Aperta la stagione di caccia (a Twitter)

(a. f.) – In principio fu l’autocensura. Il  26 gennaio scorso il blog ufficiale di Twitter annunciava che la penetrazione in nuovi mercati (aggiungerei “sensibili”) imponeva una nuova policy rispettosa delle differenze culturali legate alla libertà di espressione dei Paesi in questione.

Una micro-censura geolocalizzata e trasparente, se vogliamo,  in basa alla quale i contenuti ritenuti offensivi saranno oscurati solo nel Paese  “offeso”, mentre resteranno visibili in tutto il resto del mondo.

 

 

Censura, tra l’altro, apparentemente aggirabile semplicemente modificando le impostazione del proprio account relative alla nazione di appartenenza, come segnala The Next Web.

 

Fin qui nessuna sorpresa, anzi. Google & co. si sono da sempre piegati alla volontà censorea di mercati controversi come quello cinese, ad esempio, comunicando le proprie decisioni in maniere forse meno trasparente.

 

Nel frattempo, anche governi pacificamente riconosciuti come democratici dalla comunità internazionale hanno tempestivamente aperto la stagione venatoria e inquadrato nel proprio mirino l’uccellino dalla lingua lunga.

 

Fa notizia, infatti, la denuncia dell’ associazione Internet Sans Frontieres, secondo cui  negli ultimi giorni sono stati chiusi alcuni profili che parodiavano il presidente Sarkozy. La motivazione ufficiale è che “un’imitazione che induce in errore, si presta a confusione o inganna qualcun’altro … viola la politica di Twitter relativa alla prevenzione dell’usurpazione di identità”. Tuttavia, France.info, ripreso dalla Stampa.it “ricorda che la stessa sorte non è toccata ad alcuni siti che imitano il candidato socialista, Francois Hollande, che fino ad oggi sono tutti rimasti attivi. E anche in Italia il profilo presmariomonti, un ’fake’ molto credibile dell’attuale presidente del consiglio- tanto che nei giorni scorsi anche Sarkozy si era iscritto tra i suoi abbonati – non è stato disattivato”.

 

Le ingerenze dei governi si aggiungono agli ordini provenienti dalle redazioni, che impongono ai propri giornalisti cinguettanti di non bucare le notizie attraverso il social network. E come se non bastasse, all’orizzonte si starebbe delineando la sagoma di un’altra potenziale tegola per l’uccellino Twitter.

 

Un avvocato australiano, infatti, ha recentemente sporto denuncia contro il colosso di San Francisco in qualità di editore dei commenti diffamatori ai danni del suo assistito (tale Joshua Meggitt ) postati dalla scrittrice e produttrice televisiva Marieke Hardy – commenti apparsi nella home page di Twitter e ripresi perfino da una campagna mondiale contro gli abusi online.

Meggitt avrebbe già chiuso il contenzioso con la Hardy ricevendo 15.000 dollari australiani. Ma adesso reclama i danni anche da Twitter, in quanto editore e quindi denunciabile poiché coinvolto nella  pubblicazione del tweet e dei relativi retweet.

 

Da San Francisco nessun commento in merito alla vicenda, che però solleva alcuni interrogativi.Se Twitter può essere inteso non come un mero canale di comunicazione ma come un editore e distributore di informazioni (proprio come un giornale), allora è passibile di denuncia in casi come quello australiano e similari. E sebbene possa sembrare una forzatura – e nonostante la legislazione di Paesi come gli Stati Uniti tuteli i commenti online da simili denunce – non è difficile ipotizzare scenari più spinosi in quei Paesi il cui ecosistema giudiziario lascia spazio a interpretazioni più estensive del concetto di diffamazione contrapposto al principio della libertà di espressione.

 

La caccia é ufficialmente aperta?

 

Andrea Fama