Da Indymedia a Wikileaks: la cultura giornalistica degli hacker e il futuro della professione

Indymedia New York nel 2002

Lo  scontro sviluppatosi attorno a Wikileaks, e le questioni giornalistiche che esso solleva, rappresentano degli sviluppi di tendenze a lungo termine di una storia che risale a quasi due decenni fa:  l’impatto del sito di Assange sul giornalismo è un impatto di grado piuttosto che di genere; ciò che sta accadendo non è del tutto nuovo, ma ha dimensioni senza precedenti – Su NiemanLab un’ analisi delle tendenze più recenti dell’ hack-attivismo sul giornalismo dei nostri giorni – La sfida che i giornalisti tradizionali oggi si trovano ad affrontare riguarda il come “fare i conti” con la presenza degli ‘’strani oggetti’’ che sono entrati nel Dna del giornalismo – Ma la differenza tra le fotografie dei cittadini e i database è una differenza di scala, e differenze di scala estreme alla fine si tramutano in differenze di genere – Per questo, sebbene possa essere rincuorante riempire le fila del giornalismo tirando dentro tutti i sostenitori della trasparenza digitale, è necessario che i giornalisti valutino quali aspetti di queste potenti comunità digitali intendono sposare e quali, invece, lasciarsi alle spalle – Ma ciò, osserva l’ analisi del NiemanLab, è possibile solo pensando storicamente al percorso intrapreso dal giornalismo digitale negli ultimi dieci anni, e comprendendo il modo in cui gli hacker ed i tecnomani odierni stiano plasmando il nostro flusso di informazioni

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From Indymedia to Wikileaks: What a decade of hacking journalistic culture says about the future of news
di  C.W. Anderson*

(a cura di Andrea Fama)

La prima volta che ho sentito le parole “mirror website” ero seduto dietro una scrivania piena di carte e oggetti, curvo su di un computer, al secondo piano di un edificio dell’ East Manhattan. Avevo da poco iniziato a collaborare come volontario con il New York City Independent Media Center (IMC), un’ organizzazione di punta del “citizen journalism” statunitense – anche se allora, agli esordi, nessuno lo avrebbe detto.

L’ IMC si trovava a seguire, grazie al contributo partecipativo degli utenti, le azioni di protesta contro il World Economic Forum di New York. Erano passati meno di cinque mesi dall’ 11 settembre; la città era fredda e desolata, e la gente era tesa. Molto tesa. E il nostro sito, NYC Indymedia, aveva subito un tale rallentamento che pensai che stesse per collassare, ma fui rassicurato: “non preoccuparti”,  mi dissero. “Lo abbiamo copiato su diversi server alternativi. Gli aggiornamenti degli utenti che stanno utilizzando Open Newswire non saranno immediatamente visibili, ma prima o poi saranno visualizzati e il pubblico potrà continuare a leggere gli aggiornamenti sul sito”.

Mi piacerebbe poter dire che il sito di Indymedia stesse per collassare perché – come per Julian Assange – era il bersaglio di potenti forze governative, ma nutro il sospetto che la lentezza del sito fosse dovuta ad un inaspettato sovraccarico del server e ad una debole infrastruttura di back-end, piuttosto che ad una qualsivoglia forma di cospirazione globale. Tuttavia, ho tirato un sospiro di sollievo. Tutto si sarebbe sistemato. Da qualche parte, qualcuno che  conosceva cose complicate come i “mirror” e i “server” si stava occupando della faccenda.

Tiro in ballo questa vecchia vicenda dalla preistoria del citizen journalism digitale perché, quando leggo tweets del tipo “la prima vera infoguerra ha avuto inizio, e il campo di battaglia è Wikileaks”, ritengo che valga la pena fare un passo indietro nel tentativo di ridare la giusta prospettiva ai recenti sviluppi. Lo  scontro sviluppatosi attorno a Wikileaks, e le questioni giornalistiche che esso solleva, rappresentano degli effettivi sviluppi – ma si tratti di nuovi sviluppi fondati su tendenze a lungo termine e su una storia che risale a quasi due decenni fa. L’impatto che Wikileaks ha sul giornalismo è un impatto di grado piuttosto che di genere; ciò che sta accadendo non è del tutto nuovo, ma ha dimensioni senza precedenti.

Vorrei parlare di due tendenze di massima che stanno plasmando il giornalismo, tendenze che nel corso dell’ultimo decennio si sono evidenziate negli sviluppi più all’ avanguardia dell’ “hacktivismo” giornalistico.

Internet e l’introduzione di nuovi “oggetti” nel DNA del giornalismo

A parte il collasso dei modelli di business, il primo cambiamento a dar forma al giornalismo dell’ultimo decennio è la comparsa di strani “oggetti in forma di notizie digitali” nel tradizionale lavoro giornalistico. Ai tempi in cui Indymedia copriva il World Economic Forum, questi nuovi oggetti erano costituiti dai resoconti in prima persona dei cittadini, da fotografie scattate sul posto e da altre forme primitive di citizen journalism caricate in tempo reale sul Web. Dal 2002, i media tradizionali hanno gradualmente adottato queste forme di testimonianza diretta, dalla CNN con iReport alla galleria di immagini crowdsourcing del New York Times, Moment in Time.

Ora assistiamo allo sforzo che diversi media compiono per integrare nel proprio lavoro tradizionale notevoli quantitativi di dati semi-strutturati, alcuni dei quali provenienti da attori non convenzionali del panorama dell’informazione, come Wikileaks. Partendo dal lavoro pionieristico di Lev Manovich, teorico dei media, Todd Gitlin, professore  presso la Columbia University, ha recentemente affermato che

… il database rappresenta la metafora definitiva dell’informazione della nostra epoca. Il database, di fatto, non è semplicemente una metafora, ma una certificazione di conoscenza e di come ottenerla. Una metafora è un tramite, una condensazione di significati. Un database è un mucchio di roba.

Se da un lato non concordo con Gitlin in merito al significato politico di Wikileaks, dall’altro condivido il fatto che la sfida che i giornalisti tradizionali oggi si trovano ad affrontare riguardi il come “fare i conti” con la presenza di questi strani, nuovi oggetti. Quale status giornalistico dovremmo accordare ai database, e come dovremmo gestirli all’interno della routine giornalistica convenzionale? Proprio come le prime fotografie scattate dai cittadini dai luoghi delle proteste o delle calamità naturali hanno comportato che i giornalisti ripensassero a cosa valesse come prova giornalistica, così la divulgazione lenta e costante a parte di Wikileaks di 250.000 dispacci diplomatici spinge i giornalisti a porsi domande simili su come operare. La differenza tra le fotografie dei cittadini e i database è una differenza di scala, e differenze di scala estreme alla fine si tramutano in differenze di genere.

La presenza di queste oggetti extragiornalistici non è affatto nuova, dunque. È da annui che nuove “quasi fonti” modificano il lavoro giornalistico. La novità è rappresentata dalle dimensioni del fenomeno che sta bombardando il giornalismo. La questione relativa alla gestione delle fotografie inviate dai cittadini è qualitativamente diversa dal dilemma riguardante la gestione di centinaia di migliaia di documenti riservati, divulgati da un’organizzazione per la trasparenza dell’informazione i cui valori e scopi ultimi non sono affatto chiari. Bisogna pensare ai documenti del Dipartimento di Stato come ad una vasta raccolte di prove in crowdsourcing – con la differenza che in questo caso la fonte è rappresentata dai corpi diplomatici degli Stati Uniti, ed il primo lavoro di raccolta ed analisi della documentazione è stato realizzato un’organizzazione esterna.

La lunga ascesa dei geek della notizia

Sia nel caso di Indymedia che di Wikileaks, gli sviluppi che hanno avuto il maggiore impatto sulle redazioni sono scaturiti da ciò che mi piace definire come “la motrice politicizzata più estrema” della comunità digitale dei geek. Non sorprende che, come nota l’antropologa dell’ hackeraggio Gabriella Coleman:

I geek con inclinazioni politiche cresciuti nell’ era dei PC a buon mercato, della programmazione fatta in casa e dell’ interazione virtuale, hanno scelto di usare i Free Software per implementare la proliferazione primigenia dei centri Indymedia. Mailing list e IRC (Internet Relay Chat) – all’epoca ampiamente disponibili in versione gratuita – sono stati  i principali strumenti di comunicazione che hanno favorito il dialogo tra attivisti della tecnologia lontani tra loro ed alle prese con l’ installazione dei primi centri in località come  Washington DC, Boston, Londra e Seattle.

Dieci anni dopo, la storia è per lo più la stessa. Oggi, i giornalisti si trovano a fare i conti con ideologie legate alla “liberazione dell’ informazione” e con termini come “DDoS” (distributed denial of service attacks, ovvero attacchi informatici volti a rendere inoperativi i fornitori di servizi online) e “siti mirror”. Sebbene tali idee ed innovazioni non siano state create in seno al giornalismo, vanno comunque ad impattare sul flusso dell’ informazione e, quindi, sul giornalismo stesso. Qualche giorno fa ho scritto che Wikileaks è “anarchismo informativo organizzato con conseguenze giornalistiche”. Questo nuovo mondo di informazione ed innovazione messo in moto dai geek richiede risposte adeguate da parte dei nostri centri per la formazione giornalistica e delle nostre redazioni.

Tralasciando l’ hacker occasionale con il debole per le notizie, è importante che i giornalisti comprendano che non tutte le culture hacker sono le stesse. Anonymous non è Wikileaks. Di fatto, sia Anonymous che altri gruppi di hacker sono stati solerti nel far notare che i cosiddetti DDoS non hanno nulla a che fare con l’ hackeraggio. Gli amici tecnomani che nel 2002 mi hanno insegnato per la prima volta cosa fosse un sito copia erano elementi decisamente unici nel mondo dell’open source, dove in pochi nutrivano un interesse per il giornalismo o per il World Economic Forum.

Sebbene possa essere rincuorante riempire le fila del giornalismo tirando dentro tutti i sostenitori della trasparenza digitale, è necessario che i giornalisti valutino quali aspetti di queste potenti comunità digitali intendono sposare e quali, invece, lasciarsi alle spalle. Ma ciò è possibile solo pensando storicamente al percorso intrapreso dal giornalismo digitale negli ultimi dieci anni, e comprendendo il modo in cui gli hacker ed i tecnomani odierni stiano plasmando il nostro flusso di informazioni.

*(docente al Department of Media Culture del College of Staten Island  e ricercatore alla Columbia University Graduate School of Journalism)