Google alla FTC Usa (e agli editori): è finita l’ era della scarsità artificiale di informazione

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“Problemi economici richiedono soluzioni economiche e non soluzioni normative” – La grande G replica con una “lezione” di storia (e di economia), alle critiche che gli aveva rivolto qualche settimana fa la Federal Trade Commission Usa – “Gli elevati margini di profitto che i giornali hanno realizzato in passato – ribatte Google in un documento di 20 pagine – si basavano su una scarsità artificiale: una scelta limitata per gli inserzionisti come per i lettori. Con internet questa scarsità è finita ed è stata rimpiazzata dall’ abbondanza. Nessuna dichiarazione politica potrà far ritornare  le cifre d’ affari dei giornali a come erano prima che nascesse l’ informazione online. Non si tratta di opporre dei dollari analogici a dei centesimi digitali, ma piuttosto di comprendere in maniera realistica come guadagnare soldi in un mondo in cui abbondano la concorrenza e le scelte degli utenti”

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“Problemi economici richiedono soluzioni economiche e non soluzioni normative”.

Google replica, con una “lezione” di storia (e di economia), alle critiche che gli aveva rivolto qualche settimana fa la Federal Trade Commission Usa (FTC, Commessione Federale del Commercio, il cui scopo è la ‘protezione del consumatore’). La Commissione, al termine di una serie di audizioni svolte allo scopo di individuare “soluzioni per reinventare il giornalismo”-, aveva rilevato che, a suo parere, la stampa avrebbe bisogno di proteggere i suoi diritti contro i motori di ricerca e gli aggregatori che “sfruttano i contenuti protetti dai diritti d’ autore senza pagarli”. E – segnala Businessinsider.com – aveva avanzato alcune proposte “politiche”, fra cui la riduzione dei diritti di utilizzo dei contenuti dei giornali da parte di motori di ricerca e aggregatori e la creazione di una esenzione dalle norme antitrust che consenta ai quotidiani di formare un cartello per obbligare i primi a pagare per accedere ai loro contenuti.

In un documento di 20 pagine, Google risponde con i suoi argomenti abituali (ma di buon senso) spiegando – rileva Benoit Raphael sul suo blog – che i motori di ricerca non saccheggiano l’ informazione, ma pubblicano dei link, svolgendo un servizio di pura segnalazione e rendendo accessibili i contenuti pertinenti alle richieste degli utenti.

Precisando che:

“Gli elevati margini di profitto che i giornali hanno realizzato in passato si basavano su una scarsità artificiale: una scelta limitata per gli inserzionisti come per i lettori. Con internet questa scarsità è finita ed è stata rimpiazzata dall’ abbondanza. Nessuna dichiarazione politica potrà far ritornare  le cifre d’ affari dei giornali a come erano prima che nascesse l’ informazione online. Non si tratta di opporre dei dollari analogici a dei centesimi digitali, ma piuttosto di comprendere in maniera realistica come guadagnare soldi in un mondo in cui abbondano la concorrenza e le scelte degli utenti”.

Con questa piccola lezione di economia digitale, rilevata da Jeff Jarvis sul suo blog:

“Le sfide che l’ industria dell’ Informazione deve attualmente affrontare sono di natura commerciale, non giuridica, e possono essere trattate in maniera efficace solo con delle soluzioni commerciali. Le proposte di regolazione che rimettono in causa il funzionamento di mercati in buona salute e impediscono l’ avanzre del cambiamento non sono la soluzione”

A cui – segnala ancora Raphael – Google aggiunge un’ altra lezione, ma di storia. Questa mania di accusare il mondo intero di saccheggio e/o di corruzione della conoscenza non è nuova:

“Nel 1929, al culmine della guerra fra i giornali e le radio, veniva impiegata contro queste ultime gli stessi argomenti e la stessa retorica (…).Secondo il professor Gwenyth Jackaway, della Columbia University, “i giornali sostenevano che i valori culturali (della nazione) sarebbero stati in pericolo se la radio avesse prevalso sul lavoro dei giornalisti (della carta). (…) Solo di giornalisti della stampaavevano la competenza per curare e diffondere l’ Informazione nel paese “.

Nel  1957, I giornalisti della carta stampata chiamavano le televisioni “parassiti” e osservavano che “esse dovrebbero occuparsi delle loro informazioni invece di approfittare dei nostri cervelli e della nostra esperienza…”.

“Nel 1955, i giornali si sono violentemente opposti alla decisione del presidente Eisenhower di aprire la conferenza stampa alla Casa Bianca ai giornalisti televisivi.”

“Dopo aver perso la sua Guerra contro la televisione, l’ industria dei giornali se l’ è presa con i telefoni…” (…) “Ad ogni innovazione nella comunicazione – nota il professor Jackaway – abbiamo assistito allo stesso tipo di discussione di quella che è in corso oggi”.

Mi ricordo il mio capo redattore che, quando lavoravo nella stampa locale, rifiutava qualsiasi collaborazione con le radio, accusandole di “rubare le nostre informazioni”, rileva Raphael.

Torniamo sempre alla stessa questione: qual è il valore di una informazione una volta che essa è stata resa pubblica? Chi può impedirle di circolare sui nuovi mezzi di comunicazione (telefono, radio, televisione, internet…) ? Dove andare a trovare il valore? Nell’ uso, nella tempestività, nella presentazione, nel servizio? La protezione dei diritti d’ autore deve arrivare fino a bloccare il servizio di filtro e selezione fornito ai lettori? Si può sopravvivere in una maniera diversa dalla regressione?

Ci si può certo interrogare oggi sui rischi di deriva monopolisica di Google (anche se oggi essi sono controbilanciati da Apple e Facebook), come bisognava fare al tempo del regno di Microsoft. Tocca alle autorità farlo. Ma non è un compito dei giornali. La loro missione è quella di adattarsi.

Non è lottando contro Google, come essa fa ormai da decenni contro i nuovi media, che la stampa impedirà a Internet di rivoluzionare i comportamenti e di renderla obsoleta.

La stampa piuttosto – conclude Raphael – dovrebbe preoccuparsi di capire come produrre e/o rendere accessibile i contenuti di valore che possono interessare le nuove generazioni in questa sovrabbondanza di informazioni. E, soprattutto, di monetizzare in maniera intelligente, non a colpi di barriere a pagamento in stile talibano, o di megasconti sulla vendita di spazi pubblicitari. In breve, di concentrarsi sul suo mestiere piuttosto che sprecare le sue energie per attaccare il mulino di Google.

Sta cominciando a farlo, certo. Ma potrebbe andare molto più veloce se non perdesse il suo tempo a chiedere allo Stato delle nuove armi per proteggersi o per uccidere quelli che hanno capito il mondo nel quale stiamo evolvendo.

– Raphael segnala anche questo altro articolo di Jeff Jarvis, in cui si spiega come gli argomenti dei vecchhi modelli contro i nuovi non siano cambiati molto dal… medioevo!