impiegati come uno strumento – tra gli altri – per ottenere risultati. Si nota infatti uno scetticismo crescente rispetto alle notizie che irrompono tramite Twitter e gli altri canali sociali: e, mentre si può far poco per frenare il flusso delle falsità, molto può invece esser messo in atto sul fronte del controllo e della validazione di tali “fatti”, ed è qui che i giornalisti entrano in gioco.

 

Ora, dite la verità: Cosa avete pensato in primo luogo quando avete letto su Twitter della tragica morte di Whitney Houston, lo scorso fine settimana?

Oh, mio Dio! Mia zia che lavora per Whitney Houston l’ha appena trovata morta nella vasca. Che umiliazione, e che tristezza :-(

 

— Aja Dior M. (@AjaDiorNavy)  12 Febbraio 2012

 

 

Avete cercato altri riscontri su Twitter o vi siete rivolti alla BBC, al New York Times o ad altre fonti attendibili di informazione?

 

 

Twitter è solo uno strumento

 

Quasi tutti avevano dei dubbi sui tweet su Whitney Houston fino a quando le prime notizie a riguardo non hanno cominciato ad esser divulgate anche da canali più ufficiali: questo serve a dimostrare come sebbene un social media possa modificare il modo di operare giornalistico, esso è comunque ben lontano dal costituire una base su cui si può reggere l’ informazione. Si tratta solo di uno degli attrezzi del mestiere, e non è necessariamente un nemico del giornalismo.

 

Come abbiamo scritto l’anno scorso:

 

“I giornalisti professionisti hanno ancora una forte influenza sul popolo di Twitter. Sono allenati, sanno come controllare e convalidare qualsiasi informazione gli capiti sotto mano. Si tratta di una professione precisa che si basa sulla persistenza e oggettività necessarie a separare i fatti dalla finzione, benché al tempo stesso ricomponendo tutti i dettagli salienti in una forma narrativa, adatta al pubblico consumo.  Sebbene vi siano innumerevoli casi di fallimenti di giornalisti su questo fronte, almeno essi sono responsabili di ciò che scrivono. A differenza di quelli che operano sui social networki…

 

…Protetto dalla cortina dell’anonimato, il giornalismo partecipativo non può garantire nessun grado di affidabilità. Twitter può diffondere disinformazione in tutti e 7 i continenti, prima che un giornalista vero e proprio riesca a carpire anche solo un briciolo di una storia: in tal modo l’ informazione diventa legittima attraverso i social media e nessuno è realmente responsabile per quanto di falso sia stato diffuso. Si tratta fondamentalmente di pettegolezzi a tutto volume”.

 

 

Inoltre, anche se un tweet è un “fatto reale”, spesso manca di contestualizzazione e di qualsiasi altro tipo di informazioni di base significative. “Un sacco di roba viene ri-twittata come notizia “attendibile”, ha osservato Ketelaar. “Nel caso della morte di Whitney Houston, quando il fatto è stato assodato si vuol conoscere anche il resto – le ragioni, i tempi, i luoghi e così via, e non credo che  Twitter sia la piattaforma adatta a soddisfare tali domande”.

 

Butterworth ha convenuto che Twitter non era un granché come canale di diffusione delle notizie sulla morte di Whitney Houston, e ha osservato che con l’aumentare del giornalismo diffuso il bisogno di giornalisti professionisti è ora più grande che mai. “Credo che i social media funzionino al meglio quando vengono impiegati come strumento per portare a galla qualche vicenda ancora allo stato grezzo’’, dice. “Ma poiché oggi crescono sempre di più in tutto il mondo le persone che  pubblicano le notizie tramite foto e video registrati con i loro telefoni cellulari, la necessità di giornalisti che convalidino tali informazioni è più che mai pressante”.

 

 

Insomma, giornalisti quali controllori di fatti: questo è il punto chiave che ha fatto capolino costantemente lungo tutto il dibattito. “La prassi era che le fonti davano le notizie e le spiegavano al tempo stesso”, aggiunge Walker. “Il lavoro giornalistico consiste proprio nel cercare le interpretazioni e i retroscena. Quello a cui stiamo assistendo con questa vasta disponibilità di strumenti di trasmissione e registrazione delle notizie è che la gente comune ora ricopre il ruolo che un tempo veniva svolto dalle fonti”.

 

“Ma l’ interpretazione degli avvenimenti rimane essenziale, ed è qui che la funzione del giornalista entra in gioco”, continua. “E questo dà al giornalismo molta più rilevanza. In realtà, ci sono oggi molti più giornalisti impegnati a spiegarci il mondo che in qualsiasi altro periodo passato. Il giornalismo non è mai stato così potente. La possibilità di registrare l’informazione è il terreno dove le nuove tecnologie entrano in gioco: noi tendiamo a confondere i due concetti e a pensare che siano entrambi attività d’ inchiesta. Ma invece non lo sono”.

 

 

Trasmettere il banale

 

Moltissime persone ora sentono il bisogno di condividere ogni aspetto della loro vita sui social media, un’ abitudine alla quale neanche i giornalisti sono refrattari.

 

‘’Se guardo a come Twitter si è mosso nell’ ambito del giornalismo a Londra nel corso degli ultimi mesi, dico che spesso si è mostrato molto superficiale”, ha detto Lewis. “Quasi sempre i giornalisti lo utilizzano come mezzo promozionale per raccontare alla gente i fatti loro. Sia sul piano del lavoro che per banalità come quello che stanno mangiando, per esempio. Sto rilevando questo tipo di comportamento sempre più spesso, e non mi pare sia particolarmente innovativo, o particolarmente utile per quelli che seguono tali fatti”.

 

“Dianne Abbot o Ed Miliband, pensano che queste non sono che piccole controversie che l’universo di Twitter rivendica come parte del proprio sistema”, continua Lewis. ‘’Credono di fare dei grandi scoop giornalistici, ma non lo sono. Ed Miliband scribacchia qualcosa in un tweet, chiunque può sollevare un polverone, e poi un giornalista ne ricava un servizio. Ma questo non è giornalismo serio e approfondito. E’ l’esatto contrario”.

 

Certo, lui è un sostenitore dei social media in generale, e sta solo cercando di difendere una presa di posizione. I social network spesso creano grandi aspettative, ma è importante verificare in che modo poi essi realmente si rapportano al giornalismo e che ruolo vanno a ricoprire.

 

“Lo schema della circolazione dell’ informazione è cambiato a partire dall’arrivo di Twitter”, ha sottolineato Lewis. “Ma non penso che il nuovo modello debba essere impiegato costantemente in ogni singola storia. Se hai un seguito di persone che alimenti con cose alle quali non è interessato, questo presto si dissolverà. Io tendo a non coinvolgere i miei ‘followers’ a meno che non ci sia una valida ragione che ritengo essi apprezzeranno”.

 

Ma allora dov’ è che i social media hanno modificato in meglio il giornalismo?

 

Lewis ha individuato quattro aree principali:

 

– Possibilità di rintracciare persone –essenzialmente attraverso il crowdsourcing, rivolgendosi cioè al pubblico virtuale per ottenere informazioni sulla sorte di testimoni o altre figure chiave di una storia;

–  Persone che pubblicano sul web autonomamente – attivisti, blogger o chiunque abbia bisogno di far sentire la propria voce, che altrimenti rimarrebbe inascoltata:

–  Grandi eventi – i disordini di Londra, sono un ottimo esempio di come i giornalisti potrebbero sfruttare le potenzialità di Twitter per seguire le evoluzioni di un fenomeno e scandagliare a fondo le storie. In quella situazione, infatti, il caos montante era troppo esteso e in rapido mutamento per consentire ai giornalisti di poter gestire la situazione autonomamente;

–  Effetto farfalla – una piccola azione che crea un effetto a catena. Devono essere tweets contenenti informazioni molto utili, spesso difficili da sintetizzare in 140 caratteri. Un valido esempio di questo risvolto di Twitter è il tweet su Ryan Giggs  (il calciatore inglese accusato via Twitter di infedeltà coniugale, ndr) che ha infranto le norme sulla privacy.

 

 

Dunque, anche se Twitter ha radicalmente trasformato parte del giornalismo, il suo ruolo non dovrebbe essere ancora così sopravvalutato, oggi. Esso è tuttora utilizzato da un numero relativamente basso di persone – gli ultimi dati parlano di 100 milioni di utenti attivi, su un totale di 7 miliardi di popolazione globale.

 

Avevamo già scritto in precedenza che se l’obiettivo di Twitter fosse quello di arrivare a tutti i 7 miliardi di persone della Terra, e se riuscisse a raggiungere anche solo un quinto di essi, avremmo nelle mani strumento giornalistico dal potere astronomico.

 

“Twitter è l’impronta digitale di ciò che sta accadendo in tutto il mondo”, dice Lewis. “Se Twitter diventa onnipresente come il telefono cellulare – vi sono 4 miliardi di utenti di telefonia mobile in tutto il mondo – sarebbe grandioso. Come giornalista che vuole scoprire cose che la gente non desidera che tu conosca, sarebbe  molto eccitante”.

 

 

 

Scendere in strada

 

Uno dei veri pericoli dell’era digitale – e questo va oltre Twitter e si estende a tutte le forme di interazione basate sull’uso di sistemi informatici- consiste nel fatto che può diventare facile scivolare in una comoda vita dietro una scrivania. A che scopo diventare matti per rincorrere gli eventi e interagire con la gente se si dispone già di un migliaio di cittadini pronti a filmare tutta la scena con i loro iPhones  e poi a caricarla su YouTube?

 

Ma non stando lì dove accadono i fatti, non parlando con le persone, un sacco di informazioni vanno perdute. “E’ fondamentale esserci”, afferma Lewis. “Probabilmente si ottiene circa il 10% di una storia, non andando sul posto. E’ molto difficile fare una valutazione di quanto prezioso sia scendere in campo, ma qualsiasi giornalista professionista potrà testimoniare quanto questo sia importante”.

 

Ketelaar concorda, raccontando come abbia recentemente battuto ogni strada della Scozia per raccogliere informazioni per un reportage, pubblicato nei Paesi Bassi, in cui ricostruiva il reale sentimento della gente a proposito del tema dell’ indipendenza nelle zone di confine del nord. “Come un cronista tradizionale, sono scesa nelle strade”, racconta.

 

“Ho trascorso tre giorni a Inverness e Invergordon per scrivere del nazionalismo scozzese, e le risposte raccolte dalla gente si sono rivelate essere completamente diverse da ciò che leggevo su Twitter. E’ sempre necessario uscire e parlare con le persone. Si può così scoprire che i nazionalisti scozzesi sono molto disciplinati su Twitter e ottengono un sacco di “retweets”, ma essi non rappresentano affatto la globalità dell’ opinione pubblica scozzese”.

 

E questo riporta al tema iniziale del dibattito, e cioè all’esagerazione dell’ importanza di Twitter. Moltissime persone non sanno realmente cosa esso sia, figuriamoci usarlo. Oltre a qualche mio collega giornalista e ai miei amici fanatici della tecnologia, conosco pochissime altre persone che possiedono un account Twitter – ed è tutta gente colta. Il consenso attorno a Twitter è distorto quindi? Fornisce realmente una rappresentazione autentica dello spirito di una nazione? Esso può darne ai giornalisti una vaga idea, ma, come già detto, è assolutamente necessario scendere nelle strade a parlare con la gente.

 

Anche Anna Doble ha fornito degli ottimi spunti nati all’interno della redazione di Channel 4. ‘’L’ agenda dei servizi viene decisa da varie persone e da diversi redattori, ma quando si comincia a entrare in una storia, i social media influiscono in modo decisivo sulle modalità con cui noi poi la trattiamo”.

 

“Ricordo il caso del massacro in Norvegia: non disponevamo di sufficienti cronisti da inviare sul posto e quindi in redazione abbiamo discusso se mandare due inviati sul posto e piazzare due cronisti davanti ai pc per monitorare i social media e ottenere dei contatti. Alla fine si è rivelato essere il mix vincente: affiancare il controllo dei canali sociali alla testimonianza sul campo”.

 

Può sembrare un aspetto banale, ma un sacco di tempo viene sprecato nel raggiungere i posti – attese negli aeroporti, trasferimenti e così via, perciò è sensato disporre di persone che coprano tutti i fronti.

 

E’ chiaro che guardare a giornalisti professionisti, bloggers, utenti di Twitter e promotori del giornalismo partecipativo come entità a sé stanti non è molto utile. La collaborazione è la chiave:  il giornalismo ufficiale si può appoggiare sul giornalismo partecipativo e viceversa. Allo stesso modo, poter avere della gente in giro per le strade a parlare con altra gente (attività altrimenti nota come giornalismo), non ha prezzo. E la ben oliata macchina dei social media, con il suo libero flusso di informazioni in tempo reale può notevolmente alimentare il processo giornalistico. Il giornalismo odierno non si configura come “la tradizione contro il nuovo”, bensì come “la tradizione con il nuovo”.

 

“Un anno fa pensavo, dal punto di vista della tecnologia e dei social media, che fosse la morte del giornalismo…Abbiamo il Web sociale ora, giusto?”, ribatte Butterworth. “Ma una cosa che ho imparato durante l’ anno scorso è il valore del giornalismo: e penso che quest’ ultimo è molto diverso dal tipo di informazione che riceviamo dai social media.”