Media e immigrazione. Tra luoghi comuni, xenofobia e diritti negati (ai cittadini e ai giornalisti)

Secondo varie ricerche i media italiani promuovono la creazione di una ‘coscienza multirazzista’ piuttosto che l’ auspicata ‘coscienza multirazziale’ alla base del processo di integrazione dei migranti – Mentre sui famigerati CIE continua a pesare una sorta di sospensione del diritto costituzionale all’ informazione – In una intervista a Lsdi Raffaella Cosentino, giornalista esperta del settore, racconta quanto sia difficile rendere corretta informazione

 

 

di Andrea Fama

 

 

Di immigrazione si parla poco e male, dicevamo. A ulteriore conferma di questa evidenza giunge una rilevazione dell’ Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali – UNAR, secondo cui nel corso del 2011 su un campione di 1.000 casi il 22,4% ha riguardato il settore dei media (rispetto al 12,4 % delle 373 istruttorie registrate nel 2009) e di questi l’84% è relativo a  fenomeni di xenofobia o razzismo sul Web.

 

Stesso risultato per la ricerca Minorities Stereotypes on Media – Mister Media, un progetto nato dalla collaborazione tra il Centro d’Ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva e il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza, con il supporto di Open Society Foundation.

 

Dal monitoraggio dell’offerta informativa radiotelevisiva – 7153 tra servizi Tg o Gr, trasmissioni tv o radio andati in onda dal 1 luglio al 31 dicembre 2010 e dal 1 aprile al 30 giugno 2011- emerge come migranti e rom (unitamente ad altre minoranze) balzino agli ‘onori’ delle cronache soltanto quando queste si tingono di nero. “L’esito finale che spesso ne deriva è la proliferazione di argomenti simili, caratterizzati da linguaggi ripetitivi, capaci di alimentare e perpetuare luoghi comuni e stereotipi” è quanto si legge nel rapporto (vedi il tag @AllertaCliché).

 

A suggellare il tutto si aggiunge il report 2012 della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa, secondo cui i media italiani – con particolare riferimento alla stampa più autorevole e ai programmi Tv in prima serata – trattano gli immigrati con sensazionalismo xenofobo da prima pagina, associandone la percezione a fenomeni di insicurezza. Nel report – che evidenzia le stesse problematiche nel linguaggio dei politici e della Rete – si invitano le istituzioni a lavorare affinché i media non contribuiscano a creare un atmosfera di ostilità e rifiuto, senza per questo interferire nella loro indipendenza editoriale.

 

I media italiani promuovono dunque la creazione di una ‘coscienza multirazzista’ piuttosto che l’auspicata ‘coscienza multirazziale’ alla base del processo di integrazione dei migranti. E per contrastare questa bieca tendenza si contano diverse iniziative rivolte agli operatori.

 

A tale proposito, avevamo già accennato alla nascita della Associazione Carta di Roma, cui si affianca la recente Guida “Comunicare l’Integrazione”, il manuale a uso degli operatori della comunicazione (promosso dal Ministero del Lavoro e realizzato dalla società Lai-momo e dal centro studi e ricerche Idos grazie ad un finanziamento comunitario) che sarà diffuso nelle redazioni giornalistiche locali e nazionali. In seno al progetto, poi, verranno promossi, in collaborazione con gli Ordini dei giornalisti regionali, sei seminari sui temi dell’immigrazione e una spring school a cui potranno partecipare 50 ragazzi selezionati dalle scuole di giornalismo.

 

E ancora.

 

L’Ordine Nazionale dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa, in seno alla campagna LasciateCIEntrare, organizzano corsi di formazione gratuiti anche per i giornalisti che vogliono entrate nei Centri di Identificazione ed Espulsione – CIE  e nei Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo – Cara. (Prossimi workshop il 12 marzo a Milano e il 14 a Torino*)

 

Ebbene, se di immigrazione si parla poco e male, quello dei Centri dell’immigrazione è un tema profondamente controverso.

 

Nonostante divieti, richieste e revoche, infatti, l’ingresso a questi lager di Stato è decisamente problematico e restrittivo, e il diritto di cronaca per i giornalisti non sembra effettivamente ripristinato, come testimoniano diverse esperienze. (QUI alcune fotografie del CIE di Ponte Galeria a Roma e QUI alcune informazioni utili relative ai Centri)

 

Per capire meglio il rapporto tra informazione e Centri, LSDI ha raccolto la voce di Raffaella Cosentino, giornalista che segue in prima linea questa drammatica realtà. Le sue parole – dirette ed equilibrate – pesano come macigni. E fanno luce su uno spaccato oscuro, dolorosamente lontano dai riflettori e di cui è delicato e complesso rendere corretta testimonianza.

 

 

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Perché è stato impedito ai giornalisti di entrare nei CIE?

 

La circolare n. 1305 firmata il primo aprile 2011 dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni motivava il divieto con l’emergenza nord Africa e con il fatto che i giornalisti (ma anche i parlamentari per alcuni mesi) fossero di ‘intralcio’ all’interno dei Centri. La libertà di informazione sancita dalla Costituzione era considerata un intralcio e cancellata a colpi di circolare segreta. Infatti, solo l’intervento di alcuni parlamentari ha permesso di avere il testo della circolare dal Viminale. Grazie alla campagna LasciateCIEntrare e alle pressioni congiunte dell’Fnsi e dell’Ordine nazionale dei giornalisti il nuovo ministro Anna Maria Cancellieri ha rimosso il divieto a dicembre 2011.

 

 

Dopo la revoca del decreto, qual è la procedura per accedervi, quali i tempi e le restrizioni? Ti è mai stato chiesto – da chi lavora e gestisce i CIE o dal media committente – di non pubblicare o auto-censurare qualcosa? Insomma, si può davvero entrare e testimoniare la realtà dei Centri?

 

La direttiva del ministro ripristina la situazione precedente alla circolare di Maroni: anche prima infatti i giornalisti potevano accedere soltanto previa autorizzazione del prefetto che ha discrezionalità in questo. Quindi i giornalisti devono mandare via fax o via email una richiesta di accesso alla prefettura e aspettarne il parere dopo che la stessa ha sentito anche il ministero dell’Interno. A volte le prefetture chiedono l’accredito della testata, ma se un giornalista è freelance e non vuole giustamente essere accreditato da una testata, è giusto che lo faccia presente, basta il tesserino.

 

La campagna LasciateCIEntrare continua proprio per monitorare lo stato della libertà di informazione su questi Centri. I tempi purtroppo sono davvero troppo lunghi, stiamo verificando che ci vuole circa un mese o anche un mese e mezzo dal momento in cui si manda la richiesta a quando si può mettere piede nel Cie. Prima della direttiva non c’erano particolari problemi per chi ancora non aveva il tesserino da giornalista se aveva l’accredito della testata, invece ora non fanno entrare senza tesserino dell’Ordine, fermo restando che un giornalista può portare con sé un operatore per foto/video.

 

Quando visiti un centro i limiti alle informazioni sono molto più sofisticati che chiedere di non pubblicare qualcosa. Ad esempio abbiamo protestato formalmente perché nel Cie di Torino due colleghe sono entrate ma sono state chiuse in un ufficio per tutta la durata della visita senza possibilità di parlare con gli immigrati trattenuti, ascoltando solo la versione ufficiale dei responsabili e dell’ente gestore. Oppure vieni inondato di informazioni un po’ propagandistiche del tipo “qui facciamo arte terapia” e non hai accesso a quelle fondamentali, cioè: quanti reclusi nel corso di un anno? Quanti rimpatriati? Che nazionalità? Al momento aspetto da giorni le risposte a queste domande da una questura.

 

Ma il mistero assoluto restano i costi dei Cie**. Quando li chiedi all’ente gestore o alla prefettura nessuno sa niente e devi chiedere al ministero, dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, che però difficilmente risponde. Eppure sono milioni di euro di soldi pubblici. Si può entrare e testimoniare? Si può e si deve! Per troppo tempo l’opinione pubblica italiana è rimasta all’oscuro perfino dell’esistenza dei Cie. È ovvio che se arriva la denuncia di un pestaggio o di una rivolta, con questo sistema di accesso difficilmente potrai verificare, però descrivere in parte è sempre meglio del silenzio.

 

 

È più facile entrare in un Centro o uscire sui media per raccontarlo?

 

Non è così difficile come sembra, anche se è assolutamente vero che spesso i giornalisti ignorano la differenza tra un centro di accoglienza e uno di detenzione. Il sistema dei seminari per giornalisti che la campagna sta organizzando in molte città con il supporto delle Assostampa e dell’Ordine sta avendo effetto. Molto colleghi si stanno interessando e fanno richiesta. È normale che non sono una massa, ma è anche vero che prima del divieto eravamo in pochissimi a fare questo tipo di inchieste. Posso dire che la determinazione di mandare molte richieste a tante prefetture quando ancora c’era il divieto ha portato (forse per errore) quella di Potenza a darmi l’autorizzazione all’ingresso in una struttura Cie temporanea in Basilicata e lì sono riuscita a recuperare un video esclusivo girato dai reclusi tunisini durante una rivolta. Repubblica.it ci ha lanciato il sito delle inchieste con il titolo “Guantanamo Italia”, dopo 15 giorni il Cie è stato chiuso (anche se ora il governo Monti ha stanziato 18 milioni di euro per riaprirlo insieme a un altro in Campania) e l’inchiesta è stata ripresa anche dal Tg3, da Radio 24 e dalla BBC. Bisogna insistere.

 

 

Quali sono le motivazioni e i risvolti giornalisticamente più rilevanti del lavoro nei CIE?

 

I Cie sono luoghi di frontiera all’interno del territorio nazionale, utili per esaminare le politiche migratorie nazionali e internazionali. Basterebbe questo per capire quanto sono interessanti da un punto di vista giornalistico. Senza considerare la rilevanza elettorale dell’immigrazione. Poi c’è la questione del rispetto dei diritti umani, dei costi esorbitanti in un momento di crisi economica e le storie dei reclusi. I workshop cercano di fare capire ai giornalisti che il problema da cercare nei Cie non deve solo limitarsi alla struttura, se nuova o fatiscente, ma bisogna andarci preparati anche da un punto di vista legale, rispetto ai diritti di queste persone che – ricordiamolo – non hanno commesso reati per stare nel Cie, sono colpevoli di viaggio, di migrare senza permesso in un mondo globalizzato. Infatti la detenzione è solo amministrativa, la fuga non è un’evasione, ma sono sigillati più di un penitenziario di massima sicurezza. Se poi l’ex ministro Maroni ci aveva espressamente vietato l’ingresso, i Cie diventano ancora più interessanti. Cosa c’era da nascondere?

 

 

Come riassumeresti la tua esperienza giornalistica nei Centri?

 

Difficile da riassumere, dipende dai vari Cie. E’ sempre un po’ un viaggio all’inferno, in un luogo in cui puoi toccare con mano la sofferenza delle persone. Un’altra dinamica interessante è che se lavori in un Cie, quando ricevi un ordine lo esegui e non ti chiedi più se è giusto o sbagliato.

 

Ad esempio nel Cie lucano, mi dissero con tranquillità che avevano tolto le scarpe da  tennis ai reclusi per evitare che si arrampicassero sulle gabbie e impedirgli la fuga. Qual è il confine tra un regolamento e un trattamento inumano e degradante?

 

Quando intervisti un recluso in un Cie ti senti addosso la pressione della polizia che spesso è dietro le tue spalle e sono situazioni estremamente complesse da gestire, per rispettare la verità dei fatti, l’indipendenza della testimonianza e non esporre nessuna fonte. Bisogna soprattutto mantenere la giusta distanza dalle cose. Mi è capitato di essere molto impressionata da alcuni Cie che sembravano ospedali psichiatrici giudiziari, nonostante le tante visite fatte. Credo che tutti dobbiamo tenere bene a mente la complessità della questione prima di chiedere l’accesso e soprattutto prima di scrivere.

 

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*Per info sui workshop scrivere a [email protected].

** A tale proposito ha sollevato più di un interrogativo il recente bando di gara per la gestione del CIE di Modena, che prevede un taglio del 70% delle risorse a disposizione dell’ente gestore.

*** Le foto sono di Raffaella Cosentino