La codardia dei giornali Usa di fronte alla parola tortura

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Prima del 2004, i quotidiani si riferivano al water  boarding come ad una tortura. Dopo le rivelazioni di Guanta- namo e la lista nera di Bush, si sono azzittiti – Su Alternet Will Bunch racconta e denuncia in un articolo dal titolo “La sconvolgente codardia del New York Times e degli altri quotidiani USA: troppo spaventati per dire ‘tortura’ ” come i giornali americani “hanno coraggiosamente girato i tacchi e battuto la ritirata” – La vicenda è sviscerata in un Report della Kennedy School of Government di Harvard, in cui, fra l’ altro, si sottolinea come il waterboarding “sia stato costantemente definito una tortura quando praticato da altre nazioni, ma quando è stato adottato in USA negli anni 2000 si è trattato di una pratica – parafrasando Nixon – non illegale”

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The Appalling Cowardice of the NY Times and the Rest of America’s Big Newspapers — Too Scared to Say ‘Torture’
di
Will Bunch
(da Alternet.org )

(traduzione di Andrea Fama)

Da un lato, il waterboarding è una tortura.
Dall’altro … spiacente, ma non c’è un altro lato.
Il waterboarding è una tortura, punto.

Si è trattato di tortura durante la caccia ai criminali di guerra giapponesi che utilizzavano tecniche di tortura antiche e disumane; si è trattato di tortura quando Pol Pot e alcuni dei peggiori dittatori che l’umanità abbia mai conosciuto lo utilizzavano contro la propria gente; e si è trattato di tortura per l’esercito statunitense che una volta punì dei soldati che adottarono questa triste pratica.

E il waterboarding fu descritto dai giornali statunitensi come una “tortura”, quasi senza timore di smentita.

Questo fino al 2004, dopo l’arrivo di George W. Bush, Dick Cheney ed il loro concetto criminale di “tecniche avanzate di interrogatorio”. Per quattro anni – in quella che sarebbe dovuta essere la versione bizzarra di “parlare chiaro al potere”  – il waterboarding (vedi Lsdi, Ma che torture…) non è stato una tortura sui giornali USA. Dopodiché, il waterboarding inteso come tortura si è tiepidamente riaffacciato sul mondo del giornalismo, finché gente come Cheney e l’editorialista dell’Inquirer John Yoo hanno ripreso a tessere le proprie manovre mediatiche, e i giornali americani hanno coraggiosamente girato i tacchi e battuto la ritirata.

Questa sordida vicenda è sviscerata in un notevole report della Kennedy School of Government di Harvard (qui il PDF). Nel report si legge:

A partire dai primi anni ’30 fino alla storia moderna del 2004, i quotidiani che hanno affrontato il tema del waterboarding hanno quasi uniformemente definito la pratica come tortura o hanno sottinteso che lo fosse: il New York Times lo ha fatto nell’81,5% degli articoli scritti sull’argomento (44 su 54), mentre il Los Angeles Times raggiunge il 96,3% (26 articoli su 27). Al contrario, dal 2002 al 2008, gli stessi quotidiani non si sono riferiti quasi mai al waterboarding come ad una tortura. Il New York Times lo ha definito tortura o ha sottinteso che lo fosse solo in 2 articoli su 143 (1,4%), mentre nel Los Angeles Times la percentuale sale al 4,8% (3 su 63). Il Wall Street Journal ha definito la pratica come una tortura solo in 1 articolo su 63 (1,6%). USA Today non ha mai chiamato il waterboarding “tortura” ne ha mai sottinteso che  lo fosse.

Il report, inoltre, evidenzia come il waterboarding sia stato costantemente definito una tortura quando praticato da altre nazioni, ma quando è stato adottato in USA negli anni 2000 si è trattato di una pratica – parafrasando Nixon – non illegale. Lo studio dimostra scientificamente una cosa di cui abbiamo discusso sin dall’inizio ad Attytood, ovvero le tragiche conseguenze dell’elevazione di un innaturale concetto di obiettività in cui i giornali hanno abbandonato ogni basilare valore umano – persino quando si parla di un qualcosa di così netto come la tortura – per conferire eguale dignità morale a entrambi gli aspetti di una questione poco dibattibile (per non parlare della medesima attitudine zombesca dimostrata nell’affrontare una questione scientifica come i cambiamenti climatici).

In vita mia, non mi sono mai vergognato così tanto della mia professione, il giornalismo.

Nel report ci sono anche delle ottime analisi di Glenn Greenwald e di Adam Serwer, che scirve:

Nel momento in cui i Repubblicani hanno iniziato a disquisiresulla definizione di tortura, i media tradizionali si sono sentiti obbligati a trattare la questione come materia “controversa”, e al fine di non prendere nessuna posizione apparente, l’hanno fatta passare per qualcosa di incerto, piuttosto che per una plateale menzogna. Prendendo in prestito le parole di John Holbo, i media, messi di fronte ad entrambi gli aspetti della questione, hanno eliminato la ragionevolezza dall’equazione, in modo da poter essere “equi” nel giudicare entrambe le parti.

L’ironia, secondo Serwer – ed io sono completamente d’accordo – consiste nel fatto che sostenendo di lavorare duro al fine di non prendere alcuna posizione, i giornalisti che non hanno definito tortura il waterboarding stavano di fatto assolutamente prendendo una posizione, e stavano consegnando la vittoria in mano all’amministrazione Bush, che ha convinto la stampa ha mettere fine alle ambiguità smettendo di descrivere tale crimine così come avevano fatto per decenni prima del 2004. È una tattica che si è perpetrata fino ad oggi. Ed è la ragione per cui Cheney – che è stato pressoché invisibile mentre era in carica – e Yoo sono improvvisamente saltati alla ribalta a partire dal 21 gennaio 2009, poiché cercavano disperatamente di inquadrare il dibattito così come avevano fatto i giornali, ovvero sostenendo che le tecniche di tortura adottate erano in realtà un punto di disaccordo pubblico e politico, ma non un crimine di guerra.

E hanno tragicamente avuto la meglio. Erano a capo dell’America, hanno praticato la tortura, e l’hanno fatta franca. Mentre quotidiani e giornalisti guidavano la macchina usata per la fuga.

Personalmente, ritengo che questo report inquadri un problema ben più grande in America: di fatto, abbiamo perso la capacità di distinguere il bene dal male nella propria forma più basilare, a causa della necessità di filtrare tutto attraverso un qualche ingannevole prisma politico. Basta guardare alle torture del passato e all’udienza di Elena Kagan a Washington, e al modo vergognoso in cui i senatori repubblicani hanno dissacrato la memoria del giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall. Ciò che ha reso Marshall un grande americano è che ha iniziato con una verità inalienabile – ovvero che la segregazione ed altri trattamenti impari nei confronti dei neri e di altre minoranze costituissero un peccato contro l’umanità – ed era nostro dovere, non solo di americani ma in quanto esseri umani, porre fine a tale ingiustizia attraverso qualsiasi mezzo pacifico si dimostrasse necessario. Se Marshall si fosse comportato come l’attuale Partito Repubblicano vorrebbe che facesse, avremmo potuto dimenticarci un presidente afro-americano – in America ci sarebbero fontane pubbliche da cui Barack Obama non potrebbe bere.

Stiamo perdendo sempre più la nostra prospettiva, e forse stiamo perdendo anche la testa. Ci sono candidati al Congresso statunitense che paragonano le tasse pagate dai contribuenti per finanziare l’esercito o per sostenere la scuola pubblica alla schiavitù, o all’olocausto nazista. In quanto americani, dovremmo tutti cercare un termine di paragone più alto nel definire di cosa parliamo quando si parla di schiavitù, o di cosa parliamo quando si parla di tortura.

Eppure anche qualcuno dei miei colleghi ha fallito – giornalisti che hanno iniziato con una missione e che si sono smarriti in un pantano di politica e, forse, di autostima.

E questo va oltre la vergogna.